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Dalla fine delle sinistre nazionali ai movimenti sovversivi per l’Europa

Toni Negri

I. Quando si dice globalizzazione dei mercati si intende che con essa vanno imponenti limiti alla sovranità dello Stato-nazione. Il fatto di non aver compreso la globalizzazione come un fenomeno irreversibile costituisce l’errore essenziale delle sinistre nazionali nell’Europa occidentale. Fino alla caduta dell’Unione Sovietica la leadership americana consistette nel combinare, prudentemente ma con continuità, le specificità nazionali dei paesi compresi nelle alleanze occidentali (e nella Nato soprattutto) e la continuità dell’imperialismo classico, raggruppandoli dentro un dispositivo di antagonismo con il mondo del “socialismo reale”. Dal 1989 in poi, crollato il mondo sovietico, allo hard power della potenza americana si è man mano sostituito il soft power dei mercati: la libertà dei commerci e la moneta hanno subordinato, in quanto strumenti di comando, il potere militare e di polizia internazionale – il potere finanziario e la gestione autoritaria dell’opinione pubblica hanno d’altra parte costituito il campo sul quale soprattutto si è esercitata la nuova impresa politica di sostegno alla politica dei mercati. Il neoliberalismo si è fortemente organizzato a livello globale, gestisce l’attuale crisi economica e sociale a proprio vantaggio avendo verosimilmente davanti a se un orizzonte radioso…. A meno di rotture rivoluzionarie, non essendo immaginabile una trasformazione democratica e pacifica degli attuali ordinamenti politici del neoliberalismo sull’orizzonte globale.

Di contro, al rafforzamento del sistema capitalistico nella forma neoliberale, lo sbandamento delle forze politiche della sinistra dopo ’89 è stato massiccio.

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Shipping globale: Zeus batte Wotan

Sergio Bologna

Il capitale greco che fotte il capitale tedesco. Sembra una barzelletta, invece non lo è e la signor Merkel, così severa, certe volte, con gli stati "birichini" che spendono e spandono mentre la loro economia va a picco e produce milioni di disoccupati, dovrebbe oggi dimostrare la stessa, se non maggiore, severità verso i "birichini" di casa sua.

Stiamo parlando di shipping, di navi. Che c'entra la Germania con la Grecia? Cominciamo da quest'ultima. E' noto che lo shipping è l'unico settore dove la Grecia ha una leadership mondiale. Sono leggendari gli armatori greci, soprattutto per la loro abilità nel non pagare le tasse. Mentre milioni di greci stringono la cinghia, loro a dicembre hanno festeggiato le loro fortune in un ricevimento di mille persone in un grande hotel di Londra. La loro specialità tradizionale sono le petroliere ma ormai da un po' di tempo si sono allargati anche ad altri settori, le «bulk carrier», le container carrier, le Ro Ro. Se la sono vista molto brutta qualche anno fa, con la crisi del 2007/2008 ma, a differenza di altre volte, il Salvatore non ha assunto le modeste vesti del contribuente greco ma quelle ben più ricche della moneta cinese. Scriveva il Telegraph del 13 agosto 2012: «Le società greche stanno facendo squadra con le banche cinesi. Il premier Wen Jiabao ha consentito due anni fa che venissero erogati prestiti per 5 miliardi di dollari all'industria dell'armamento greca».

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Ricchezza e povertà, i successi della globalizzazione

Bruno Amoroso*

I. INTRODUZIONE

La produzione e riproduzione continua della povertà avviene oggi su scala globale dentro un sistema di potere che comprende l`economia, le istituzioni, i mass media e anche una parte importante dei centri di ricerca e formazione.

Questo sistema è stato chiamato Globalizzazione ed ha prodotto in cinquanta anni i recinti che delimitano gli ambiti delle nuove ricchezze e dei nuovi privilegi, a scapito degli impoveriti e degli esclusi. Un sistema di apartheid globale che ha trasformato la società dei 2/3 costruita con i sistemi di welfare (dove gli esclusi, i poveri, erano un terzo) nella società di 1/6, mediante la caduta verticale delle condizioni di vita di gran parte della popolazione mondiale (Petrella 1993, Amoroso 1999).

