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«Trasformano il timore in indignazione»
La Comune di Madrid e il movimento globale
Written by Marco Assennato
0 - 1676: Scrive Spinoza, nel suo Trattato Politico (IV, 4), che il potere politico pecca - viene meno alla sua ragion d’essere - quando pensa di poter fare quello che vuole di una cosa che considera in suo possesso. Persino la proprietà insomma, fonte ultima dell’unico nómos ancora positivo in terra, esiste all’interno d’un limite, superato il quale essa diviene impedimento, dominio parassitario sul libero dispiegarsi della vita collettiva. «Analogamente - continua il filosofo - se pure diciamo che gli uomini non godono del loro diritto, ma sono soggetti al diritto della società civile ciò non significa che hanno cessato di essere uomini per acquistare un’altra natura, e che quindi la società abbia diritto di far sì che gli uomini [...] riguardino con tutti gli onori cose che provocano il riso o la nausea». Se il potere costituito dà mostra delle sue corruzioni, o viola e disprezza le leggi che s’è dato e sulle quali si regge, se impedisce la vita della collettività o rapina gli uomini e le donne allora «il timore si trasforma in indignazione».
Ed è proprio attorno all’indignazione che ruota la geometria politica delle passioni spinoziste: contrapposta alla speranza - passione triste che deprime la capacità d’aggregazione collettiva, registrandone al più la nostalgia o peggio la paura d’assenza - l’indignazione produce invece l’uscita dallo stato passivo verso l’attiva costruzione della dinamica collettiva. Che sia questa l’origine del nome che scuote le piazze spagnole, e prosegue il lungo tremore del continente europeo, non possiamo dirlo. Certo però la dinamica pare la stessa. E di questa dinamica vogliamo occuparci qui. Perché essa forma appunto l’uscita dalla paura, dal timore, e marca un passaggio d’ostilità, che pare a chi scrive gravido di potenza costituente. Usiamo Spinoza come immagine dialettica, ricordo sovversivo e selvaggio. In fondo fu, a suo tempo, un migrante anche lui, uomo in fuga, che dovette fare dell’Europa (dalla Spagna al Portogallo fino all’Olanda del Seicento si dispiega la narrazione della vita della famiglia De Espinosa) il luogo minimo di riferimento per la sua vita. E anche questo carattere biografico transnazionale fa sorridere, e parla d’oggi.
1 - Luoghi del bando: l’indignazione sembra presentarsi in scena arrivando da un qualche punto esterno del territorio amministrato. Gente messa a bando che torna a bussare alle porte della città. Che movimenti sono? che dinamica politica innescano? dopo la rivolta delle banlieues francesi, Mario Tronti tornò a riflettere su quel passaggio che vedeva i senza parte nella partizione della scena politica metropolitana, definire una rivolta a suo dire etica, prepolitica, contro il potere costituito. Lo chiamò potere destituente: «una critica delle condizioni di fatto pura e semplice che è da sola talmente forte da avere capacità di aggregazione e mobilitazione», dove il primato non è tanto al progetto di costruzione di qualcosa ma alla destituzione di ciò che c’è in campo.
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Eurobond? No, meglio una buona contraerea
di Comidad
La penosa performance di Merkel e Sarkozy della scorsa settimana ha suscitato un commento caustico da parte dell'ex ministro ed ex Presidente del Consiglio Giuliano Amato, attualmente senior advisor di Deutsche Bank. In un articolo su "Il Sole-24 ore" del 21 agosto, dal titolo "Van Rompuy, batti un colpo", Amato ha sottolineato l'estemporaneità della posizione Merkel-Sarkozy, appellandosi al presidente permanente dell'Unione Europea, Herman Van Rompuy, al fine di un rilancio delle procedure istituzionali dell'UE, ed anche perché venga presa seriamente in considerazione la proposta degli eurobond, già cara al ministro Tremonti.(1)
Se ad Amato è risultato sin troppo facile fustigare il velleitarismo di Merkel e Sarkozy, ivi compresa la boutade di inserire nelle Costituzioni degli Stati il vincolo del pareggio di bilancio, però non è riuscito a sfuggire anche lui alla stessa incapacità di arrivare al dunque. Van Rompuy si è infatti deciso a battere un colpo, ma solo per dare ragione alla Merkel e per rimandare gli eurobond al giorno in cui tutti gli Stati della UE avranno il bilancio in pareggio (o "virtualmente" in pareggio).(2)
Quell'enigmatico avverbio ("virtualmente") conferisce anche alla posizione di Van Rompuy quel tocco di cialtroneria che lo riconsegna alla medesima antropologia servile dei Sarkozy o dei Merkel. Ma bisogna comunque ammettere che la risposta di Van Rompuy può essere agevolmente tradotta. Il suo significato "virtuale" è infatti questo: di eurobond non se ne parla, ma se per caso un giorno dovessero far comodo alle banche, allora ci scorderemo anche dei vincoli di bilancio, tanto sono soltanto feticci per spaventare i gonzi. Quanto sia subdolo e pretestuoso il vincolo di bilancio, è dimostrato proprio dalle "terapie anti-deficit" che vengono imposte, cioè le privatizzazioni. Insomma, dietro la manovra c'è la solita manovra: privatizzare.
