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tempofertile

Circa David Brooks, “La globalizzazione è finita”

Ovvero, ancora del “fardello dell’uomo bianco”

di Alessandro Visalli

luomo bianco diventa il fardelloNel 1899 nella rivista “McClure’s” Rudyard Kipling pubblicò la poesia “The White Man’s Burden” il cui sottotitolo era “The United States and the Philippines Islands”, con riferimento alle guerre di conquista che la potenza americana aveva compiuto rispetto alle colonie spagnole[1].

“Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Disperdi il fiore della tua progenie–
Obbliga i tuoi figli all’esili
Per assolvere le necessità dei tuoi prigionieri;
Per vegliare pesantemente bardati
Su gente inquieta e selvaggia–
Popoli da poco sottomessi, riottosi,
Metà demoni e metà bambini
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Resistere con pazienza,
Celare la minaccia del terrore
E frenare l’esibizione dell’orgoglio;
In parole semplici e chiare,
Cento volte rese evidenti,
Cercare l’altrui vantaggio,
E produrre l’altrui guadagno.
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Le barbare guerre della pace–
Riempi la bocca della Carestia
E fa’ cessare la malattia;
E quando più la mèta è vicina,
Il fine per altri perseguito,

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doppiozero

La globalizzazione è finita?

Quattro domande a Sergio Bologna e Giovanna Visco

a cura di Paolo Perulli

Due specialisti di logistica mondiale, Sergio Bologna, presidente di AIOM, Agenzia Imprenditoriale Operatori Marittimi di Trieste, e Giovanna Visco, blogger di Mari, Terre, Merci, intervistati da Paolo Perulli

globalizzazione guerra ucraina 1200x6751. La globalizzazione è davvero finita? Il governatore della Banca d'Italia parla di pericolo che ci sia un «brusco rallentamento o un vero e proprio arretramento dell’apertura dell’interdipendenza della globalizzazione». La fine insomma del mondo così come si era andato configurando dalla fine della Guerra Fredda in poi. Con il rischio di tornare a una dimensione più regionalizzata, con minori movimenti di «persone, merci, capitali e investimenti produttivi più bassi». Ora «i progressi dell’ultimo decennio non potranno che rallentare». Condividete quest’ analisi che è propria delle élites tecnocratiche?  O ritenete piuttosto che sia necessaria una profonda revisione delle modalità con cui la globalizzazione si è affermata in passato?

Sergio Bologna: Probabilmente è il concetto di globalizzazione che non basta più a contenere la complessità dei fenomeni in atto. Che cosa vuol dire? Che la circolazione delle merci e delle persone non ha più barriere? Dalla fine della guerra fredda la situazione è sempre stata così. Vuol dire che i sistemi produttivi si sono articolati su dimensioni planetarie? Quindi il re-shoring sarebbe il regresso della globalizzazione? Mi sembra un po’ curioso. Il re-shoring o il back shoring sono del tutto compatibili con l’esistenza e lo sviluppo della globalizzazione. Vuol dire che abitudini, stili di vita, di consumo, forme di comunicazione sono comuni a tutto il mondo? Con la diffusione di Internet e della telefonia mobile, dei social e dei whatsapp, ormai tutto il mondo comunica allo stesso modo ma non significa affatto che gli stili di consumo siano simili. Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che la globalizzazione può convivere con fenomeni di ri-regionalizzazione, di neo-autarchie, e con tutta una serie di cose che noi non abbiamo ancora sperimentato (es. l’isolamento d’intere zone del pianeta dai collegamenti Internet) ma che sono ipotizzabili.