Il fenomeno più eclatante, via via accresciutosi nel corso degli ultimi trenta anni, è stato il crescere della povertà, anche nelle forme più manifeste, all`interno dei paesi industrializzati e dei sistemi di welfare europeo a fronte dell`ulteriore impoverimento e finanche della distruzione fisica delle aree remote e rurali e dei ghetti urbani. Il fallimento del Millennium Development Goal (MDG) che si proponeva di dimezzare la povertà nel mondo è riconosciuto dagli stessi organismi delle Nazioni Unite.

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Giovanni Arrighi e l’eterno ritorno del Capitale

di Fabio Milazzo

I Cicli di accumulazione del Capitale

“Crisi” è uno di quei termini che quotidianamente vengono fatti rimbombare nelle nostre orecchie e che, proprio per questo, spesso diventano “impercettibili” alle nostre strutture cognitive. Assumendo lo statuto di “rumore di fondo” non li si discrimina più percettivamente e cognitivamente.

Porre sotto attenzione questo “silenzio del rumore” equivale a significarlo, a riscoprirlo, ad indagarlo nelle sue componenti troppo spesso celate nelle pieghe dell’abitudine.

Crisi, capitalismo e finanza, sono termini che devono essere tratti fuori da quello stato di invisibilità dovuto alla “troppa visibilità”. Al pari della “lettera” di E.A.Poe queste parole ci si celano proprio perché ci stanno sempre davanti.

Quando Giovanni Arrighi (foto), per anni docente di sociologia alla prestigiosa Johns Hopkins University di Baltimora, iniziò ad indagare l’oggetto “crisi economica”, le sue lenti di osservazione si diressero verso la stasi degli anni 70; questo nella consapevolezza che la comprensione del fenomeno passasse per un’analitica di ampio respiro che traesse fuori l’evento dalla contingenza per relazionarlo alla congiuntura di riferimento, quella del “lungo secolo XX”.

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znet italy

Il capitalismo globale e la sinistra

Jamie Stern-Weiner intervista Leo Panitch

sole fumoIn quale senso il capitalismo è un sistema ‘globale’?

Il nostro mondo è tuttora in gran parte costituito da stati nazione con economie e strutture di classe e sociali molto diverse.

Detto questo, molte delle economie sono integrate nelle reti di produzione delle imprese multinazionali (MNC) che producono, esternalizzano o appaltano in molti paesi diversi. Molti stati sono oggi altamente dipendenti, per una percentuale elevata del loro PIL, dalle esportazioni e dagli scambi che, a loro volta, sono inestricabilmente collegati a sistema bancario internazionale (attraverso i crediti al commercio, i derivati del mercato delle divise, e così via). Le banche commerciali e d’investimento sono diventate interamente internazionalizzate. Da questo punto di vista si può dire che ciò di cui parlava Marx intorno al 1850 – del capitalismo come sistema con tendenze globalizzanti – si è più o meno avverato.


Quale ruolo svolgono gli stati nel sostenere questo ordine capitalista globale?

Il nostro libro inizia con due citazioni. Una è di David Held, già della London School of Economics, che nei primi anni ’90 parlò di una crescente economia mondiale transnazionale che scavalcava anche gli stati più potenti. La seconda è di Eric Hobsbawm, nel suo magnifico ‘Age of Extremes’ [L’epoca degli estremi], e afferma che le MNC preferirebbero un mondo ‘popolato da stati nani o da nessuno stato del tutto’.