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Come Goldman Sachs Ha Creato la Crisi Alimentare*
di Frederick Kaufman
Non prendetevela con gli appetiti americani, l'aumento dei prezzi del petrolio o le colture geneticamente modificate per il rincaro dei prodotti alimentari. Wall Street è il colpevole
La domanda e l'offerta sicuramente c'entrano. Ma c'è un altro motivo per cui i beni alimentari in tutto il mondo sono diventati così costosi: l'avidità di Wall Street.
Ci sono volute le menti brillanti di Goldman Sachs per realizzare la semplice verità che nulla è più prezioso del nostro pane quotidiano. E dove c'è un valore, ci sono soldi da fare. Nel 1991, i banchieri di Goldman, guidati dal loro lungimirante presidente Gary Cohn, hanno avviato un nuovo tipo di prodotto di investimento, un derivato con 24 materie prime sottostanti, dai metalli preziosi all'energia, caffè, cacao, bestiame, mais, maiale, soia e grano. Hanno pesato il valore di investimento di ciascun elemento, miscelato e riunito le parti in somme, poi ridotto quello che era un insieme complesso di cose reali in una formula matematica che può essere espressa come un fenomeno unico, conosciuto ormai come il Goldman Sachs Commodity Index (GSCI).
Per poco meno di un decennio, il GSCI è rimasto un veicolo di investimento relativamente statico, dato che i banchieri erano più interessati ai CDO (collateralized debt obligation) più che a tutto ciò che può essere letteralmente seminato o raccolto. Poi, nel 1999, la Commodities Futures Trading Commission ha deregolamentato il mercato dei futures. Tutto ad un tratto, i banchieri potevano assumere sulle materie prime delle grandi esposizioni a loro piacimento, una opportunità che, dopo la Grande Depressione, era possibile solo per coloro che effettivamente avevano qualcosa a che fare con la produzione del nostro cibo.
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Quando la guerra è “giusta”
Stefano Di Ludovico
Il recente ritiro dall’Iraq e quello prossimo annunciato dall’Afghanistan da parte delle forze americane e dei loro alleati segnano per molti aspetti la fine di un ciclo ventennale di guerre, quello apertosi nel 1991 con la guerra del Golfo o quanto meno la fine di una sua fase - quella più recente legata al presunto pericolo islamo-terrorista –, in vista di guerre prossime venture che già sembrano profilarsi all’orizzonte (vedi le continue minacce e i preannunciati attacchi all’Iran in merito alla questione nucleare). Si tratta delle cosiddette guerre “umanitarie”, delle cosiddette guerre “giuste”, ovvero delle guerre “moderne” per eccellenza, le guerre figlie del tramonto del nomos che per secoli, almeno fino all’Ottocento, aveva retto le sorti dei rapporti tra gli Stati europei e che nel secolo XX solo il bipolarismo della Guerra fredda aveva per molti versi congelato per poi esplodere in modo dirompente a partire dagli anni Novanta con il crollo di uno dei due blocchi.
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La globalizzazione dei furbetti
Vladimiro Giacchè
Non passa giorno senza che una nuova voce si aggiunga al coro: “Chi lavora deve privarsi di qualche diritto. È la globalizzazione che lo impone”. Sul tema l’accordo è bipartisan. “La globalizzazione costringe ad abbandonare alcune conquiste sindacali ottenute in circostanze più favorevoli”: così Michele Salvati, economista di area Pd. Fiorella Kostoris, economista più vicina al governo, invece sentenzia: “C’è chi ancora crede che si possa stare nella globalizzazione senza cambiare nulla”. E lei, che non ci crede, cosa propone? Di lavorare di più a parità di salario: si deve “abbassare il costo del lavoro per dipendente e per unità prodotta, lavorando più ore e in più persone per produrre di più… Per aumentare la produttività, il mezzo più appropriato è l’incremento delle ore lavorate”. Le fa eco Guidalberto Guidi, presidente delle imprese elettroniche di Confindustria: “Nei Paesi che crescono si lavora dieci ore al giorno… Non è tirannia, sono le leggi del mercato”.