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paginauno

OMS. La salute globale che piace ai ricchi

Profitti con la beneficenza

di Erika Bussetti

I privati dentro l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Quanto finanziano e cosa finanziano? Che potere decisionale hanno all’interno dell’Agenzia? Perché danno denaro all’OMS? Data journalism: leggiamo i numeri

Gates FoundationNel 1948 entra in funzione l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità, o WHO, World Health Organization), l’agenzia dell’ONU che, secondo il suo Statuto, ha come obiettivo principale il raggiungimento del più alto livello di salute possibile da parte di tutte le popolazioni mondiali, indipendentemente da razza, religione, credo politico, condizione economica e sociale. Ha sede a Ginevra e ne fanno parte 194 Stati. Attualmente è guidata dall’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus. Le macro aree su cui lavora riguardano il rafforzamento della copertura sanitaria universale, la prevenzione e l’intervento in caso di emergenze sanitarie e, più in generale, il raggiungimento di salute e benessere fisico, mentale e sociale a livello globale.

La pandemia da Covid-19 ha portato alla ribalta del discorso politico, internazionale e non solo italiano, il tema della sanità: smantellata e svenduta ai privati negli ultimi decenni di neoliberismo, si discute di come debba tornare a essere pubblica ed efficiente, con investimenti nei servizi sanitari nazionali. L’OMS è un’istituzione pubblica di diritto internazionale: a rigor di logica, visto anche il peso della sua voce, nel bene e nel male, in caso di emergenze sanitarie, dovrebbe essere finanziata dagli Stati stessi. Al contrario, sta in piedi grazie ai soldi di realtà private. Quel che occorre capire è quale potere decisionale hanno queste ultime all’interno dell’agenzia e perché danno denaro all’OMS. Beneficenza? Non sembra proprio. Leggiamo i numeri.

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thomasproject

Città e villaggi globali: la globalizzazione come utopia

di Gianfranco Ferraro

Pubblichiamo l’articolo di Gianfranco Ferraro dal titolo “Città e villaggi globali: la globalizzazione come utopia” uscito nel n. 5/2021 della nostra rivista semestrale

Schermata 2021 11 14 alle 15.16.26Abstract: La storia delle globalizzazioni è da sempre intrecciata ad una utopia. La globalizzazione imperialistica dell’impero portoghese a quella del sebastianismo, la globalizzazione imperialistica francese a quella dell’universalismo, la globalizzazione imperialistica inglese a quella del mercato liberale. Ogni globalizzazione ha rappresentato d’altro canto la propria utopia attraverso una città, generalmente la città capitale dell’impero, che si fa città-mondo, e sul cui modello pretende di plasmare lo stesso mondo globalizzato su cui esercita il suo potere. Se l’archetipo storico di questo legame tra città globale e globalizzazione è Roma, ogni impero ha tentato di fare della propria capitale il modello sul quale disegnare la sua forma di globalizzazione. L’attuale processo di globalizzazione economica non sembra fuoriuscire troppo da questa tradizione, pur con una importante novità: essendo una globalizzazione multicentrica, non vi è una sola città che si fa mondo, ma una pluralità di città, connesse tra loro e omogenee nella forma. La stretta connessione tra queste città globali, così come lo sviluppo di tecnologie comunicative digitali costituiscono, infine, l’utopia realizzata di un «villaggio globale», secondo l’espressione di Marshall Mac Luhan. Analizzare l’utopia dell’attuale processo di globalizzazione significa, pertanto, comprendere il legame tra le sue città globali e la forma del mondo interconnesso come villaggio globale.

* * * *

Globalizzazione, mondializzazione, glomerizzazione

Due processi, su tutti, appaiono come i più rilevanti degli ultimi trent’anni: da una parte lo sviluppo accelerato di forme di trasporto che, a un costo ridotto rispetto a quello che dovevano sostenere altre generazioni, consentono di connettere località distanti in poche ore di volo; dall’altro lo sviluppo delle reti di comunicazione digitale, che permettono di informare e comunicare in tempo reale, velocizzando scambi economici e comunicazioni.