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Per le Elites saremo tutti abitanti di Gaza*

Chris Hedges

Gaza è una finestra sulla nostra prossima distopia. Il crescente divario tra l'élite mondiale e le miserabili masse dell'umanità  è mantenuto da una spirale di violenza. Molte regioni povere del mondo, sprofondate nella crisi economica, stanno cominciando ad assomigliare a Gaza, dove 1,6 milioni di Palestinesi vivono nel più grande campo di internamento del pianeta. Queste zone sacrificate, piene di poveri penosamente intrappolati nelle baraccopoli o tra gli squallidi muri di fango dei villaggi, sono circondate da recinti elettronici, controllate da telecamere di sorveglianza, droni e guardie di confine o unità militari che sparano per uccidere. Queste distopie da incubo si estendono dall'Africa sub-sahariana, al Pakistan, alla Cina. Sono luoghi dove avvengono assassinii mirati, brutali attacchi militari contro popoli inermi, privi di esercito, marina o aviazione. Qualsiasi tentativo di resistenza, benché inefficace, è colpito con i massacri indiscriminati che caratterizzano la moderna guerra industriale.

Nel nuovo panorama mondiale, nei territori occupati di Israele come nei progetti imperiali degli Stati Uniti in Iraq, Pakistan, Somalia, Yemen e Afghanistan, massacri di migliaia di nnocenti inermi sono etichettati come guerre. La resistenza è chiamata provocazione, terrorismo o crimine contro l'umanità. Lo stato di diritto, nonché il rispetto delle fondamentali libertà civili e il diritto di autodeterminazione, sono una finzione utilizzata nelle pubbliche relazioni per placare le coscienze di coloro che vivono nelle aree di privilegio.

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"Temperare" il capitalismo, la più vecchia delle illusioni

di  L.Vasapollo- J. Arriola -R.Martufi

Una divaricazione sempre più evidente sulle vie d'uscita dalla crisi del capitalismo. Una, di rottura, viene da esperienze come l'Ecuador, l'altra, all'insegna della compatibilità, è riemersa al Social Forum di Firenze. Il contributo di tre economisti marxisti che indicano come necessaria la “rottura”, anche in Europa

Nei primi giorni di novembre abbiamo verificato la divaricazione strategica (oltrechè pratica e teorica) sulle soluzioni e le alternative alla crisi delle principali economie capitaliste. Mentre a Milano il presidente dell'Ecuador Correa riaffermava che il debito non va pagato, che occorre procedere alle nazionalizzazioni e a forme di integrazione tra i vari paesi che rompano i vincoli imposti dalle istituzioni finanziarie del capitale, al Social Forum di Firenze, ancora una volta, una serie di economisti riformisti lanciano attraverso la Rete europea degli economisti progressisti proposte in chiave tardo-keynesiana come cura possibile della crisi sistemica del capitalismo in atto. Dimostrando così ancora una volta o di essere in mala fede, e quindi non meriterebbero in tal senso alcuna risposta, o di essere speranzosi in una futura uscita dalla crisi in chiave riformista (ma di quale riformismo sono figli?), ignorando che non ci sono più i presupposti economici, politici e sociali per una crescita equilibrata e con capacità redistributive attraverso i vecchi e non più proponibili modelli di Stato sociale; improponibili sia per le dinamiche del conflitto capitale-lavoro che vedono avanzare sempre più un conflitto di classe dall’alto, sia poiché si tratta di politiche economiche incompatibili con la strutturazione stessa della competizione globale interimperialistica.

Anche questa volta associazioni, sindacalisti ed economisti hanno discusso a tavolino, fuori dai problemi di vita reali e quotidiani reali del mondo dei lavoratori in carne ed ossa , contro le politiche della Troika per esaminare le possibilità alternative alla crisi, o meglio per dare indicazione di come uscire “a sinistra” dalla crisi, come si trattasse di un bel gioco a Risiko per i dopocena della sinistra salottiera.

