Sulla ‘legge’ del valore-lavoro in Marx. Una nuova soluzione formale.
di Andrea Pannone

Introduzione
Il recente bicentenario della nascita di Karl Marx (1818-2018) e l’evoluzione della crisi dell’economia mondiale, palesatasi a partire dal 2008 e successivamente aggravata dall’emergenza pandemica tutt’ora in corso, hanno riacceso l’interesse per il contributo economico e politico del filosofo di Treviri e per il contenuto della sua opera più rappresentativa -i tre libri de Il Capitale – rivitalizzando apparentemente il dibattito sulla possibile attualizzazione di (almeno) parte di quell’analisi (si veda ad esempio Bellofiore 2019, Bellofiore e Fabiani 2019, Gattei 2020, Bellofiore 2020, Brancaccio 2020). Nonostante il lodevole intento di questi contributi, resta quasi del tutto assente il tentativo di ripensare formalmente la ‘legge’ del valore-lavoro e il suo rapporto con la circolazione delle merci, in un modo che sia altresì coerente con alcune specificità di funzionamento di un’economia capitalistica moderna. Questa assenza costituisce, a mio parere, un limite fondamentale della più recente discussione sul Capitale proprio in virtù del fatto che, a partire dal presunto errore marxiano nell’esposizione formale della formazione di un saggio generale del profitto, la ‘legge’ del valore- lavoro è stata progressivamente data per defunta.
Il presente lavoro si cimenta esplicitamente su questo punto cercando di fornire una soluzione formale non convenzionale. Nel primo paragrafo viene richiamato brevemente il problema della matematizzazione della legge del valore, partendo da Bortkiewitz fino alla soluzione fornita da Sraffa in Produzione di Merci a mezzo merci.
Successivamente, nel paragrafo 2, si presenta il dibattito recente sul tema, che riguarda i contributi riconducibili alla cosiddetta new interpretation e alla Temporal Single-System Interpretation (in breve TSSI). Nel terzo e nel quarto paragrafo, i punti focali di questo scritto, si propone un framework da cui può essere derivata una nuova soluzione formale alla legge del valore-lavoro che, pur con riferimento a contesti produttivi e di mercato più vicini ai giorni nostri, raggiunge le principali conclusioni mostrate da Marx nel primo libro del Capitale.
Per non appesantire eccessivamente la trattazione, alcuni punti richiamati sinteticamente nel testo sono approfonditi nelle note a cui rimandiamo.
1. La matematizzazione del problema del valore-lavoro dopo Marx
Come ci ricorda Giorgio Gattei (2003), la ‘legge’ del valore-lavoro - ossia il principio secondo cui le merci si scambiano sul mercato in base a un rapporto di valore che equivale al rapporto tra le quantità di lavoro necessarie a produrle - fu “formulata per la prima volta da Adam Smith nel celebre esempio dello scambio del castoro col cervo (1776), poi accolta da David Ricardo nei suoi Principi di economia politica (1821) ed infine approdata a Marx”, e presentata per la prima volta dal filosofo di Treviri nel primo libro dl Capitale (1867). Comunque, a differenza dei primi due autori, per Marx il principio del valore-lavoro non è una teoria dei prezzi relativi delle diverse merci ma l’idea centrale di una teoria che pone la forma capitalistica dello sfruttamento alla base del profitto e della distribuzione del prodotto sociale (vedi Nuti, p. 228)1. Ad ogni modo Marx, in questo non difformemente da Smith, riconosce che valori e prezzi non possano sempre coincidere2. Ma, nel caso, come ancora osserva Gattei, risulterebbe compromessa l’equivalenza tra valori e lavoro contenuto, in quanto verrebbe violata la doppia condizione di uniformità del saggio del salario e del saggio del profitto in tutte le produzioni3. Questo porterà lo stesso Marx, attraverso la teoria dei prezzi di produzione presentata negli scritti confluiti nel terzo libro del Capitale (1894), a sostenere che “i valori si trasformano in prezzi per effetto di un processo governato dalla concorrenza tra i diversi capitali4. Il cosiddetto ‘problema della trasformazione’ che ha dato luogo a una letteratura sterminata, sia di parte marxista sia di parte antimarxista, nella quale la ‘trasformazione’ è vista di volta in volta come processo storico, come processo che davvero si dà nel sistema capitalistico, come problema matematico, o come una combinazione fra processo storico e problema matematico.” (vedi Lunghini e Ranchetti 1999).
