Il comunismo nel buio (7)
Il Che fare? della cultura nell’epoca delle “passioni tristi”
di Eros Barone
Per il metodo dialettico, è soprattutto importante, non già ciò che, a un dato momento, sembra stabile, ma comincia già a deperire; bensì ciò che nasce e si sviluppa, anche se, nel momento dato, sembra instabile, poiché, per il metodo dialettico solo ciò che nasce e si sviluppa è invincibile.
Giuseppe Stalin
1. Il capovolgimento di Hegel: paradigma per ogni pratica materialistica della filosofia e della politica
Nel nostro confronto/scontro (un po’ come accade nella suggestiva evocazione dell’Operetta leopardiana intitolata Dialogo della natura e di un islandese, allorché quest’ultimo, “andando per l’interiore dell’Affrica, e passando sotto la linea equinoziale”, “ebbe un caso simile a quello che intervenne a Vasco di Gama”, e cioè che “il Capo di Buona Speranza, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque”) si è affacciata, finalmente, una questione che “fa tremare le vene e i polsi”, e dalla quale anche noi, quale che sia il nostro grado di competenza, non ci faremo “distorcere”: il rapporto tra la filosofia hegeliana e il materialismo storico-dialettico di Marx e di Engels. Consapevole del carattere inevitabilmente stenografico, e perciò riduttivo, delle considerazioni che seguiranno, ritengo tuttavia necessario, nel confrontarmi con una replica, quale è quella di Ennio Abate, sostanzialmente evasiva e, nondimeno, protesa a contestare frontalmente le mie Tesi sul comunismo senza alcun supplemento di analisi, ma soprattutto senza la minima ammissione autocritica e senza alcuna concessione alle istanze marxiste-leniniste che le caratterizzano, prendere le mosse dalla classica formulazione di Lenin, secondo cui l’idealismo tedesco è una delle “tre componenti e fonti integranti del marxismo” (le altre, come è noto, sono l’economia politica classica e la rivoluzione francese).
In particolare, l’idealismo tedesco, la cui più alta espressione è rappresentata dalla filosofia di Hegel, è il motore del materialismo dialettico, che della teoria marx-engelsiana costituisce il nerbo. Soltanto Hegel, infatti, ha elaborato un sistema filosofico che è capace di rispecchiare l’intero processo storico, fino alla costruzione dello spirito assoluto, il quale include in sé tutte le filosofie del passato.
In questo senso, la filosofia di Hegel costituisce, per la sua epoca, la forma più alta, e il compimento, dei sistemi filosofici in generale: il mondo (sia pure capovolto) come idea. Ed è proprio dal “capovolgimento” (in tedesco ‘Umstülpung’: letteralmente l’azione, tanto per porgere un esempio felicemente intuitivo, di rivoltare un calzino); è proprio dal capovolgimento, dicevo, della filosofia di Hegel, intrapreso da Marx, Engels e Lenin, che nasce, oltre al materialismo storico, il materialismo dialettico: due fuochi di un’unica ellisse.
Il capovolgimento di Hegel diventa allora il modello per ogni pratica materialista della filosofia, poiché nel capovolgimento la cosa stessa viene colta a partire dall’immagine riflessa. Nei Quaderni filosofici Lenin indica tale stato di cose, quando riprende i concetti hegeliani di “astratto” e “concreto”, collegandoli con il metodo di Marx: dal concreto all’astratto e dall’astratto al concreto. “I concetti logici sono soggettivi, finché restano ‘astratti’, nella loro forma astratta; ma allo stesso tempo essi esprimono le cose in sé. La natura è sia concreta che astratta, sia apparenza che essenza, sia momento che rapporto. I concetti umani sono soggettivi nella loro astrattezza, nel loro distacco, ma essi sono oggettivi nell’insieme, nel processo, nel risultato complessivo, nella tendenza, nella sorgente”. Le “forme del pensiero” sono invece “l’universale in quanto tale” e rappresentano sempre la connessione, l’essenza, contrariamente ai sensi che ci dànno sempre il particolare, senza rappresentare il suo carattere mediato. “I sensi mostrano la realtà. Pensiero e parola l’universale”. Da questo punto di vista, non è il mondo materiale stesso che diventa nostro oggetto, bensì l’idea della realtà materiale (questo è il lato epistemologicamente ‘forte’ dell’idealismo!). Il tutto, invece, ciò che non ci viene “mostrato” dai sensi, è oggetto sempre e soltanto come idea. La realtà, così come essa ci è data nella forma del concetto, si differenzia a sua volta dalla realtà in sé per il fatto che ne è la raffigurazione ideale (Abbildung).