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Dopo il cenacolo del Matese: l’esodo dalla crescita

Franco Piperno

immigrazione italiana nel mondo internaLa crescita economica come “ragione d’essere” della società capitalistica è un idolo pubblico relativamente recente; infatti, è venuto diffondendosi nell’opinione dopo la crisi del 29, con l’affermarsi della politica economica di tipo keynesiano e del contemporaneo emergere del PIL come misura dell’accumulazione capitalistica. Proprio perché in quegli anni la crisi capitalistica ha luogo in presenza di un mercato rivale, sottratto agli scambi capitalistici – ovvero, l’Unione Sovietica – proprio per questo, dicevamo, l’accumulazione di capitale s’incentra sul cittadino consumatore; e cioè, in ultima analisi, sul reddito pro-capite.

Questo modello entra in crisi già negli anni 70 del secolo appena trascorso, per ragioni che qui sarebbe lungo elencare in dettaglio, ma che possiamo riferire, per brevità, a quell’indimenticabile ondata di lotte operaie e studentesche che ha caratterizzato quell’epoca.

La prima manifestazione politica di questa crisi è il tentativo della Thatcher nel Regno Unito e di Reagan negli Usa di smantellare i dispositivi keynesiani a favore di una finanziarizzazione dell’economia.

Possiamo dire che la fase inaugurata dal duo Thatcher–Reagan s’incentra questa volta sul debito, con tutti gli attributi ideologici che una permanente “condizione umana debitoria” porta spontaneamente con sé: l’introduzione spasmodica di continue innovazioni di prodotto create dall’attività di ricerca tecnico-scientifica messa al servizio dell’accumulazione, la fiducia superstiziosa nel nuovo, il farsi carico di nipoti ancora non nati, il privilegio sentimentale accordato al futuro remoto, quando saremo tutti morti.

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znet italy

Il governo liberale del mondo: “progredite” o vi uccidiamo

di John Pilger

Qual è il più potente e violento “-ismo” del mondo? La domanda evocherà i soliti demoni, quali l’islamismo, ora che il comunismo ha lasciato le scene.

La risposta, scrisse Harold Pinter, è solo “superficialmente annotata, per non parlare della sua documentazione, per non parlare del suo riconoscimento,” perché una sola ideologia pretende di essere non-ideologica, né di destra né di sinistra, la via suprema. E’ il liberalismo.

Nel suo saggio del 1859, Sulla libertà, cui rendono omaggio i liberali moderni, John Stuart Mills descrisse il potere dell’impero. “Il dispotismo è una forma di governo legittima nel trattare con i barbari”, scrisse, “a condizione che il fine sia il loro progresso e i mezzi siano giustificati dall’effettivo conseguimento di tale fine.” I “barbari” erano vasti segmenti dell’umanità dai quali era richiesta “implicita obbedienza”.

Anche il liberale francese Alexis de Tocqueville riteneva la conquista sanguinaria di altri “un trionfo della cristianità e della civilizzazione” che era “chiaramente preordinato agli occhi della Provvidenza.”

“E’ un mito piacevole e comodo che i liberali siano pacificatori e i conservatori siano guerrafondai”, ha scritto nel 2001 lo storico Hywell Williams, “ma l’imperialismo di tipo liberale può essere più pericoloso a causa della sua natura indeterminata, della sua convinzione di rappresentare una forma superiore di vita [negando contemporaneamente il proprio] fanatismo ipocrita.”

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marx xxi

La rivoluzione nel mercato mondiale passa (nuovamente) dalla Cina

di Pasquale Cicalese

Gli occidentali si stracciano le vesti, le borse sprofondano giacché il segnale che proviene dall’import cinese di marzo (+5,9% annuo) rifletterebbe la frenata dura dell’economica di quel Paese.

Gli occidentali, immemori, non sembrano dare conto di un dato storico: nel primo trimestre del 2002 l’attivo commerciale della Cina è di appena 670 milioni di dollari, contro circa 40 miliardi di euro del surplus tedesco nello stesso periodo.