È stato questo il tam tam che ha accompagnato la vertenza di Mirafiori e, prima, quella di Pomigliano. Con l’inevitabile variazione sul tema: la Cina. John Elkann, ad esempio, ha sentenziato con aria grave: “La Cina esiste, è una grande realtà con la quale dobbiamo confrontarci”. Vero: e allora perché la società di cui è il principale azionista, la Fiat, non ci si confronta? Perché il fatto è che, mentre di automobili cinesi in Italia non se ne vedono, la Cina è invece inondata di auto occidentali. Tranne quelle della Fiat, che da quel mercato è assente.
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L'impatto sociale delle politiche europee
Bruno Amoroso*
L’occasione di questa riflessione è stata una delle tante iniziative per la celebrazione del primo anno di entrata in vigore del Trattato di Lisbona e l’urgenza di fare un bilancio sull’impatto sociale delle politiche europee. Sul Trattato mi limito ad osservare che per nostra fortuna non è diventato una Costituzione come i più si aspettavano. Altrimenti, con la sacralità che avvolge le costituzioni nella tradizione giuridica latina, sarebbe oggi impossibile introdurre le non poche e centrali modifiche che si rendono necessarie. Un dato innegabile nonostante la ripetitività con la quale se ne nega l’esigenza con esercizi verbali che somigliano più a pratiche di esorcismo che a ragionamenti logici. Forse ha portato sfortuna il luogo fondativo del Trattato, già noto per l’ “Accordo di Lisbona” che nel 2000 lanciò lo sfortunato quanto famigerato obiettivo di fare dell’Europa “la regione più competitiva del mondo”.
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Cina e crisi: chi ha paura dell’agnello cattivo?
Alberto Bagnai
Crisi e guerra delle valute: tutta colpa della Cina? Contestazione di alcuni luoghi comuni sui cattivi cinesi che spendono poco e risparmiano troppo
Dopo la crisi per un po’ siamo diventati (quasi) tutti keynesiani, e tutti esperti di Cina, e i risultati si vedono. Ad esempio, vorrei commentare un recente intervento di Luigi Zingales sulla "guerra delle valute" pubblicato dall’Espresso. Secondo Zingales dall’inizio della crisi “ogni paese vuole svalutare la sua moneta per aumentare le esportazioni e ridurre la disoccupazione”, ma questa “è una politica miope ed egoista” perché “scarica il costo della crisi sui partner commerciali”. La Cina tiene lo yuan “artificialmente basso rispetto al dollaro”, ma “la soluzione non è in una rivalutazione dello yuan”, poiché “il vero problema è che la Cina nel suo complesso consuma molto meno di quello che produce”. Mentre “nello scorso decennio l’eccesso di consumo negli Usa ha compensato l’eccesso di risparmio in Cina”, ora “gli Usa non possono più permettersi” di assorbire l’eccesso di produzione cinese. Questo genera quindi “un eccesso di offerta a livello mondiale, che forza una deflazione”.
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La spirale perversa delle delocalizzazioni
Guglielmo Forges Davanzati
I commenti critici alle recenti dichiarazioni dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, in ordine alla scarsa redditività degli stabilimenti Fiat in Italia e alla conseguente necessità delle delocalizzazioni, si sono - per lo più - concentrati sulle capacità gestionali del management dell’azienda e sulla censurabilità di quelle dichiarazioni alla luce dei cospicui finanziamenti pubblici ricevuti in passato da Fiat.
Si tratta di rilievi condivisibili che, tuttavia, sembrano non tener conto di una considerazione che prescinde dal singolo caso e che può porsi nei seguenti termini: l’accelerazione dei processi di delocalizzazione industriale conferma che il capitalismo contemporaneo è sempre più caratterizzato dalla piena sovranità della grande impresa. Una piena sovranità che si manifesta anche mediante il potere che essa esercita sulle scelte di politica economica e, in particolare, di politica del lavoro[1]. Sono in molti a ritenere che gli assetti istituzionali e decisionali ereditati dal Novecento siano oggi inadeguati e che le norme giuridiche debbano adeguarsi alle ‘nuove’ esigenze di competizione delle imprese nell’economia globale. A ben vedere, si tratta di una opzione ideologica; d’altronde, non sempre ciò che è nuovo è necessariamente meglio di ciò che lo ha preceduto[2].