Ebbene, occorre sottolineare che l’origine del capovolgimento idealistico consiste nel tradurre una relazione di rispecchiamento in una relazione di produzione, laddove lo scambio della raffigurazione con la realtà stessa ci dà, per l’appunto, l’idealismo. Sennonché, decifrato mediante la teoria del rispecchiamento e coerentemente tradotto nel linguaggio marxiano, l’idealismo è prezioso, poiché ci mostra l’apparire del vero come “identità di identità e non-identità”, anche se stabilire la giustezza o l’erroneità del rispecchiamento è possibile soltanto in un rapporto non-teoretico: in un rapporto, quindi, che si esplica sul terreno della particolarità materiale e che non è il pensiero dell’altro, bensì l’altro stesso che sta di fronte al pensiero (prima e seconda Tesi su Feuerbach). Si tratta, cioè, dell’agire pratico, ragion per cui il criterio della verità è costituito dalla “prassi”, che si esplica in tre forme di carattere sociale: produzione, sperimentazione tecnico-scientifica e lotta di classe.
Ribadisco dunque, che la dialettica è la logica del mutamento e che, per prevenire semplificazioni e deformazioni che ignorano la complessità, la multilateralità e, nel contempo, il rigore di tale logica, è bene riflettere sui sedici elementi della dialettica individuati da Lenin nei Quaderni filosofici. Così, il metodo dialettico considera come centrale il movimento. Ma c’è movimento e movimento, poiché è evidente che il movimento ha diverse forme. Orbene, il metodo dialettico afferma che il movimento ha una duplice forma: evoluzione e rivoluzione. Il movimento è di evoluzione quando gli elementi progressivi svolgono spontaneamente la loro funzione, introducendo nei vecchi ordinamenti piccoli cambiamenti quantitativi. Il movimento è rivoluzionario quando quegli elementi si uniscono, si compenetrano in un’idea unica e si scagliano contro il campo nemico per distruggere dalla radice i vecchi ordinamenti e introdurre nella vita cambiamenti qualitativi, stabilire nuovi ordinamenti. L’evoluzione prepara la rivoluzione e crea ad essa il terreno, e la rivoluzione, a sua volta, è il coronamento della evoluzione e contribuisce al suo lavoro ulteriore.
Antonio Labriola, polemizzando con le concezioni socialdarwiniste diffuse nella cultura della fine dell’Ottocento, ebbe ad usare il termine di “epigenetica” per qualificare la concezione della storia quale processo che si svolge da sé, in virtù degli elementi e delle forze in gioco, senza alcun piano prestabilito. Da qui scaturisce l’analogia con la rivoluzione darwiniana delle scienze della natura, su cui posero l’accento sia Marx che Engels. Dal canto suo, Labriola aveva perfettamente ragione ad insistere nel criticare certe sintesi affrettate dal biologico (per non dire dal cosmologico) al sociale, richiamando la fondamentale istanza per cui, tra questi diversi campi, vanno sempre fatte le debite distinzioni metodologiche. Infine, abituati come siamo a collegare il marxismo alle scienze (come se esso non fosse a pieno titolo una scienza), perché non rammentare l’influenza che il marxismo ha esercitato nel campo delle scienze naturali con la teoria degli equilibri punteggiati elaborata nel 1972 da Eldredg e Gould?
2. La cultura è il luogo della ricerca dell’unità perduta
Il giovane Marx ha giustamente affermato che la negazione della cultura come sfera separata è il primo passo verso la riconquista dell’unità perduta. Se questo è l’ideale regolativo e, nella misura in cui le basi delle società classiste saranno scalzate, anche l’ideale costitutivo, verso cui tendiamo come marxisti e come comunisti, proprio la dialettica ci insegna la necessità di mediare questo ideale nella dura realtà concreta del nostro tempo. Concludo perciò, esponendo in forma aforistica, e indicando fra parentesi gli autori da cui le ho tratte, alcune considerazioni riguardanti il rapporto tra cultura e politica, la cui importanza è dirimente sia sul terreno della battaglia ideale che su quello dell’impegno civile.
Parto da un assioma che mi sembra innegabile tanto in linea di principio quanto alla luce dell’esperienza storica che ha segnato l’età contemporanea: “destra e sinistra esistono anche nel deserto” (Mao Zedong). Certo, la linea di demarcazione fra la destra e la sinistra nel campo della cultura non si può ricavare meccanicamente dalla linea di demarcazione fra la destra e la sinistra nel campo della politica (cfr. Elio Vittorini), ma esiste: identificarla è un problema di analisi specifica la cui soluzione richiede rigore culturale, consapevolezza storica e senso critico. La terza considerazione ricorda, a proposito del rapporto tra capitalismo e fascismo, che “quel grembo è ancora fecondo” (Bertold Brecht). La quarta indica due punti di non ritorno (i quali, dato il carattere precario delle conquiste democratiche nell’odierno quadro mondiale, si traducono per le forze coerentemente comuniste e per tutta l’umanità progressista in altrettanti compiti da assolvere): la battaglia di Stalingrado (1943) e la realizzazione della bomba atomica cui ha contribuito in misura notevole il fisico italiano Bruno Pontecorvo, emigrato all’inizio degli anni Cinquanta in Unione Sovietica. Laddove è opportuno precisare che il primo evento ha rappresentato nella nostra epoca, dal punto di vista storico-filosofico, lo scontro decisivo fra la destra e la sinistra hegeliane (Ernst Cassirer), mentre il secondo ha aiutato il primo Stato proletario della storia mondiale a modificare i rapporti di forza tra il campo socialista e l’imperialismo anglo-americano. Riconosco che si tratta di presupposti inconciliabili con l’opportunismo culturalistico nel quale taluni credono di potersi rifugiare quando, per dirla con un poeta, “fa troppo freddo nella storia”, ma da essi non può prescindere, pena l’abdicazione al proprio ruolo intellettuale, chi intenda fare della cultura non un meccanismo che, sublimandola ed eternizzandola, riproduce la società esistente, ma un’arma della critica e, quindi, un fattore organico e operante del “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”.