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blackblog

La morbilità capitalista e la crisi globale

di Murray Smith, Jonah Butovsky e Josh Watterton - [*1]

MurrayLo sconvolgimento sociale del 2020-21 potrebbe segnare una grande svolta nella storia mondiale. L'emergenza sanitaria globale causata dal Covid-19 e la crisi economica ad essa associata hanno prodotto effetti sociali e politici estremamente dirompenti e di vasta portata. Anche prima dell'inizio della pandemia - va notato - l'economia mondiale era già sull'orlo di una grave recessione, vacillando dopo una prolungata - e notevolmente tiepida - ripresa dalla Grande Recessione del 2008-09. Dopo diversi decenni di crescita lenta, questo era tutto ciò che era in grado di offrire: austerità e persistenti problemi di redditività nella sfera del capitale industriale, dove si producono valore e plusvalore. La recessione è stata poi notevolmente amplificata dai lockdown (totali o parziali) imposti dagli stati nazionali alle industrie, ai servizi pubblici e alle piccole imprese. Come risultato di questo processo, sono stati raggiunti livelli di disoccupazione e contrazione economica che rivaleggiano con quelli visti nella Grande Depressione del 1930.

Come affrontare questa crisi globale "combinata" avvenuta tra il 2020 e il 2021? Con poche eccezioni, le risposte che vengono date dai media aziendali, degli strati manageriali professionali, delle élite politiche e da molti economisti appaiono notevolmente uniformi. Coerentemente con la maggior parte delle valutazioni convenzionali circa i problemi attuali dell'umanità, questo evento viene visto come se fosse un fenomeno naturale: ecco che improvvisamente e «misteriosamente» è apparso un virus stranamente infettivo e subdolo ... Di fronte a questa emergenza, si comincia a fare un gran parlare delle decisioni e delle azioni consapevoli degli individui (professionisti della salute, politici, dirigenti d'azienda e giornalisti dei grandi media) in reazione ad essa. Questo serve a minimizzare il ruolo decisivo giocato da quelle potenti forze strutturali sociali che istigano, sfruttano e determinano la forma e la grandezza della crisi.

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antropocene

Le multinazionali rafforzano il controllo sulla nostra dieta

di Navdanja Italia

unfss horizontal ok 900x506Il Forum delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari (Unfss) non offre il cambiamento di paradigma che sarebbe così urgentemente necessario per raggiungere la sovranità alimentare, la resilienza climatica e un sistema alimentare più equo. Al contrario, mantiene la stessa struttura di potere e comporta un’ulteriore colonizzazione dei cibi e delle diete locali. Il vertice si sta rivelando come l’ennesimo strumento per rafforzare il controllo su cibo e agricoltura da parte delle multinazionali e dei grandi gruppi finanziari, mentre il ruolo della società civile nella governance alimentare globale risulta estremamente limitato.

Le multinazionali stanno usando il summit per convincerci che le loro soluzioni saranno sufficienti e abbastanza ecologiche, in modo da poter mantenere intatto l’attuale sistema di interessi: il sistema non può essere cambiato, gli interessi privati non devono essere minati ma, al contrario, devono essere sostenuti da fondi pubblici. Trincerandosi dietro il linguaggio della necessità di un cambiamento nelle abitudini alimentari globali, le multinazionali hanno “dirottato” l’Unfss per imporre alimenti artificiali industriali e ultra-processati e una più profonda industrializzazione del sistema alimentare. Il modello dei sistemi alimentari industriali indicato dall’Unfss ci porta ulteriormente avanti sulla strada del collasso dei sistemi planetari, della nostra salute, delle nostre economie e della nostra democrazia.

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effimera

La tragedia (o meglio la farsa) della tassa minima sui profitti

di Marco Bersani e Andrea Fumagalli

GlobaltaxAtto I. Il potere delle multinazionali

Secondo il rapporto 2020 Top 200. La crescita del potere delle multinazionali”, elaborato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo, le imprese multinazionali sono 320.000 e occupano 130 milioni di dipendenti, pari al 4% degli occupati mondiali. Il loro fatturato è pari a 132mila miliardi di dollari, con profitti netti pari a 7.200 miliardi di dollari. Il 14% di questo fatturato è coperto dalle prime 200 imprese multinazionali.

