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pierluigifagan

Complessità del mondo nuovo

Recensione di “Nessuno controlla il mondo” di C. A. Kupchan, il Saggiatore

Pierluigi Fagan

complessita4Charles A. Kupchan insegna Affari Internazionali alla Georgetown University ed  è membro del Council of Foreign Relation. Già membro dello staff di Clinton per le questioni europee ed assistente a Princeton, pubblicò anzitempo (2002) “La fine dell’era americana”, (Vita e pensiero, Milano, 2003). Scrive ovviamente per le principali riviste di affari internazionali. Il suo libro è di immediata lettura, non lungo come la materia tende a richiedere, necessariamente schematico in alcuni passaggi, poggiato su più di una dozzina di pagine di scelta bibliografia. La sua impostazione è realista (K. Waltz). Il tema è come da titolo, non ci sarà un secolo ordinato da un singolo perno geopolitico il che porta ad un potenziale disordine. Il mondo allora dovrà autogovernarsi in concerto. All’Occidente si prescrive di: a) rendersi cosciente della fine irreversibile della sua egemonia; b) rivedere i propri assetti interni e tenersi unito; c) a gli USA, nello specifico, si raccomanda di inaugurare un populismo progressista razionale in politica interna ed in quella internazionale un selettivo disimpegno militare, un maggior governo dei mercati sregolati (globalizzazione, finanza), un riconoscimento delle altrui sovranità a prescindere dal tipo di modello politico-economico autonomamente sviluppato, purché tali varie forme di governo siano in favore della relativa popolazione. Il pubblico del libro, ovviamente, è primariamente l’élite colta ed informata americana.

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palermograd

Grecia: la lotta continua se c'è il piano B

di Marco Palazzotto

3602362Il recente articolo di Tommaso Baris sulla crisi europea (lo trovate qui), ed in particolare sui fatti della Grecia, rappresenta una buona occasione per analizzare alcune problematiche che investono il nostro paese, e il nostro continente, a partire ormai dal biennio 2007/2008. In altre occasioni nel nostro sito abbiamo affrontato il tema della crisi greca (qui l’articolo di Roberto Salerno e qui quello di Giovanni Di Benedetto), ma ci siamo limitati a pubblicare pochi contributi in attesa della conclusione di alcuni passaggi decisivi. Oggi, con la capitolazione di Tsipras dopo l’ultimo accordo di “salvataggio” della Grecia - e grazie allo stimolo del contributo di Tommaso della scorsa settimana - ritengo sia importante redigere un primo bilancio dell’esperienza di Syriza e, con l’occasione, evidenziare alcuni punti sulla situazione politica ed economica attuale, tentando di elaborare alcune soluzioni politiche.

Parto subito con i due problemi principali che trovo nell’articolo appena citato e che pare rappresentino elementi comuni alle diverse anime di quel che rimane della sinistra nostrana. I due problemi principali riguardano: 1. la dimensione geografica e sociale dell’organizzazione di una forza politica di sinistra in grado di contrastare l’attuale potere europeo; 2. le conseguenti politiche economiche da attuare per cercare di rendere più decente la vita di milioni di uomini e donne in Europa, oggi povere o al limite della povertà a causa anche dell’austerity. 

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effimera

Tutto quello che avreste voluto sapere sul TTIP

di Grateful Dead

imperialismo contemporaneoNel marzo 2014, in modo ufficiale dopo alcuni anni di contatti informali , il presidente Usa Obama e l’allora commissario Europeo Barroso hanno dato il via a una serie di incontri il cui scopo finale era la firma congiunta del “Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti” (TTIP).  Dopo vari round, il momento dell’accordo si sta avvicinando. Pochi parlano di tale documento e dei suoi obiettivi, poco o nulla si sa al riguardo.  J. Stiglitz ha detto che “Il TTIP rappresenta la presa del potere, in segreto, da parte delle multinazionali”.  Anche Rodotà ha recentemente lanciato un appello contro il TTIP e il 23 maggio è stata la giornata mondiale contro il TTIP e la Monsanto. Ecco alcune brevi informazioni, per cominciare. Di che cosa si tratta realmente, che cosa è in gioco e perché è stato così fortemente voluto.

