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Confini, frontiere, capitale
Sandro Mezzadra
1. “Che cos’è un’economia e, ancor prima, dov’è un’economia?” Si può riprendere la domanda di Immanuel Wallerstein1 per impostare un ragionamento sul rapporto che il capitale intrattiene in epoca moderna e contemporanea con i confini e le frontiere. Ogni economia – ogni “reticolo di processi produttivi più o meno strettamente interdipendenti” – si sviluppa all’interno di determinati “confini spazio-temporali”, aggiunge Wallerstein: la storicità di un sistema economico, la sua origine, la sua crescita, le sue trasformazioni corrispondono cioè a una specifica (ancorché mutevole) collocazione all’interno dello spazio, circoscritta da un insieme di “limiti”. Sorge dunque immediatamente il problema di comprendere “come questi confini si colleghino e interagiscano con quelli definiti da altre dimensioni sociali, in particolare dalla dimensione politico-legale e da quella culturale”.2
Posta in questi termini generali la questione, occorre specificare il modo in cui essa si pone a fronte dei caratteri storicamente specifici del capitalismo moderno. Particolarmente rilevante, da questo punto di vista, è il rapporto tra la produzione di spazio che contraddistingue il capitalismo e le modalità con cui lo spazio è prodotto e organizzato sotto il profilo politico. Molti studi hanno ricostruito i processi che hanno condotto all’emergere in Europa del confine lineare come astrazione geometrica, capace di circoscrivere (di produrre) lo spazio omogeneo della moderna forma-Stato3.
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Confini, guerre, migrazioni
di Alessandro Dal Lago
(S. Luna, Woman as a river between borders, da Pity the drowned horses, 2004)
I confini sono per definizione mobili. Cambiano, si spostano, avanzano e indietreggiano in virtù delle vicissitudini largamente imprevedibili della storia. Pensare che i confini definiscano realtà fisse, identità stabilite una volta per tutte e culture omogenee è una stoltezza che solo i neo-nazionalisti delle patrie locali possono impunemente proclamare, in un’epoca in cui le grandi compagini statali sono in crisi. E soprattutto i confini si moltiplicano senza sosta.1 Le crisi degli imperi sovranazionali e coloniali, tra inizio del XIX secolo e fine del XX (impero ottomano, austriaco, inglese, francese, sovietico, federazione iugoslava ecc.) hanno causato la moltiplicazione degli stati sulla carta geografica del mondo, trasformandola in una sorta di patchwork. Allo stesso tempo, all’interno dei confini, si stanno creando entità, enclave, autonomie che pretendono di essere distinte imponendo, con vario successo, nuovi confini. L’arretramento dei nazionalisti catalani e scozzesi (come l’armistizio tra baschi e stato spagnolo e tra cattolici nord-irlandesi e Regno Unito) non segna affatto la fine dei nazionalismi locali e la diminuzione dei confini, ma semmai uno stallo che può dar vita, come dimostrano la guerra a intensità variabile tra Ucraina e Russia e l’annessione della Crimea, a nuove contese sui confini.
La tendenza alla frammentazione e quindi alla moltiplicazione dei confini ha ovviamente subìto una battuta d’arresto immediatamente dopo la seconda guerra mondiale
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I flussi mondiali di investimenti
Un’istantanea del capitalismo contemporaneo
di Ferdinando Gueli
I dati del Rapporto annuale dell’UNCTAD sui flussi di investimenti diretti esteri ci forniscono un quadro che conferma le attuali dinamiche dei sistema capitalistico, nella sua fase di globalizzazione, che comporta anche un cambiamento degli equilibri geoeconomici e, quindi, geopolitici, con tutte le contraddizioni che ne possono emergere, ma anche un peso sempre più dominante ed incontrollato delle multinazionali. Rispetto a questi fenomeni appare velleitario e forse un po’ nostalgico il richiamo ad un multilateralismo sovranazionale che aveva svolto un ruolo sicuramente importante in una fase storica differente, oggi difficilmente ripetibile, almeno nel contesto attuale
Introduzione
Il Rapporto annuale dell’UNCTAD “World Investment Report – WIR 2015” rappresenta un’utile istantanea delle attuali dinamiche del capitale mondiale. Il Rapporto non si occupa degli investimenti di portafoglio, cioè dei movimenti finanziari di natura speculativa, ma si concentra invece sui flussi internazionali di investimenti diretti esteri (IDE), cioè sostanzialmente sull’esportazione ed importazione di capitali nei vari paesi.