Tale numero rivela un cambiamento storico nel mercato mondiale. Per capirlo è utile analizzare cosa è avvenuto in Asia a partire dalla crisi del ‘97/’98. In quel periodo tutte le tigri cadono a terra, Fondo Monetario e Banca Mondiale si precipitano nelle capitali asiatiche per imporre alle popolazione di quei paesi il cosiddetto “Washington Consensus”, vale a dire terapie d’urto consistenti in privatizzazioni, deregolamentazioni, liberalizzazioni delle finanze e abbassamento dei livelli di vita.

Contro i desiderata occidentali avvengono però tre fatti “storici”: 1) i coreani si precipitano a decine di migliaia a consegnare oro alla banca centrale; con questo messaggio fanno capire chiaramente che non hanno nessuna intenzione di perdere un apparato industriale costruito con il sangue; 2) il premier malese Mahatir Mohamed sbatte fuori gli emissari del “Washington Consensus” e adotta politiche espansive; 3) fattore sconvolgente, che spiazzerà gli occidentali, è la mossa cinese di non svalutare lo yuan permettendo alle altre valute asiatiche di aver sbocchi commerciali.

Con questa mossa la dirigenza cinese si assicura l’amicizia delle potenze asiatiche nel primo decennio del 2000.

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Dall'ora globale all'ora locale

di Franco Piperno

“Il presente musicale viene costruito permettendo a dei suoni d’essere in sincronia mentre altri stanno in un rapporto di prima e di dopo. Il presente della comunità è costruito permettendo ad alcune azioni di dispiegarsi in contemporanea mentre altre sono soggette alla relazione di prima e di dopo. Il tempo non ha direzione, non scorre.” Pataturk.

I. La crescita esponenziale ed il tempo dell’impero

Via via  che l’unificazione del mercato mondiale impone a masse crescenti d’esseri  umani  d’adottare, sotto la maschera  dei diritti  universali,  l’interesse composto -- ovvero la crescita esponenziale --  anche i ritmi e gli strumenti di lavoro diventano simili, mentre quelli scientifici per parte loro risultano identici. Va così  rattrappendosi  la molteplicità dei modi temporali costruiti fin dall’inizio della storia della nostra specie. A differenza delle religioni o delle ideologie politiche che, pur essendo intolleranti le une verso le altre, ammettono al loro interno ampie variazioni, la civilizzazione ipermoderna – ovvero la crescita esponenziale --  consente solo differenze irrilevanti da un paese ad un altro; mentre il calcolo scientifico, come il gioco degli scacchi,  non ne consente nessuna.

Si badi, gli Imperi a noi contemporanei -- USA, Unione Europea,Cina, India, Federazione Russa, Brasile -- non si contrappongono  come civilizzazioni alternative,irriducibilmente diverse;  si limitano a competere tra di loro In quanto capitalismi imperiali per i quali la misura del successo è data dai tassi di crescita  nella produzione di merci per il mercato mondiale unificato. 

Emerge, così, proprio nell’attualità della crisi che stiamo vivendo, una inedita e qualche po’ raccapricciante forma di cooperazione generalmente umana, quella di un mondo globale temporalmente omologato, dove la tecno-scienza  assicura, in primo luogo tramite il computer, la così detta “governance”, ovvero il dominio del progresso, il dominio dell’interesse composto.

Marx, sia detto per inciso, che pure intuiva la tendenza famelica del capitale a mangiarsi il mondo, aveva pure intravisto, in questa sciagura, una uscita di sicurezza : l’omologazione mercantile come condizione di possibilità per il riaffiorare di una potenzialità naturale, quella dell’individuo sociale, dalla coscienza enorme, all’altezza del la specie.

Va da sé che il capitalismo non ha aspettato la globalizzazione  per imporre, tramite i missionari ed il mercato -- che usano andare insieme --  la sua temporalità alle comunità umane; giacché, in effetti, un mercato mondiale è sempre esistito.