* * * * *

La definizione ufficiale del Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (in inglese noto come Transatlantic Trade and Investment Partnership – TTIP) è la seguente: “Il TTIP ha l’obiettivo di eliminare le barriere commerciali fra Stati Uniti e Unione europea (sopprimere dogane, regolamenti inutili, restrizioni sugli investimenti, ecc.) e semplificare la compravendita di beni e servizi fra le due aree. L’eliminazione di tali barriere prevede crescita economica, creazione di impiego e diminuzione dei prezzi”.

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pierluigifagan

Foreign Affairs

Storici al capezzale della ricchezza delle nazioni

di Pierluigi Fagan

glob2E’ proprio dei momenti di profonda crisi, interrogarsi sulla struttura di ciò che è in crisi per capire il perché e soprattutto come evolverà, la cosa in crisi.

Questo articolo di Foreign Affairs a firma di Jeremy Adelman, segnala il manifestarsi di questa interrogazione, attraverso l’analisi di tre testi di indagine storica usciti su questo argomento. I tre testi sono i due volumi del The Cambridge History of Capitalism di Larry Neal e Jeffrey G. Williamson, il The Enlightened Economy di Joel Mokyr e l’Empire of Cotton di Sven Beckert ma l’articolista ricorda, come sfondo di uno spirito del tempo, anche i due recenti volumi di F.Fukuyama (che profeta il fatto che il futuro potrebbe non provenire dai luoghi che svilupparono il liberismo e la democrazia, cioè l’Occidente moderno), il Perché le nazioni falliscono di D. Acemoglu e J.  Robinson e il T. Piketty del Capitale del XX° secolo  cui si aggiunge uno studio McKinsey Global Institute (2012) sullo spostamento del centro di gravità del movimento economico planetario che sta virando repentinamente dall’asse Atlantico verso l’Asia. Se l’analisi sull’origine del nostro modo di stare al mondo tende al positivo, ottimistica sarà la previsione del decorso, se l’analisi è più problematica ne conseguirà pessimismo sulle sorti del capitalismo occidentale.

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conness precarie

L’ultima strage

∫connessioni precarie

libertc3a0 di movimentoL’ultima strage avvenuta nel canale di Sicilia impone di aprire un dibattito serio prima di tutto nei movimenti, esistenti o in via di organizzazione, che si pongono l’obiettivo di una trasformazione delle condizioni presenti. Così come sul piano del debito e delle politiche sociali il caso greco ha riaperto una discussione sul tema del rapporto tra movimenti e istituzioni e, di rimando, sul significato di una politica europea, ciò che avviene ormai regolarmente nel mar Mediterraneo deve essere assunto come punto di partenza per scuotere i discorsi, gli equilibri e i ragionamenti sulla posizione politica delle migrazioni e della mobilità. Muovendo da una constatazione: in questo caso a costituire i movimenti non sono le tranquillizzanti forme organizzate del dissenso sociale, ma sono le centinaia di migliaia di uomini e donne che fanno della mobilità il loro radicale e ingovernabile appello alla libertà. Da qui bisogna partire, e qui bisogna tornare, per costruire una prospettiva finalmente nuova. Bisogna però non farsi illusioni: non c’è, e non ci sarà, una soluzione né immediata né semplice. C’è però una grande differenza tra il convivere con questi disastri continuando a inseguire chimere consolatorie e comprendere che l’iniziativa politica deve fare i conti con la realtà materiale dei processi globali. In questo caso, la misura della tragedia non deve cancellare le aspirazioni e il coraggio di chi è disposto a sfidarla pur di raggiungere il proprio obiettivo di libertà. Non possiamo permettere a strutture criminali ben organizzate e perfettamente in grado di trarre vantaggio da un quadro normativo ugualmente responsabile di deviare il nostro sguardo dai veri protagonisti di queste vicende.

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comedonchisciotte

TTIP e TPP: chi raccoglierà l'ira popolare?

Thomas Fazi intervista Walden Bello

Portrait de Suzanne Valadon par Henri de Toulouse LautrecParallelamente all'accordo commerciale attualmente in discussione con l'Unione Europea (il TTIP), gli USA stanno negoziando un accordo analogo con 11 paesi dell'Asia e del Pacifico: l'accordo TransPacifico (Trans-Pacific Partnership, TPP). Walden Bello, uno dei critici più importanti della globalizzazione neoliberista delle multinazionali, identifica qual è la strategia globale che sostiene i due trattati. Il giornalista italiano Thomas Fazi l'ha intervistato per il sito web Open Democracy.