Da una lettura del Rapporto emergono alcuni dati interessanti che offrono spunti di riflessione dal punto di vista dell’analisi critica delle dinamiche del capitalismo contemporaneo.
Cominciamo con il dire che il volume globale di investimenti in entrata ha subito, nel 2014, una contrazione del 16% rispetto al 2013, attestandosi a 1.230 miliardi di dollari USA. Questo conferma sostanzialmente il quadro di crisi globale che, nonostante i proclami, gli annunci e le stime artificialmente ottimistiche diffuse dalle istituzioni economiche e finanziarie dominanti, non accenna a risolversi.
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Complessità del mondo nuovo
Recensione di “Nessuno controlla il mondo” di C. A. Kupchan, il Saggiatore
Pierluigi Fagan
Charles A. Kupchan insegna Affari Internazionali alla Georgetown University ed è membro del Council of Foreign Relation. Già membro dello staff di Clinton per le questioni europee ed assistente a Princeton, pubblicò anzitempo (2002) “La fine dell’era americana”, (Vita e pensiero, Milano, 2003). Scrive ovviamente per le principali riviste di affari internazionali. Il suo libro è di immediata lettura, non lungo come la materia tende a richiedere, necessariamente schematico in alcuni passaggi, poggiato su più di una dozzina di pagine di scelta bibliografia. La sua impostazione è realista (K. Waltz). Il tema è come da titolo, non ci sarà un secolo ordinato da un singolo perno geopolitico il che porta ad un potenziale disordine. Il mondo allora dovrà autogovernarsi in concerto. All’Occidente si prescrive di: a) rendersi cosciente della fine irreversibile della sua egemonia; b) rivedere i propri assetti interni e tenersi unito; c) a gli USA, nello specifico, si raccomanda di inaugurare un populismo progressista razionale in politica interna ed in quella internazionale un selettivo disimpegno militare, un maggior governo dei mercati sregolati (globalizzazione, finanza), un riconoscimento delle altrui sovranità a prescindere dal tipo di modello politico-economico autonomamente sviluppato, purché tali varie forme di governo siano in favore della relativa popolazione. Il pubblico del libro, ovviamente, è primariamente l’élite colta ed informata americana.
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Grecia: la lotta continua se c'è il piano B
di Marco Palazzotto
Il recente articolo di Tommaso Baris sulla crisi europea (lo trovate qui), ed in particolare sui fatti della Grecia, rappresenta una buona occasione per analizzare alcune problematiche che investono il nostro paese, e il nostro continente, a partire ormai dal biennio 2007/2008. In altre occasioni nel nostro sito abbiamo affrontato il tema della crisi greca (qui l’articolo di Roberto Salerno e qui quello di Giovanni Di Benedetto), ma ci siamo limitati a pubblicare pochi contributi in attesa della conclusione di alcuni passaggi decisivi. Oggi, con la capitolazione di Tsipras dopo l’ultimo accordo di “salvataggio” della Grecia - e grazie allo stimolo del contributo di Tommaso della scorsa settimana - ritengo sia importante redigere un primo bilancio dell’esperienza di Syriza e, con l’occasione, evidenziare alcuni punti sulla situazione politica ed economica attuale, tentando di elaborare alcune soluzioni politiche.