Il contributo che produce una svolta nella trattazione matematica del problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione è sicuramente quello fornito nel primo decennio del XX secolo da Bortkievicz (2007), che riconsidera tale problema attraverso un sistema di equazioni (da Bortkiewicz attribuito all’economista russo W.K. Dmitriev), per fornire ‘la prova’ di un fatale errore interno al ragionamento marxiano: non essendo infatti possibile conoscere i prezzi prima di conoscere il saggio di profitto, e viceversa, Marx trasforma in prezzi di produzione i valori - misurati in ore di lavoro - delle merci che escono dal processo produttivo (ossia gli output), ma ciò non accade per i valori delle merci che entrano (ossia gli input). Quindi tutto il ragionamento, si sostiene, risulterebbe incoerente e viziato da contraddizioni logiche. Sarebbero infatti ammissibili per Marx, simultaneamente, due equivalenze: da un lato, fra la somma dei valori e la somma dei prezzi di produzione; dall’altro, fra plusvalore totale e profitti totali. Ora, se si esclude il caso non realistico di una composizione organica (ossia di un rapporto tra capitale costante e capitale variabile) uguale per tutte le merci, appare che queste due equivalenze non possono sussistere simultaneamente: se è vera la prima non è vera la seconda, e viceversa (vedi Sylos Labini 1973)5. Traendo ispirazione da questi economisti/matematici russi molti studiosi, tra cui ricordiamo Seton (1957), Morishima (1964) e Sraffa (1960), si sono orientati alla ricerca di una soluzione che, determinando simultaneamente i prezzi e il saggio del profitto, fosse in grado di superare la questione. Sraffa, in particolare, nella sua opera principale, Produzione di merci a mezzo di merci (1960), intreccia la sua analisi del valore-lavoro con la critica della teoria “neoclassica” del valore e della distribuzione, all’interno di una concezione del sistema economico propria dei Classici. Tale sistema è visto cioè come un “processo circolare della produzione sociale, nel quale le stesse merci che compaiono come prodotti sono presenti anche come mezzi di produzione impiegati per la loro produzione” (v. Sraffa 1960)6. L’oggetto principale dell’analisi di Sraffa riguarda la distribuzione del sovrappiù fra profitti e salari e perciò la determinazione dei prezzi relativi delle merci che, corrispondentemente a ogni possibile e differente situazione distributiva, permettono la riproduzione della configurazione produttiva data (cioè la quantità dei prodotti e dei mezzi di produzione, nonché le tecniche di produzione). “Senza entrare nei dettagli del procedimento analitico, la soluzione del problema classico secondo l’impostazione sraffiana può così essere sintetizzata. Data una certa configurazione produttiva e una delle due variabili distributive, poniamo il salario, si determinano mediante un sistema di equazioni simultanee i prezzi che assicurano il pareggio del bilancio nelle diverse industrie e l’altra variabile distributiva, cioè il saggio del profitto. (Viceversa, se si ponesse come dato il saggio del profitto, si determinerebbero i prezzi e l’altra variabile distributiva, cioè, in questo caso, il salario.) Ma qual è il significato teorico di questa semplice ed elegante operazione?” (Lunghini e Ranchetti 1999). O, per meglio dire, cosa resta della teoria del valore-lavoro di Marx dopo Sraffa? La risposta a questo interrogativo si sovrappone al dibattito avvenuto in seno alla ‘scuola neoricardiana’, una corrente del pensiero economico che riprende e sviluppa le opere di Ricardo alla luce del contributo dell’economista di Cambridge, di cui per ragioni di spazio, ci limitiamo a dare solo pochi cenni. Tratto comune ai vari autori di questa scuola è quello di considerare il problema marxiano del valore come sostanzialmente ridondante ai fini della determinazione dei prezzi e del saggio del profitto7. I valori- lavoro possono certamente essere derivati a partire dal dato “fisico” dei metodi di produzione e dalle condizioni di sussistenza dei lavoratori. Cionondimeno, una volta noti quei metodi e quelle condizioni, i prezzi di produzione e il saggio del profitto possono essere determinati direttamente all’interno del modello di Sraffa. In questo schema teorico, quindi, il lavoro può mantenere un ruolo esplicativo del valore solo dal punto di vista qualitativo – le merci sono prodotte a mezzo merci ma con la presenza ineliminabile del lavoro umano – ma non certo dal punto di vista quantitativo in quanto l’apporto di quantità del fattore lavoro al valore delle merci non è misurabile8. Ad ogni modo, relativamente a questo tema, le recenti consultazioni dell’archivio di Sraffa depositato al Trinity College presso la Wren Library (Cambridge, UK), sembrano, secondo alcuni autori (vedi ad esempio Bellofiore 2020 e Gattei e Gozzi 2009, Gattei 2003), poter aprire una nuova prospettiva interpretativa che collocherebbe lo stesso Sraffa vicino alla New Interpretation corrente di pensiero che esamineremo nel prossimo paragrafo9, e più vicino a Marx di quanto si sia pensato dopo la pubblicazione del suo libro. Il punto di contatto è rappresentato da quella che è stata definita “equazione del neovalore” - ossia l’eguaglianza tra il prezzo di produzione del prodotto netto e il lavoro vivo (o diretto) impiegato per la produzione del prodotto lordo – che sarebbe secondo l’interpretazione di Gattei (2003, 2018) quasi esotericamente suggerita da Sraffa assumendo implicitamente Y/L = 1 come numerario nel sistema di equazioni di Produzioni di merci a mezzo merci10.
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Comments
formale alla legge del valore-lavoro che, pur con riferimento a contesti produttivi e di mercato più
vicini alle economie moderne, è del tutto coerente con le principali conclusioni mostrate da Marx nel primo libro del Capitale e con lo spirito della sua analisi: ricondurre l’origine del profitto al pluslavoro, ossia a un rapporto di sfruttamento.
Lo schema prende le mosse da due problematiche irrisolte della legge del valore-lavoro sia nei Classici che nel primo libro del Capitale, che Marx cerca di aggirare nel terzo libro (problematiche a mio parere non adeguatamente risolte nel dibattito sulla trasformazione). La prima riguarda
il comportamento dei prezzi delle merci; il secondo la valutazione del valore del capitale in presenza di beni capitali eterogenei. La trattazione di questi due aspetti all’interno del nostro schema, è intimamente connessa al modo in cui viene rappresentato “il fatto produttivo” e l’organizzazione dei mercati, rappresentazione che rispecchia alcune caratteristiche essenziali di un'economia capitalistica moderna.