 

Thomas Fazi: Oggi gli accordi di libero commercio bilaterali e regionali (o meglio, gli accordi megaregionali, come il TTIP e il TPP) hanno di fatto sostituito i negoziati nel seno dell'OMC. Siamo entrati in una nuova fase della globalizzazione?

 Walden Bello: Si. Credo che la fase trionfale della globalizzazione, che ebbe il suo zenith negli anni '90 e poi cominciò a decadere dopo le mobilitazioni di Seattle del 1999, sia definitivamente finita.

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orizzonte48

Città globali e denazionalizzazione-globalizzazione "buona"

La "cosmesi finale"

di Quarantotto

jean francois rauzier yatzer 1I. Che il trilemma di Rodrik sia così facilmente dimenticato, o piuttosto ignorato, a sinistra, è un fatto di cui, in qualche modo mi stupivo  nell'ultimo post.

Poi, interagendo con voi nei commenti, mi è sovvenuta la spiegazione.

Il punto è presto detto: esiste l'idea di una globalizzazione buona, tale perchè:

a) lo Stato abbraccia l'internazionalismo e denazionalizza la sua azione e ciò ne potenzia l'efficienza per qualunque obiettivo voglia raggiungere: questo è un corollario dell'idea che l'internazionalismo (dell'indistinto) sia sempre e comunque cooperativo, (mentre l'assetto di Westfalia sarebbe intrinsecamente "inefficiente");

b) lo Stato ne risulta depotenziato e destrutturato e questo pure - in aggiunta all'internazionalismo che si espande- sarebbe un bene in sè

Forse perchè lo Stato nazionale può essere solo autoritario, fascistoide e guerrafondaio, mentre invece gli Stati de-sovranizzati e filo-globalizzazione, adeguandosi alle privatizzazioni e liberalizzazioni imposte da FMI, UEM e troike varie, sarebbero altamente libertari e progressisti;

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manifesto

I predatori del sistema

Benedetto Vecchi intervista Saskia Sassen

Parla l’economista e sociologa autrice di molti saggi sulla globalizzazione, in Italia per partecipare domani a un incontro del meeting torinese «Biennale Democrazia»

27cultLa con­ver­sa­zione è ini­ziata lad­dove era stata inter­rotta alcuni anni fa. Anche allora la crisi domi­nava la scena. Ma Occupy Wall Street era molto più che una debole spe­ranza, men­tre gli indi­gna­dos sem­bra­vano inar­re­sta­bili. Per Saskia Sas­sen erano segnali di una pos­si­bile inver­sione di ten­denza rispetto alle poli­ti­che eco­no­mi­che e sociali di matrice neo­li­be­ri­sta. E Barack Obama negli Stati Uniti, dove vive e inse­gna, sem­brava ancora capace di sfug­gire alle grin­fie della destra popu­li­sta. Ad anni di distanza, Saskia Sas­sen non ha per­duto l’ottimismo della ragione che ha carat­te­riz­zato molti suoi libri, ma è però con­sa­pe­vole che alcune ten­denze indi­vi­duate sono dive­nute realtà corrente.

Nota per il libro sulle Città glo­bali (Utet), ma anche per le sue ana­lisi sulla glo­ba­liz­za­zione, cul­mi­nate nel volume Ter­ri­to­rio, auto­rità e diritti (Bruno Mon­da­dori), dove Saskia Sas­sen non si limita a foto­gra­fare la glo­ba­liz­za­zione, ma ne ana­lizza la genesi, le tra­sfor­ma­zioni indotte nel sistema poli­tico nazio­nale e la for­ma­zione di cen­tri deci­sio­nali poli­tici sovra­na­zio­nali, messi al riparo dalla pos­si­bi­lità di con­trollo dei «gover­nati», da poco ha pub­bli­cato un nuovo volume (Expul­sions, Bel­k­nap Press; in Ita­lia sarà pub­bli­cato dall’editore il Mulino). La con­ver­sa­zione pre­cede la sua par­te­ci­pa­zione alla Bien­nale Demo­cra­zia di Torino, dove par­te­ci­perà domani a una tavola rotonda con Dona­tella Della Porta e Colin Crouch.