Parto subito con i due problemi principali che trovo nell’articolo appena citato e che pare rappresentino elementi comuni alle diverse anime di quel che rimane della sinistra nostrana. I due problemi principali riguardano: 1. la dimensione geografica e sociale dell’organizzazione di una forza politica di sinistra in grado di contrastare l’attuale potere europeo; 2. le conseguenti politiche economiche da attuare per cercare di rendere più decente la vita di milioni di uomini e donne in Europa, oggi povere o al limite della povertà a causa anche dell’austerity.
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Tutto quello che avreste voluto sapere sul TTIP
di Grateful Dead
Nel marzo 2014, in modo ufficiale dopo alcuni anni di contatti informali , il presidente Usa Obama e l’allora commissario Europeo Barroso hanno dato il via a una serie di incontri il cui scopo finale era la firma congiunta del “Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti” (TTIP). Dopo vari round, il momento dell’accordo si sta avvicinando. Pochi parlano di tale documento e dei suoi obiettivi, poco o nulla si sa al riguardo. J. Stiglitz ha detto che “Il TTIP rappresenta la presa del potere, in segreto, da parte delle multinazionali”. Anche Rodotà ha recentemente lanciato un appello contro il TTIP e il 23 maggio è stata la giornata mondiale contro il TTIP e la Monsanto. Ecco alcune brevi informazioni, per cominciare. Di che cosa si tratta realmente, che cosa è in gioco e perché è stato così fortemente voluto.
* * * * *
La definizione ufficiale del Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (in inglese noto come Transatlantic Trade and Investment Partnership – TTIP) è la seguente: “Il TTIP ha l’obiettivo di eliminare le barriere commerciali fra Stati Uniti e Unione europea (sopprimere dogane, regolamenti inutili, restrizioni sugli investimenti, ecc.) e semplificare la compravendita di beni e servizi fra le due aree. L’eliminazione di tali barriere prevede crescita economica, creazione di impiego e diminuzione dei prezzi”.
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Foreign Affairs
Storici al capezzale della ricchezza delle nazioni
di Pierluigi Fagan
E’ proprio dei momenti di profonda crisi, interrogarsi sulla struttura di ciò che è in crisi per capire il perché e soprattutto come evolverà, la cosa in crisi.
Questo articolo di Foreign Affairs a firma di Jeremy Adelman, segnala il manifestarsi di questa interrogazione, attraverso l’analisi di tre testi di indagine storica usciti su questo argomento. I tre testi sono i due volumi del The Cambridge History of Capitalism di Larry Neal e Jeffrey G. Williamson, il The Enlightened Economy di Joel Mokyr e l’Empire of Cotton di Sven Beckert ma l’articolista ricorda, come sfondo di uno spirito del tempo, anche i due recenti volumi di F.Fukuyama (che profeta il fatto che il futuro potrebbe non provenire dai luoghi che svilupparono il liberismo e la democrazia, cioè l’Occidente moderno), il Perché le nazioni falliscono di D. Acemoglu e J. Robinson e il T. Piketty del Capitale del XX° secolo cui si aggiunge uno studio McKinsey Global Institute (2012) sullo spostamento del centro di gravità del movimento economico planetario che sta virando repentinamente dall’asse Atlantico verso l’Asia. Se l’analisi sull’origine del nostro modo di stare al mondo tende al positivo, ottimistica sarà la previsione del decorso, se l’analisi è più problematica ne conseguirà pessimismo sulle sorti del capitalismo occidentale.