Molte multinazionali hanno un fatturato superiore al Prodotto Interno Lordo degli Stati: nella comparazione, nei primi 100 posti compaiono 42 multinazionali (con la prima al 25esimo posto). Ma se il confronto viene effettuato tenendo conto delle entrate degli Stati e dei fatturati, le multinazionali presenti nei primi cento posti diventano 69 (con la prima al 13esimo posto).

Sempre secondo tale rapporto, le società quotate in Borsa sono circa 41.000, con un capitale complessivo di 84mila miliardi di dollari, pari al Pil dell’intero pianeta.

Tra gli azionisti delle prime 10.000 di queste società figurano per il 41% investitori istituzionali (assicurazioni, fondi di investimento, fondi pensione), per il 27% azionariato diffuso, per il 14% investitori pubblici, per l’11% imprese private e per il 7% investitori individuali.

I primi dieci fra gli investitori istituzionali gestiscono da soli il 57% della ricchezza totale finanziaria, mentre fra gli investitori pubblici, è il capitale pubblico cinese a fare la parte del leone (57%).

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osservatorioglobalizzazione

L’illusione della globalizzazione fiscale

di Giacomo Gabellini

america bidenIl gigantesco pacchetto di stimoli fiscali elaborato dall’amministrazione Biden e recentemente approvato dal Congresso ha suscitato grandi speranze, nonostante gli enormi problemi legati alla sua applicazione pratica. In concreto, il governo prevede di finanziarlo tramite «il più grande aumento delle tasse mai visto dal 1942», a carico delle fasce alte della società e delle aziende. Secondo i calcoli di Washington, i circa 2.000 miliardi di dollari richiesti dal piano dovrebbero essere rastrellati mediante l’innalzamento delle aliquote relative ai prelievi sugli utili societari (dal 21 al 28%) e sui profitti delle imprese multinazionali Usa realizzati all’estero (dal 10,5 al 21%). Per evitare che l’inasprimento della pressione fiscale all’interno dei confini statunitensi accentui ulteriormente la già spiccatissima propensione delle imprese Usa a spostare la propria sede fiscale all’estero e a ricorrere al fenomeno dell’estero-vestizione per sfuggire al fisco nazionale, Biden e il suo segretario al Tesoro Janet Yellen hanno cercato di richiamare l’attenzione della comunità internazionale sulla necessità di porre fine alla competizione fiscale in cui gli Stati Uniti sono pienamente coinvolti quantomeno dal 2010.

In quell’anno, mentre annunciavano pubblicamente l’intenzione di porre l’abolizione del segreto bancario in cima alla scala delle priorità, governo e Congresso ufficializzavano l’introduzione del Foreign Account Tax Compliance Act (Fatca), una legge che impone a qualsiasi istituzione finanziaria, sia statunitense che straniera, di fornire alle autorità tutte le informazioni riguardanti i clienti statunitensi.

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kriticaeconomica

Infrastrutture e globalizzazione: una sfida strategica

di Francesco Giuseppe Laureti e Stefano Guarrera 

the suez canal port said egypt 1 1 696x353Fin dall’antichità, le infrastrutture riflettono la capacità, tipica dell’essere umano, di rimodellare il territorio secondo le proprie necessità. Se è vero che, in origine, era il fabbisogno di beni di prima necessità e di materie prime a guidare i commerci dall’Europa attraverso le rotte del Mediterraneo e, in seguito, su distanze ben più lunghe, fino all’Estremo Oriente, ecco che l’esigenza di facilitare gli spostamenti, velocizzare il flusso di merci, semplificare le comunicazioni e collegare gli angoli più remoti del globo emerge prima di quanto si sia portati a credere.

Eppure, c’è chi offre una versione più prudente e attenta alle sfide e ai rischi che possono derivare dalle dinamiche economiche e geopolitiche innescate e catalizzate dalle opere infrastrutturali di carattere strategico.