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appelloalpopolo2

ISDS, l’insopportabile leggerezza degli acronimi

Mauro Poggi

chapter3ISDS è l’acronimo di Investment-State Dispute Settlement,  uno strumento di diritto pubblico internazionale per risolvere le vertenze che possono sorgere fra uno stato e i suoi investitori stranieri.

Il primo accordo del genere risale al 1959, e fu stipulato fra Germania e Pakistan. Inizialmente concepito per proteggere gli investitori stranieri da discriminazioni o espropri arbitrari, si è trasformato in un’arma che le multinazionali usano in modo sempre più invasivo per citare in giudizio gli Stati ogni volta che giudichino un provvedimento di legge lesivo dei loro diritti  (o interessi, se vi pare più appropriato).

La causa viene giudicata da tribunali sovranazionali dotati di potere sanzionatorio contro gli stati, davanti a un collegio giudicante composto da avvocati d’affari che in una causa successiva (o in quella precedente) possono assumere (o hanno assunto) il ruolo di avvocato della “parte lesa”.

Nell’estensiva e fantasiosa interpretazione che le multinazionali danno ai concetti di “espropriazione” o “discriminazione”, ogni misura di legge successiva all’insediamento dell’investitore estero è suscettibile di richiesta di risarcimento, se cambiasse in senso per lui peggiorativo il quadro delle norme entro cui opera. Parliamo di qualunque cosa: salute pubblica (vedi Phillips Morris contro l’Australia e contro l’Uruguay), ambiente (Vattenfall contro Germania, Ethyl Corporation contro Canada), politica economica (Occidental contro Ecuador) e così via. Un aumento dei minimi salariali, ad esempio, potrebbe dar luogo a un contenzioso,  perché il maggior costo del lavoro comporterebbe una diminuzione degli utili attesi dall’investitore.

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domenico de simone

Che succede al prezzo del petrolio?

Domenico De Simone

269 cartoon 110 dollar bill small overMolti amici ed estimatori mi hanno chiesto delucidazioni sulla improvvisa caduta verticale del prezzo del petrolio e sulle sue origini. Ringrazio tutti per la fiducia, ma francamente non posso fare molto di più che formulare delle ipotesi, probabilmente vaghe e forse vere solo in parte. Per le previsioni, poi, non ne parliamo nemmeno, osservatori ed analisti potenti ed accreditati e sbagliano regolarmente, nonostante dispongano di mezzi di analisi e di strumenti di calcolo decisamente potenti ed affidabili. Proviamo a ragionare.

La prima idea che viene in mente, e che peraltro è stata sostenuta ed è tuttora sostenuta da diversi osservatori, è che la caduta del prezzo del petrolio è una manovra voluta dagli americani per mettere in ginocchio la Russia e far precipitare il consenso e il potere di Putin e del suo gruppo. A mio avviso, però, questa è un’idea sbagliata, o meglio, in buona parte sbagliata. Intanto la caduta verticale del prezzo del petrolio è certamente riconducibile alla decisione dell’Opec di non tagliare la produzione, seppure in presenza di una domanda mondiale debole  e con prospettive persino di riduzione. L’Opec, com’è noto, è politicamente condotto dall’Arabia Saudita che, dall’alto dei suoi dieci milioni di barili al giorno di produzione ne determina di fatto le scelte.

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euronomade

A proposito del concetto di Stato-nazione

di Antonio Negri*

imag41«Nazione» è stato, per molto tempo, un concetto difficilmente definibile al di fuori di quell’altro concetto che era lo Stato-nazione. Oggi le cose sono molto differenti.

Ma cominciamo dall’inizio, dunque precisamente dal concetto di Stato-nazione. Due elementi gli hanno dato forma: il primo, politico e giuridico, era quello di Stato; il secondo, storico, etnico e culturale, era il concetto di nazione. Tuttavia, è a partire dal concetto di Stato-nazione che la nazione è diventata una realtà, che la forza sovrana ha dato origine alla nazione. Quando parliamo di nazione, dobbiamo sempre ricordare questa genesi. In ogni caso, la «nazione» è un concetto del quale sono stati proposti vari criteri di definizione, con differenti radici ideologiche. Di solito si prova ad afferrarlo sotto tre profili.