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L’ultima strage
∫connessioni precarie
L’ultima strage avvenuta nel canale di Sicilia impone di aprire un dibattito serio prima di tutto nei movimenti, esistenti o in via di organizzazione, che si pongono l’obiettivo di una trasformazione delle condizioni presenti. Così come sul piano del debito e delle politiche sociali il caso greco ha riaperto una discussione sul tema del rapporto tra movimenti e istituzioni e, di rimando, sul significato di una politica europea, ciò che avviene ormai regolarmente nel mar Mediterraneo deve essere assunto come punto di partenza per scuotere i discorsi, gli equilibri e i ragionamenti sulla posizione politica delle migrazioni e della mobilità. Muovendo da una constatazione: in questo caso a costituire i movimenti non sono le tranquillizzanti forme organizzate del dissenso sociale, ma sono le centinaia di migliaia di uomini e donne che fanno della mobilità il loro radicale e ingovernabile appello alla libertà. Da qui bisogna partire, e qui bisogna tornare, per costruire una prospettiva finalmente nuova. Bisogna però non farsi illusioni: non c’è, e non ci sarà, una soluzione né immediata né semplice. C’è però una grande differenza tra il convivere con questi disastri continuando a inseguire chimere consolatorie e comprendere che l’iniziativa politica deve fare i conti con la realtà materiale dei processi globali. In questo caso, la misura della tragedia non deve cancellare le aspirazioni e il coraggio di chi è disposto a sfidarla pur di raggiungere il proprio obiettivo di libertà. Non possiamo permettere a strutture criminali ben organizzate e perfettamente in grado di trarre vantaggio da un quadro normativo ugualmente responsabile di deviare il nostro sguardo dai veri protagonisti di queste vicende.
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TTIP e TPP: chi raccoglierà l'ira popolare?
Thomas Fazi intervista Walden Bello
Parallelamente all'accordo commerciale attualmente in discussione con l'Unione Europea (il TTIP), gli USA stanno negoziando un accordo analogo con 11 paesi dell'Asia e del Pacifico: l'accordo TransPacifico (Trans-Pacific Partnership, TPP). Walden Bello, uno dei critici più importanti della globalizzazione neoliberista delle multinazionali, identifica qual è la strategia globale che sostiene i due trattati. Il giornalista italiano Thomas Fazi l'ha intervistato per il sito web Open Democracy.
Thomas Fazi: Oggi gli accordi di libero commercio bilaterali e regionali (o meglio, gli accordi megaregionali, come il TTIP e il TPP) hanno di fatto sostituito i negoziati nel seno dell'OMC. Siamo entrati in una nuova fase della globalizzazione?
Walden Bello: Si. Credo che la fase trionfale della globalizzazione, che ebbe il suo zenith negli anni '90 e poi cominciò a decadere dopo le mobilitazioni di Seattle del 1999, sia definitivamente finita.
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Città globali e denazionalizzazione-globalizzazione "buona"
La "cosmesi finale"
di Quarantotto
I. Che il trilemma di Rodrik sia così facilmente dimenticato, o piuttosto ignorato, a sinistra, è un fatto di cui, in qualche modo mi stupivo nell'ultimo post.
Poi, interagendo con voi nei commenti, mi è sovvenuta la spiegazione.
Il punto è presto detto: esiste l'idea di una globalizzazione buona, tale perchè:
a) lo Stato abbraccia l'internazionalismo e denazionalizza la sua azione e ciò ne potenzia l'efficienza per qualunque obiettivo voglia raggiungere: questo è un corollario dell'idea che l'internazionalismo (dell'indistinto) sia sempre e comunque cooperativo, (mentre l'assetto di Westfalia sarebbe intrinsecamente "inefficiente");
b) lo Stato ne risulta depotenziato e destrutturato e questo pure - in aggiunta all'internazionalismo che si espande- sarebbe un bene in sè.
Forse perchè lo Stato nazionale può essere solo autoritario, fascistoide e guerrafondaio, mentre invece gli Stati de-sovranizzati e filo-globalizzazione, adeguandosi alle privatizzazioni e liberalizzazioni imposte da FMI, UEM e troike varie, sarebbero altamente libertari e progressisti;
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I predatori del sistema
Benedetto Vecchi intervista Saskia Sassen
Parla l’economista e sociologa autrice di molti saggi sulla globalizzazione, in Italia per partecipare domani a un incontro del meeting torinese «Biennale Democrazia»
La conversazione è iniziata laddove era stata interrotta alcuni anni fa. Anche allora la crisi dominava la scena. Ma Occupy Wall Street era molto più che una debole speranza, mentre gli indignados sembravano inarrestabili. Per Saskia Sassen erano segnali di una possibile inversione di tendenza rispetto alle politiche economiche e sociali di matrice neoliberista. E Barack Obama negli Stati Uniti, dove vive e insegna, sembrava ancora capace di sfuggire alle grinfie della destra populista. Ad anni di distanza, Saskia Sassen non ha perduto l’ottimismo della ragione che ha caratterizzato molti suoi libri, ma è però consapevole che alcune tendenze individuate sono divenute realtà corrente.