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Grande crisi nella globalizzazione
Ernesto Screpanti
Le cause di fondo della crisi attuale sono di natura reale e vanno rintracciate negli effetti prodotti dalla globalizzazione sullo sviluppo economico e la distribuzione del reddito nei principali paesi capitalistici. L’imperialismo globale contemporaneo è basato su un patto implicito tra il grande capitale dei paesi avanzati e il grande capitale dei paesi emergenti. Il primo ha ottenuto gli accordi TRIPS, con cui si è assicurato un potere monopolistico sui prodotti della ricerca scientifica e tecnologica, per la quale si trova all’avanguardia rispetto al resto del mondo. Questo potere monopolistico è stato usato per ridistribuire reddito dal Sud al Nord del mondo. Il grande capitale dei paesi emergenti ha ottenuto la liberalizzazione dei mercati e l’abbattimento di gran parte delle barriere protezionistiche dei paesi più ricchi. In questo modo ha potuto sfruttare il vantaggio competitivo sul costo del lavoro e avviare dei processi di sviluppo trainato dalle esportazioni.
La concorrenza ha spinto molte imprese tradizionali dei paesi avanzati a ridurre la produzione e a delocalizzare gli investimenti.
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Sguardi cinesi – ovvero, la Cina come metodo
di Sandro Mezzadra e Gigi Roggero
1. Molti sguardi si rivolgono oggi alla Cina. In Italia come negli Stati Uniti questi sguardi sono del resto, e ormai da anni, parte dello scontro politico interno: mentre al di là dell’Atlantico, nella corsa verso le elezioni mid term di inizio novembre, governatori e politici repubblicani e democratici hanno fatto a gara nel proporre misure protezionistiche in funzione anti-cinese, in Italia siamo da tempo abituati alle sortite di leghisti e “tremontiani” contro la minaccia che viene da Oriente. Sullo sfondo, c’è il duro scontro sul valore del renminbi e sul protagonismo globale dei fondi sovrani e di altri attori economici cinesi. Tutto ciò non ha impedito, evidentemente, la corsa di imprenditori “occidentali” ad approfittare dell’“apertura” dei mercati cinesi e soprattutto del lavoro cinese. Per limitarci a una battuta: esisterebbero l’Ipod, l’Iphone e l’Ipad senza gli stabilimenti della Foxconn nelle zone economiche speciali del Sud della Cina? C’è da dubitarne… Neppure ha impedito, del resto, la corsa di Paesi, regioni e città a occupare un posto all’Expo di Shanghai, dove la Repubblica Popolare Cinese ha messo a punto (con risultati di immagine migliori rispetto alle Olimpiadi del 2008) lo sguardo che essa stessa rivolge al mondo. Ed è uno sguardo ammiccante e suadente, impregnato di modernità e tradizione. Better city, better life era lo slogan dell’Expo. E chi non sarebbe d’accordo? Guardando i palazzi del “Bund” (vera e propria esposizione universale dell’architettura modernista europea di inizio Novecento) specchiarsi, oltre le acque del fiume Huangpu, nelle pareti degli avveniristici grattacieli di Pudong (l’area in cui si è concentrata l’espansione urbanistica della città negli ultimi vent’anni), più di un visitatore avrà anzi pensato che Shanghai abbia le carte in regola per candidarsi a divenire il paradigma della «città migliore» del futuro globale.
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Dopo il neoliberismo. Il nuovo ruolo del Sud del mondo*
di Giovanni Arrighi e Lu Zhang
[Un'anticipazione dal cap. 5 di Capitalismo e (dis)ordine mondiale, raccolta degli scritti di Giovanni Arrighi a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta, in uscita presso Manifestolibri]

Parte della confusione sorge dalla persistente influenza sulla politica mondiale di vari aspetti del defunto consensus. Come notato da Walden Bello, “il neoliberismo [rimane], semplicemente per forza d’inerzia, il modello standard per molti economisti e tecnocrati che... non hanno più fiducia in esso”.
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Contro i'apertura indiscriminata dei mercati
Emiliano Brancaccio
La globalizzazione dei mercati abbatte la forza rivendicativa, politica e sindacale, dei lavoratori. Numerosi studi del Fondo Monetario Internazionale, dell’OCSE, della Commissione Europea, segnalano da tempo l’esistenza di una correlazione statistica tra l’apertura di un paese ai movimenti internazionali di capitali, di merci e in parte anche di persone, e il corrispondente declino degli indici di protezione dei lavoratori, della quota salari sul reddito nazionale e dei livelli di protezione sociale. I dati segnalano che la globalizzazione dei mercati indebolisce i lavoratori in tutte le fasi del ciclo capitalistico, sia nel boom che nella recessione. Tuttavia, quando si attraversa una crisi, la piena apertura dei mercati può condurre a una vera e propria capitolazione delle rappresentanze del lavoro, e a un conseguente, precipitoso declino delle tutele normative e sindacali e della quota di prodotto sociale destinato ai lavoratori.