Nel suo The Great Convergence: Information Technology and the New Globalization, Richard Baldwin, professore di Economia internazionale al Graduate Institute di Ginevra, racconta di come la pax mongolica che vigilò sulla Via della Seta tra XIII e XIV secolo non fu soltanto fattore di sviluppo dei commerci tra Occidente e Oriente, ma anche motivo di rapida diffusione della peste bubbonica. L’epidemia senza precedenti che spazzò via tra un quarto e metà della popolazione europea era stata veicolata dai traffici commerciali di un tentativo di globalizzazione, secoli prima della comparsa di treni e battelli a vapore. L’Europa sarebbe uscita prostrata da questa terribile crisi.

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sbilanciamoci

Deglobalizzazione e decoupling non sembrano vicini

di Vincenzo Comito

La Cina sta diminuendo il volume degli investimenti in Occidente, e in Europa, a vantaggio dei paesi del Sudest asiatico. Inoltre sta aumentando gli investimenti per rendersi autonoma su semiconduttori e aviazione civile. Ma è troppo poco per pensare a una crisi della globalizzazione

globalizzazione internetLa globalizzazione è qui per restare

E’ da tempo ormai, prima con l’avvento di Donald Trump negli Stati Uniti e poi con lo scoppio della pandemia, che si discute di deglobalizzazione e di decoupling come di elementi che sembrano ormai almeno per la gran parte inevitabili e in parte in atto. In realtà la situazione appare molto complessa e non riconducibile a semplici slogan giornalistici.

Ricordiamo che la globalizzazione è stata una trama collettiva fondamentale delle vicende umane nel corso dei millenni. Peraltro segue dei cicli; così a periodi di crescente integrazione economica tra i paesi, come successe ad esempio tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e lo scoppio della prima guerra mondiale, seguì a partire dalla fine della guerra e sino a tutti gli anni trenta un periodo di crescente chiusura delle frontiere. Poi è ripartita ancora più fortemente di prima, dal momento che presenta grandi vantaggi, anche se troppo spesso si concentrano nelle mani di pochi.

Nel più recente periodo, che ha visto i processi di globalizzazione presentarsi con un’intensità e una pervasività mai raggiunte prima, è mancata un’azione dei governi per far fronte alle conseguenze negative, a partire dalla difesa del lavoro, nonché per dare corso ad un impegno per la riduzione delle diseguaglianze e del potere dei grandi gruppi privati.

Bisogna inoltre ricordare che, guardando di nuovo alla storia, molte crisi producono alla fine una maggiore, e non una minore, globalizzazione (James, 2021).

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doppiozero

L’incidente di Suez e la fabbrica del mondo

Paolo Perulli intervista Sergio Bologna

mare tarantoLa conclusione della crisi di Suez con la ripresa dei flussi marittimi non significa necessariamente il ritorno al business as usual, come si affrettano a cantare gli osservatori economici mondiali. Come nelle crisi finanziarie e in quelle ecologiche e pandemiche, si è trattato di un preciso segnale di fallimento del mercato e del necessario ripensamento del modello di trasporti mondiali delle merci sin qui invalso (gigantismo navale, importazione dall’Asia di gran parte dei prodotti, anche quelli essenziali e strategici, perdita di capacità produttiva dei sistemi locali in agricoltura e nell’industria, danni all’ambiente e inquinamento) i cui costi ambientali, sociali ed economici sono crescenti.

Sulla crisi del trasporto marittimo mondiale di questi giorni abbiamo intervistato Sergio Bologna (Trieste 1937), storico, germanista, traduttore di L’anima e le forme di G. Lukács, studioso del nuovo lavoro autonomo, e uno dei maggiori esperti italiani di logistica e trasporti marittimi che su questi temi ha scritto Le multinazionali del mare (2010).

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1. La crisi delle forniture mondiali di merci causata dall’incidente occorso alla Ever Given è un episodio eclatante: è un fatto isolato, o mette in luce una criticità nel sistema mondiale della logistica marittima? Quali sono i costi ambientali, oltre che economici e sociali, dell’attuale sistema? Chi sono i vincitori e chi sono i perdenti?

È necessario iniziare dalla situazione che si era determinata dopo la crisi del 2008/9. Sorsero allora i primi dubbi sul modello della globalizzazione, non tanto sui processi di delocalizzazione quanto sulla sostenibilità delle catene di fornitura (le supply chain).