Nota per il libro sulle Città globali (Utet), ma anche per le sue analisi sulla globalizzazione, culminate nel volume Territorio, autorità e diritti (Bruno Mondadori), dove Saskia Sassen non si limita a fotografare la globalizzazione, ma ne analizza la genesi, le trasformazioni indotte nel sistema politico nazionale e la formazione di centri decisionali politici sovranazionali, messi al riparo dalla possibilità di controllo dei «governati», da poco ha pubblicato un nuovo volume (Expulsions, Belknap Press; in Italia sarà pubblicato dall’editore il Mulino). La conversazione precede la sua partecipazione alla Biennale Democrazia di Torino, dove parteciperà domani a una tavola rotonda con Donatella Della Porta e Colin Crouch.
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ISDS, l’insopportabile leggerezza degli acronimi
Mauro Poggi
ISDS è l’acronimo di Investment-State Dispute Settlement, uno strumento di diritto pubblico internazionale per risolvere le vertenze che possono sorgere fra uno stato e i suoi investitori stranieri.
Il primo accordo del genere risale al 1959, e fu stipulato fra Germania e Pakistan. Inizialmente concepito per proteggere gli investitori stranieri da discriminazioni o espropri arbitrari, si è trasformato in un’arma che le multinazionali usano in modo sempre più invasivo per citare in giudizio gli Stati ogni volta che giudichino un provvedimento di legge lesivo dei loro diritti (o interessi, se vi pare più appropriato).
La causa viene giudicata da tribunali sovranazionali dotati di potere sanzionatorio contro gli stati, davanti a un collegio giudicante composto da avvocati d’affari che in una causa successiva (o in quella precedente) possono assumere (o hanno assunto) il ruolo di avvocato della “parte lesa”.
Nell’estensiva e fantasiosa interpretazione che le multinazionali danno ai concetti di “espropriazione” o “discriminazione”, ogni misura di legge successiva all’insediamento dell’investitore estero è suscettibile di richiesta di risarcimento, se cambiasse in senso per lui peggiorativo il quadro delle norme entro cui opera. Parliamo di qualunque cosa: salute pubblica (vedi Phillips Morris contro l’Australia e contro l’Uruguay), ambiente (Vattenfall contro Germania, Ethyl Corporation contro Canada), politica economica (Occidental contro Ecuador) e così via. Un aumento dei minimi salariali, ad esempio, potrebbe dar luogo a un contenzioso, perché il maggior costo del lavoro comporterebbe una diminuzione degli utili attesi dall’investitore.
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Che succede al prezzo del petrolio?
Domenico De Simone
Molti amici ed estimatori mi hanno chiesto delucidazioni sulla improvvisa caduta verticale del prezzo del petrolio e sulle sue origini. Ringrazio tutti per la fiducia, ma francamente non posso fare molto di più che formulare delle ipotesi, probabilmente vaghe e forse vere solo in parte. Per le previsioni, poi, non ne parliamo nemmeno, osservatori ed analisti potenti ed accreditati e sbagliano regolarmente, nonostante dispongano di mezzi di analisi e di strumenti di calcolo decisamente potenti ed affidabili. Proviamo a ragionare.