In primo luogo, una categoria che comprende i dati naturali, per esempio l’elemento etnico (la popolazione) e l’elemento geografico (il territorio). L’elemento etnico è stato talvolta collegato con l’idea di razza, anche se il concetto di razza non dà luogo che raramente, secondo i teorici della nazione, a un’applicazione biologica. Quando era questo il caso, si trattava – non solo nel caso ignobile del nazismo – di operazioni politiche prive di ogni fondamento scientifico, in ogni caso terroriste, distruttive e aggressive.

La seconda categoria comprende fattori culturali come la lingua, la cultura, la religione e/o la continuità dello Stato. In alcuni casi può esserci una stretta relazione tra la prima e la seconda categoria: il criterio etnico e il criterio linguistico possono, per esempio, confondersi, così come il criterio politico e il criterio religioso.

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manifesto

L’alternativa radicale alla globalizzazione

Guido Viale

«Riterritorializzare» i processi economici. Se è stata la globalizzazione a spalancare le porte alla competitività universale, noi dobbiamo pensare e praticare alternative che valorizzino i benefici dell’unificazione del pianeta in un’unica rete di rapporti di interdipendenza e di connettività

27-intervento-viale-mondo-790401Molte delle minacce che incom­bono sul nostro pia­neta – e di cui poco si parla – sono già fatti. Innan­zi­tutto la data che ren­derà irre­ver­si­bile un cam­bia­mento cli­ma­tico radi­cale e deva­stante si avvi­cina. A que­sto vanno aggiunte tutte le altre forme di inqui­na­mento e di deva­sta­zione, sia a livello glo­bale che locale, che lasce­ranno a figli e nipoti un debito ambien­tale ben più gra­voso dei debiti pub­blici su cui poli­tici ed eco­no­mi­sti si strac­ciano le vesti.

Governi e mana­ger hanno per lo più can­cel­lato il pro­blema dalla loro agenda: la green eco­nomy pro­mossa a quei livelli non è un’alternativa al trend in atto, ma una serie scol­le­gata di misure, spesso dan­nose, che ne occu­pano gli inter­stizi. L’Italia, che ha una stra­te­gia ener­ge­tica (Sen) rece­pita dal governo Renzi, ne è un esem­pio: ha impe­gnato cifre astro­no­mi­che nelle fonti rin­no­va­bili a bene­fi­cio quasi solo di grandi spe­cu­la­zioni che deva­stano il ter­ri­to­rio, ma den­tro un piano ener­ge­tico incen­trato su tri­vel­la­zioni e tra­sporto di metano in conto terzi. È una visione miope che distrugge, insieme all’ambiente, anche l’agognata com­pe­ti­ti­vità, e chiude gli occhi di fronte al futuro.

Viviamo ormai da tempo in stato di guerra: l’Italia – ma non è certo un’eccezione – è già impe­gnata con diverse moda­lità, tutte con­trab­ban­date come «mis­sioni di pace», su una decina di fronti.

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euronomade

La Comune della cooperazione sociale

F.Tomasello intervista Antonio Negri sulla metropoli

Lavoratori-uniti(Domanda). Ormai diversi anni fa, alcuni tuoi scritti riguardanti l’oggetto di questa intervista sono stati raccolti in un testo il cui titolo, Dalla fabbrica alla metropoli, rimanda all’adagio secondo cui la metropoli sta alla moltitudine come, una volta, la fabbrica stava alla classe operaia. Vorrei oggi parlare con te di cosa le trasformazioni, i movimenti e la crisi globale di questi anni ci dicono rispetto all’analisi della metropoli intesa come griglia analitica attraverso cui è possibile rileggere e interpretare molte categorie di lettura del presente. Recentemente – in particolare nell’intervento Per la costruzione di coalizioni moltitudinarie in Europa – hai fatto cenno all’esigenza di sottoporre a verifica critica alcune categorie consolidate dell’esperienza post-operaista: vorrei chiederti anzitutto se ritieni che anche questo schema di lettura del rapporto fra metropoli e moltitudine debba essere sottoposto a verifica e aggiornamento.