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La chiusura del cerchio

Elisabetta Teghil

In questa fase neoliberista del capitalismo, lo scontro tradizionale che avveniva per la conquista delle materie prime e la penetrazione nel mercato dei paesi del terzo mondo, oggi investe anche i paesi occidentali.

Questa è la chiave di lettura dell'improvvisa apparizione del debito nel panorama economico dei paesi dell'Europa occidentale.

I paesi più indebitati al mondo, sia in assoluto che in rapporto alla popolazione locale e alla ricchezza produttiva, sono gli Stati uniti e l'Inghilterra.

Allora vediamo che la vicenda- debito è strumentale e fa parte di un unico progetto: svendere l'economia dei paesi così detti indebitati alle multinazionali anglo- americane.

L'obiettivo, per rimanere in Italia, è di appropriarsi delle riserve auree dello Stato e mettere mano ai risparmi delle famiglie, due aspetti che caratterizzano il nostro paese rispetto agli altri, perché alcuni non hanno riserve auree consistenti come quelle italiane e, in altri, le famiglie sono fortemente indebitate e non ci sono risparmi da saccheggiare.

Lo stesso avviene per la casa. Anche in questo campo, in Italia, c'è una grande tradizione rispetto alla proprietà della casa. E anche questa è nel mirino di banche e finanziarie.

Per fare ciò, l'Italia si è dotata di un iperbolico apparato di controllo e, accanto alla guardia di finanza, ha messo su Equitalia, una struttura mastodontica, per mezzi e uomini, per poter raggiungere questo obiettivo.

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L’ascesa del capitalismo dei disastri

di  Massimo Cappitti

Pubblichiamo una riflessione di Massimo Cappitti sulle tesi sostenute da Naomi Klein in un libro di qualche anno fa, Shock Economy, e che oggi rivelano tutta la loro attualità; l’articolo proviene dal sito della rivista “Altro Novecento”

Hannah Arendt, ne Le origini del totalitarismo, scrive che «i campi di concentramento e le camere a gas» – senza dubbio «la soluzione più sbrigativa del problema della sovrappolazione, della superfluità economica e dello sradicamento sociale» – lungi dal costituire un «monito» possano, al contrario, rappresentare anche per le società democratiche un «esempio», una tentazione, cioè, destinata a riproporsi quando appaia «impossibile alleviare la miseria politica, sociale o economica in maniera degna dell’uomo».

Quelle soluzioni, pertanto, mantengono, nel presente, la propria efficacia, pronte ad essere utilizzate allorché, ad esempio, si profili l’esistenza di un altro ritenuto a tal punto nemico da risultare irriducibilmente incompatibile con l’ordine sociale vigente. L’altro – qualunque sembiante assuma – può diventare, secondo un dispositivo implacabile, sterminabile. Dapprima si costruisce il nemico, spogliandolo delle qualità umane che lo rendono soggetto degno di riconoscimento e cura; così trasformato in una «non persona» ed esposto all’isolamento, diventa oggetto della violenza dello stato. Violenza giustificata dalla convinzione che, soltanto eliminando il nemico assoluto, si possano efficacemente preservare la compattezza e la salute del corpo sociale dalla minaccia che quello incarna.

Di questo nesso, ovvero del legame tra «libertà economica e terrore politico», e di come questo rapporto abbia segnato in modo doloroso la storia degli ultimi decenni tratta Shock Economy, edito da Rizzoli (pp.622, € 20,50), di Naomi Klein.

L’autrice ripercorre, in modo rigorosamente documentato, «l’ascesa del capitalismo dei disastri» dai primi esperimenti in Cile e Argentina fino ai conflitti israelo-palestinese e iracheno, attraverso le vicende della Polonia e della Russia post-comuniste, dei paesi asiatici dopo la crisi finanziaria della metà degli anni ’90, del Sudafrica dopo l’apartheid, della Cina e, ancora, dei paesi travolti dal maremoto del 2004.