La prima idea che viene in mente, e che peraltro è stata sostenuta ed è tuttora sostenuta da diversi osservatori, è che la caduta del prezzo del petrolio è una manovra voluta dagli americani per mettere in ginocchio la Russia e far precipitare il consenso e il potere di Putin e del suo gruppo. A mio avviso, però, questa è un’idea sbagliata, o meglio, in buona parte sbagliata. Intanto la caduta verticale del prezzo del petrolio è certamente riconducibile alla decisione dell’Opec di non tagliare la produzione, seppure in presenza di una domanda mondiale debole e con prospettive persino di riduzione. L’Opec, com’è noto, è politicamente condotto dall’Arabia Saudita che, dall’alto dei suoi dieci milioni di barili al giorno di produzione ne determina di fatto le scelte.
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A proposito del concetto di Stato-nazione
di Antonio Negri*
«Nazione» è stato, per molto tempo, un concetto difficilmente definibile al di fuori di quell’altro concetto che era lo Stato-nazione. Oggi le cose sono molto differenti.
Ma cominciamo dall’inizio, dunque precisamente dal concetto di Stato-nazione. Due elementi gli hanno dato forma: il primo, politico e giuridico, era quello di Stato; il secondo, storico, etnico e culturale, era il concetto di nazione. Tuttavia, è a partire dal concetto di Stato-nazione che la nazione è diventata una realtà, che la forza sovrana ha dato origine alla nazione. Quando parliamo di nazione, dobbiamo sempre ricordare questa genesi. In ogni caso, la «nazione» è un concetto del quale sono stati proposti vari criteri di definizione, con differenti radici ideologiche. Di solito si prova ad afferrarlo sotto tre profili.
In primo luogo, una categoria che comprende i dati naturali, per esempio l’elemento etnico (la popolazione) e l’elemento geografico (il territorio). L’elemento etnico è stato talvolta collegato con l’idea di razza, anche se il concetto di razza non dà luogo che raramente, secondo i teorici della nazione, a un’applicazione biologica. Quando era questo il caso, si trattava – non solo nel caso ignobile del nazismo – di operazioni politiche prive di ogni fondamento scientifico, in ogni caso terroriste, distruttive e aggressive.
La seconda categoria comprende fattori culturali come la lingua, la cultura, la religione e/o la continuità dello Stato. In alcuni casi può esserci una stretta relazione tra la prima e la seconda categoria: il criterio etnico e il criterio linguistico possono, per esempio, confondersi, così come il criterio politico e il criterio religioso.
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L’alternativa radicale alla globalizzazione
Guido Viale
«Riterritorializzare» i processi economici. Se è stata la globalizzazione a spalancare le porte alla competitività universale, noi dobbiamo pensare e praticare alternative che valorizzino i benefici dell’unificazione del pianeta in un’unica rete di rapporti di interdipendenza e di connettività
Molte delle minacce che incombono sul nostro pianeta – e di cui poco si parla – sono già fatti. Innanzitutto la data che renderà irreversibile un cambiamento climatico radicale e devastante si avvicina. A questo vanno aggiunte tutte le altre forme di inquinamento e di devastazione, sia a livello globale che locale, che lasceranno a figli e nipoti un debito ambientale ben più gravoso dei debiti pubblici su cui politici ed economisti si stracciano le vesti.
Governi e manager hanno per lo più cancellato il problema dalla loro agenda: la green economy promossa a quei livelli non è un’alternativa al trend in atto, ma una serie scollegata di misure, spesso dannose, che ne occupano gli interstizi. L’Italia, che ha una strategia energetica (Sen) recepita dal governo Renzi, ne è un esempio: ha impegnato cifre astronomiche nelle fonti rinnovabili a beneficio quasi solo di grandi speculazioni che devastano il territorio, ma dentro un piano energetico incentrato su trivellazioni e trasporto di metano in conto terzi. È una visione miope che distrugge, insieme all’ambiente, anche l’agognata competitività, e chiude gli occhi di fronte al futuro.
Viviamo ormai da tempo in stato di guerra: l’Italia – ma non è certo un’eccezione – è già impegnata con diverse modalità, tutte contrabbandate come «missioni di pace», su una decina di fronti.
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