(Risposta). Ci troviamo oggi di fronte a una situazione completamente aperta per quanto riguarda la metropoli: per questo credo che il discorso vada sottoposto a verifica, ma continuerei comunque a insistere sul tema metropoli-fabbrica, pur senza interpretarlo in modo lineare. Evidentemente la metropoli è qualcosa di radicalmente diverso dalla fabbrica, è un luogo di produzione che va analizzato in tutta la sua specificità, ma è altrettanto vero che essa è il luogo di produzione per eccellenza.

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controlacrisi

Le gabbie sociali della globalizzazione

Intervista a Dario Leone

E' uscita l’opera sociologica di Dario Leone “Le gabbie sociali della Globalizzazione” nella collana Multitudo per Susil edizioni. Il testo analizza la completa scomparsa della dimensione collettiva, il distacco del potere dalla politica ed il trionfo del libero mercato che sono solo alcune delle caratteristiche del nuovo e trionfante Capitalismo globalizzato

Il tuo libro affronta un tema complesso, come quello della cosiddetta globalizzazione e delle sue implicazioni sulla sfera sociale. Una tematica già affrontata da diversi studiosi, non ultimo Bauman da cui hai tratto molto per questo tuo lavoro. Da cosa è nata l’esigenza di scrivere questo libro?

Dopo la scomparsa della sinistra dal parlamento italiano e la sua evidente crisi sul piano dell’elaborazione politica e sociale sono stato spinto alla ricerca di una forma di militanza differente da quella classica fino a quel momento intrapresa. Penso che questa crisi sia innanzitutto dovuta alla tendenza ad utilizzare strumenti di analisi tardo ottocenteschi che vanno aggiornati perché siamo in una società che ha superato le dicotomie classiste, ha “nebulizzato” il potere reale staccandolo dalla politica, rendendo il sistema impermeabile al mutamento dal basso (o da sinistra). Se il capitalismo, vestendo i panni della globalizzazione, ha normalizzato la contraddizione capitale/lavoro vestendola di libertà, vuol dire che gli strumenti del cambiamento finora inseguiti devono rimodularsi. In altre parole a questo capitalismo postmoderno va contrapposto un marxismo postmoderno che non può continuare ad essere quello elaborato ai tempi della rivoluzione industriale. Questo libro è il primo di una lunga serie di contributi che vanno in questa direzione e che penso occuperanno gran parte della mia esistenza con la consapevolezza che questa fase storica (leninisticamente intesa), non produrrà significativi cambiamenti sociali (a meno che non siano fisiologici e quindi endogeni), ma potrà produrre pensatori, teorie e progetti che possono costituire i semi sui quali le prossime generazioni potranno fare il raccolto.

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Globalizzazione, capitale, lavoro

di Giovanna Cracco

“Per riassumere: nello stato attuale della società, che cosa è dunque il libero scambio? È la libertà del capitale. quando avrete lasciato cadere quei pochi ostacoli nazionali che raffrenano ancora la marcia del capitale, non avrete fatto che dare via libera alla sua attività. […] Il risultato sarà che l’opposizione fra le due classi [capitalisti e lavoratori salariati, n.d.a.] si delineerà più nettamente ancora. […] signori, non vi lasciate suggestionare dalla parola astratta di libertà. Libertà di chi? non è la libertà di un singolo individuo di fronte a un altro individuo. È la libertà che ha il capitale di schiacciare il lavoratore.” Karl Marx, Discorso sulla questione del libero scambio, pronunciato il 9 gennaio 1848 all’Associazione democratica di Bruxelles.

Ci sono parole che fanno la loro comparsa nei ristretti circoli economici, migrano nei discorsi politici e vengono infine proposte e riproposte dai mass media fino a farle diventare parte del lessico comune dei cittadini; ma ogni passaggio le semplifica, le riveste con l’abito adatto allo scopo e all’occasione. Così, i primi utilizzatori sono e restano ben consapevoli del loro nudo significato, gli ultimi ne hanno appena una vaga idea. E quando il tempo sbiadisce i lustrini e lacera il vestito, quando presenta il conto, gli ultimi si ritrovano a non capire per cosa pagano. Ed è ben difficile contestare il risultato di una somma quando non si è in grado di fare le addizioni.