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neronot

Fantasia nella stiva

Logistica dello schiavismo e fantasie di fuga

di Stefano Harney e Fred Moten

Un estratto di Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero di Stefano Harney e Fred Moten, recentemente pubblicato da Tamu Edizioni e Archive Books, nella traduzione a cura di Emanuela Maltese. Ringraziamo l’editore per la disponibilità

CONTAINER 1536x629Logistica, o del trasporto marittimo

Lavorare oggi significa che ci viene chiesto sempre più di fare senza pensare, sentire senza emozioni, muoverci senza attrito, adattarci senza discutere, tradurre senza pausa, desiderare senza scopo, connettere senza interruzione. Solo poco tempo fa, molti di noi dicevano che il lavoro fosse passato attraverso il soggetto al fine di sfruttare le nostre capacità sociali, per spremere più forza lavoro dal nostro lavoro. L’anima discendeva nell’officina, come scriveva Franco «Bifo» Berardi o, come suggeriva Paolo Virno, ascendeva come nel virtuosismo di un oratore senza spartito. Più prosaicamente, abbiamo sentito proporre l’imprenditore, l’artista e l’investitore tutti come nuovi modelli di soggettività in grado di favorire l’incanalamento dell’intelletto generale. Ma oggi ci viene da chiederci: perché preoccuparsi proprio del soggetto, perché passare in rassegna degli esseri del genere per raggiungere l’intelletto generale? E perché limitare la produzione ai soggetti i quali, dopotutto, sono una così piccola parte della popolazione, una storia così piccola dell’intellettualità di massa? Ci sono sempre stati altri modi per mettere i corpi al lavoro, persino per mantenere il capitale fisso di tali corpi, come direbbe Christian Marazzi. E ad ogni modo, per il capitale il soggetto è diventato troppo ingombrante, troppo lento, troppo incline all’errore, un soggetto che controlla troppo, per non parlare di una forma di vita troppo rarefatta, troppo specializzata. Eppure, non siamo noi a porre questa domanda. Questa è la domanda automatica, insistente e determinante del campo della logistica.

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lordinenuovo

Le multinazionali in Italia

di Domenico Moro

aaa 2La multinazionale come forma tipica d’impresa del capitalismo odierno

Come abbiamo visto in un articolo precedente[1], l’Italia è un Paese appartenente al centro del sistema economico mondiale e presenta un carattere imperialista, sebbene occupi nella catena imperialista una posizione bassa e sebbene lo Stato imperialista italiano presenti delle debolezze strutturali, che spingono il capitale a base italiana a trovare appoggio, oltre che presso lo Stato nazionale, anche presso organismi sovranazionali, come la Nato e la Ue.

L’imperialismo odierno non si manifesta attraverso il controllo diretto territoriale della periferia da parte degli stati del centro, come all’epoca del colonialismo, ma attraverso il controllo dei flussi di capitale, di merci e di tecnologia, tra il centro – i paesi più sviluppati – e la periferia – i paesi meno sviluppati, subalterni e dipendenti rispetto ai primi.

Elemento centrale dell’imperialismo attuale sono le imprese multinazionali e transnazionali[2], cioè le imprese che articolano la loro rete di produzione e di vendita in paesi diversi da quelli di origine e di sede. Infatti, le multinazionali e le transnazionali sono state uno degli strumenti principali della globalizzazione e l’imperialismo attuale si può definire come imperialismo delle multinazionali e delle transnazionali.

Nonostante i processi di globalizzazione abbiano subito negli ultimi anni, dal punto di vista degli scambi commerciali, un rallentamento, in contemporanea con una certa tendenza verso la regionalizzazione in tre macro-aree, il Nord-America con al centro gli Usa, l’Europa con al centro la Germania e l’Asia con al centro la Cina[3], ciò non vuol dire che la tendenza all’internazionalizzazione del capitale sia venuta meno.