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I demolitori del 15 ottobre e il futuro del movimento

Intervista a Emiliano Brancaccio

Dalle piazze di Madrid, dove tutto è cominciato lo scorso 15 maggio, la protesta si è estesa nel resto del mondo. Sabato 15 ottobre gli “indignati” hanno sfilato per le strade di 950 città – da Honk Kong a Boston, da San Paolo a Kuala Lumpur, da Sidney a Tokyo – denunciando i drammatici effetti sociali della crisi economica scoppiata nel 2007/2008 e l'assenza di risposte all'altezza della gravità della situazione da parte della politica e dei governi. Non è un caso se le file di “indignados” sono composte sopratutto da giovani, i più colpiti dalla disoccupazione di massa legata alla brusca contrazione di produzione e reddito che si è registrata quando la crisi finanziaria si è scaricata sull'economia reale.

A Roma una grande manifestazione cui hanno preso parte oltre centomila persone è degenerata in violentissimi scontri. Il bilancio provvisorio è di 70 feriti (tre gravi), 12 arrestati, una città messa a ferro e fuoco per diverse ore e il solito, inevitabile, strascico di polemiche. Ancora una volta queste discussioni hanno oscurato le ragioni di una protesta che, come ha scritto Guido Rossi sul Sole 24 Ore, “nasce da mille, troppi disagi e merita di essere esplorata con spirito analitico”. Ne abbiamo parlato con Emiliano Brancaccio, economista dell'Università del Sannio assai critico con quelle politiche di austerità varate dai governi europei che, insieme alla Bce e al mondo della finanza, erano il bersaglio privilegiato degli slogan dei cortei di sabato. Brancaccio segue da anni le vicende dei movimenti e nel 2002 è stato relatore della proposta di legge di iniziativa popolare promossa da Attac per l’istituzione della Tobin tax.


Partiamo dalla giornata di sabato. Che idea si è fatto di ciò che è accaduto a Roma?


In tutta franchezza non intendo accodarmi alla consueta discussione etico-normativa su “violenza” e “non violenza”.

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Orwell reloaded

Il mondo criminale del capitale e dei Megamedia odierni

di Franco Soldani

1.      Kafka in abiti giuridici

La risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, un provvedimento adottato il 17 marzo 2011, dispone l’attuazione di una serie di misure atte ad affrontare la cosiddetta crisi innescata dalla guerra civile libica. Tra le altre cose, in modo particolare autorizza la comunità internazionale:

■ad istituire una no-fly zone in Libia;

■a utilizzare tutti i mezzi necessari per proteggere i civili e porre fine alle violenze e agli attacchi nei loro confronti;

■ a rafforzare l’azione contro i mercenari e loro nuovi arrivi;

■ imporre un cessate il fuoco.

La R1973, proposta non a caso da Sati Uniti, Francia e Gran Bretagna, si sostanzia di ragioni che in pratica rappresentano altrettanti argomenti tipici della propaganda. Ovvero sia sono falsi e non corrispondenti al vero, nel senso che non sono mai accaduti, come dimostrato da molteplici fonti, sia hanno in definitiva natura opposta a quella che ci è stata presentata. Con la R1973, in altre parole, varchiamo subito la soglia di un regno surreale e veniamo introdotti d’un colpo in un mondo dell’assurdo. Infatti, le potenze guida dell’Occidente propongono l’adozione di misure militari contro un paese sovrano tramite il ricorso ad una doppia logica:


A)

            ►sia sulla base di un vero e proprio coup da esse fomentato e finanziato, innescato dai loro agenti a Bengasi (detti ribelli ma forse meglio qualificabili come marrani al soldo dello straniero, cloni di laboratorio dei servizi statunitensi);

           ►sia sulla base di un preventivo intervento sul suolo libico, un vero e proprio atto di guerra in spregio di ogni diritto internazionale, tramite le loro covert operations e i loro reparti di intelligence in armi, ben prima dell’inizio delle ostilità.