Queste statistiche non fanno che confermare quel che già si evince dalla cronaca quotidiana.
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Il new deal impossibile
La crisi economica dopo il G20 di Toronto
di Andrea Fumagalli
La conclusione del vertice del G20 a Toronto era pressoché scontata. Il risultato principale è stato non aver ottenuto nessun risultato, se non l’obiettivo (irraggiungibile) di dimezzare il rapporto deficit/pil entro il 2013. Non poteva essere altrimenti, nonostante tutte le dichiarazioni in senso contrario, dal momento che, dopo oramai tre anni dall’inizio della crisi, non è all’orizzonte una strategia comune che consenta una governance mondiale dell’economia. In altre parole, pur estendendo il summit dai tradizionali 8 paesi a 20, a conferma della multipolarità imperiale di oggi, non è pensabile una sorta di “new deal istituzionale” in grado di traghettare l’economia mondiale al di là del guado della crisi. Diversi sono infatti gli interessi in gioco, non solo fra loro inconciliabili, ma anche inerenti a diversi piani di analisi. Proviamo a analizzare velocemente i fattori di instabilità oggi presenti:
1. Instabilità del rapporto Cina-Usa. Qui si gioca la partita più importante. La Cina sta diventato un vincolo sempre più stringente per l’economia Usa, stretta da un lato dall’instabilità dei mercati finanziari e dall’elevato indebitamento pubblico (causa protrarsi guerre in Afganistan e in Iraq) e privato (causa insolvenza) e, dall’altro, dalla necessità di sviluppare un tasso di crescita in grado di richiamare capitali dall’estero e sostenere i mercati borsistici.
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La rivalutazione del renminbi fra mito e realtà
Alberto Bagnai
Il tasso di cambio del renmbimbi è un falso problema economico: ecco perché non sarà la rivalutazione della moneta cinese a salvare gli Usa e l'Europa
I giornali plaudono alla promessa di Hu Jintao di lasciar fluttuare il cambio del renminbi in risposta alla lettera di Barak Obama, che il 16 giugno si è rivolto ai “colleghi” del G-20 richiamando la loro attenzione sul fatto che “tassi di cambio determinati dal mercato (nota del traduttore: liberi di fluttuare) sono essenziali per la vitalità dell’economia globale”. Il commento più lucido mi sembra quello di Federico Rampini: “Bel colpo, Hu Jintao!". In effetti, dimostrando disponibilità alla soluzione di un falso problema economico, Hu Jintao ha spostato la pressione politica di Obama (leader del principale importatore mondiale) sull’altro grande esportatore mondiale, la Germania, creando a quest’ultima un vero problema politico.
Ho detto falso problema economico? Come? Ma se gli economisti concordano sul fatto che il disallineamento del cambio cinese è il motore primo degli squilibri macroeconomici globali? Veramente questa è la visione del problema tramandata dai media italiani, che si allineano, in questo come in altri casi, alle posizioni espresse dalle istanze più conservatrici degli Usa. Le indicazioni della letteratura scientifica sono tutt’altro che unanimi. Vale la pena di richiamarle succintamente.
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L'ODORE DELLA FINE
Leon Zingales
Sento di dover dedicare qualche riga per rispondere al quesito di un lettore che mi chiedeva delucidazioni sull’apparente buon risultato della aste dei titoli sovrani del grande malato dell’Euro: la Spagna.
Effettivamente l’asta non è andata malissimo, ma il motivo è semplice: i titoli sono stati comprati da banche spagnole che, nel mese di maggio, hanno aumentato di ulteriori 11 Miliardi di Euro le richieste di finanziamento presso la BCE. In parole povere i 3.5 Miliardi di titoli a 10 anni ed a 30 anni sono stati comprati con i soldi della BCE. Si è trattato di una classica asta a libertà vigiliata.
Non susciti particolare entusiasmo neanche la restrizione dello spread, sceso dal record dei 238 punti base, tra i titoli spagnoli decennali e quelli tedeschi di pari duration. Potrebbe sembrare una buona notizia: ma non è un indice dell’aumento di fiducia verso la Spagna (nessuno ha fiducia visto i crescenti problemi delle casse di risparmio locale), ma viceversa è il segnale che la medesima Germania ha seri problemi di credibilità.
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