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sinistra

Crisi pandemica e passaggi di fase

di Raffaele Sciortino

pandemic expansion sett20 html 101a94bf96bca952“… alienati dalla natura, e quindi infelicissimi”
Leopardi, Zibaldone

"Non le cose turbano gli uomini ma i giudizi che gli uomini formulano sulle cose"
Epitteto, Manuale

Probabilmente solo questo autunno-inverno, a fronte di una nuova ondata pandemica o del suo affievolirsi, si capirà qualcosa in più sulla natura del covid dal punto di vista “medico-scientifico” (terreno spinosissimo questo del rapporto non lineare tra tecnoscienza, potere, capitale, informazione…). Ciò non toglie che, anche dovesse sperabilmente confermarsi la relativamente bassa letalità del virus sull’insieme delle popolazioni, il suo impatto è un fenomeno sociale di primaria grandezza legato al quadro di insicurezza strutturale dell’esistenza dentro il capitalismo globale, di cui le percezioni soggettive di paura, come sull’altro versante di scetticismo o negazione, sono manifestazione oggettiva. La pandemia - crisi sociale non solo globale ma simultanea - si sta rivelando infatti un notevole acceleratore delle particelle già discretamente impazzite del capitalismo a più di dieci anni dallo scoppio della crisi globale. Al tempo stesso è un potente rivelatore delle patologie del capitalismo all’altezza della sussunzione reale e un catalizzatore di reazioni sociali profonde. Reazioni che manifestano all’oggi tendenze contraddittorie compresenti che in parte si scontrano, in parte si intrecciano, con esiti politici indeterminati. Qui di seguito, per punti, alcune valutazioni in corso d’opera e qualche ipotesi interpretativa.

 

§ 1. Doppia crisi: deglobalizzazione o crisi della globalizzazione? Usa/Cina; cambio di passo UE; keynesismi selettivi

Ad un’analisi impressionistica il coronavirus può apparire uno shock esogeno: in realtà, non solo il sistema economico globale era a inizio 2020 già sotto notevole stress, ma l’intreccio tra crisi economico-finanziaria e sconvolgimenti in senso lato ambientali andrebbe oramai considerato a pieno titolo un fattore endogeno.

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tempofertile

Richard Baldwin, “Rivoluzione globotica”

di Alessandro Visalli

globalizzazioneIl libro[1] di Richard Baldwin, che reca come sottotitolo “globalizzazione, robotica e futuro del lavoro”, è del 2019 e si concentra su quella che definisce “rivoluzione globotica”. Per Baldwin si tratta di una grande trasformazione in avvio che deriva dalla convergenza sul mondo del lavoro di due potenti forze: la globalizzazione (con la concorrenza globale che porta con sé) e la robotica.

In particolare il suo testo non ha di mira la rivoluzione avviata durante gli anni novanta e dispiegata negli anni zero, quando l’insorgere della mondializzazione delle merci e il decentramento dei processi produttivi iniziato negli anni settanta produsse un enorme impatto progressivo sul “colletti blu”, ovvero sugli operai delle fabbriche. Ha invece di mira una nuova che sta arrivando e inizia a mordere le nostre società da qualche anno: l’aggressione che i “robot colletti bianchi” sta producendo proprio ai lavoratori della conoscenza e dei servizi che avevano “vinto” nella precedente trasformazione. Una aggressione che ha due aspetti strettamente interconnessi e reciprocamente potenzianti: da una parte alcuni e sempre più lavori potranno, e di fatto sono, automatizzati da processi di intelligenza artificiale di nuovo tipo sempre più potenti[2]; dall’altra sempre più “telemigranti” entreranno in competizione con le mansioni direttive e da analisti di simboli che pensavamo al sicuro dalla rivoluzione tecnologica.

Una cosa del genere è spesso accaduta in passato ed è stato sempre superata. Ma per l’economista inglese “questa volta è diverso”. La ragione è che sta arrivando con velocità inaspettata un radicale disallineamento che supererà di molto la normale capacità del mercato di trovare nuovi lavori sostitutivi.