3. Il “porro unum necessarium”: la lotta contro l’imperialismo americano e contro il sionismo israeliano
Ritengo opportuno introdurre, nello svolgere la mia anticritica alle osservazioni di Abate contro le mie Tesi sul comunismo, una questione che, condizionando tutte le altre, è chiaramente la più importante: la lotta contro l’imperialismo (un termine, spero non un concetto, che non compare nella replica di Abate). Orbene, il marxismo è stato un tenace sostenitore dei movimenti di liberazione nazionale sparsi nel mondo. Non per nulla, durante la prima metà del ventesimo secolo, ha costituito per molti di questi movimenti la principale ispirazione. In questo senso, i marxisti sono stati all’avanguardia di due tra le più importanti lotte politiche dell’epoca moderna: la resistenza al colonialismo e la lotta contro il fascismo. La maggior parte del nazionalismo africano sorto dopo la seconda guerra mondiale, da Nkrumah e Fanon in poi, si è orientata su una qualche versione del marxismo o del socialismo. Parimenti, la maggioranza dei partiti comunisti in Asia ha integrato il nazionalismo nelle proprie piattaforme programmatiche. Mentre le classi operaie dei paesi capitalistici avanzati, durante gli anni Sessanta del secolo scorso, sembravano essere relativamente passive (ma bisogna tenere conto del ruolo divisivo e frenante delle aristocrazie operaie), le masse contadine, insieme con le avanguardie intellettuali, di Asia, Africa e America Latina, hanno portato avanti, in nome del socialismo, processi rivoluzionari o dato vita a società relativamente indipendenti. Dall’Asia, come Abate ben sa, vennero sia l’ispirazione della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria di Mao Zedong in Cina nel 1966 sia la resistenza dei Vietcong di Ho Chi Minh contro gli USA in Vietnam, per tacere dei progetti e degli ideali socialisti africani di Nyerere in Tanzania, di Nkrumah in Ghana, di Cabral in Guinea-Bissau e di Franz Fanon in Algeria. Infine, dall’America Latina si sprigionò la rivoluzione cubana di Fidel Castro e di Ernesto Che Guevara.
Così, il nazionalismo rivoluzionario ha arricchito il marxismo e lo ha reso più aderente alle diverse situazioni concrete, nel mentre il marxismo ha cercato di offrire ai movimenti di liberazione del cosiddetto Terzo Mondo qualcosa di più costruttivo ed innovativo che non il semplice avvicendamento del dominio di una classe capitalistica, la cui sede era all’estero, con un altro dominio similare da parte di una classe capitalistica autoctona. Nel contempo, il marxismo ha tentato di andare oltre l’orizzonte ristretto della nazione, promuovendo una visione più internazionalista. In effetti, se il marxismo, seguendo le orme di Lenin e di Stalin, ha appoggiato i movimenti di liberazione nazionale dei paesi dipendenti – colonie e semicolonie -, lo ha fatto, chiedendo che le loro prospettive fossero fondate sull’internazionalismo socialista piuttosto che sul nazionalismo borghese. È pur vero che nella maggior parte dei casi questa richiesta non ha prodotto i risultati sperati.
La storia insegna che, quando giunsero a conquistare il potere, i bolscevichi proclamarono il diritto all’autodeterminazione dei popoli colonizzati e si adoperarono per tradurre questo principio in pratica. Tale diritto fu poi riconosciuto dal II Congresso dell’Internazionale Comunista (1920). Dal canto suo, Lenin, nonostante il suo atteggiamento critico verso il nazionalismo, è stato il primo grande teorico politico in grado di cogliere il significato dei movimenti di liberazione nazionale. Egli, criticando la tesi del nazionalismo romantico, ha precisato che la liberazione nazionale è una questione di democrazia radicale, non di tendenza meramente nazionalista e, quindi, sciovinista. Come ha rilevato Domenico Losurdo, il marxismo, realizzando una combinazione singolarmente potente, è diventato sia un sostenitore della lotta anticoloniale che un critico dell’ideologia nazionalista. In realtà, Lenin, tre decenni prima che l’India conquistasse la sua indipendenza e quarant’anni prima che i movimenti di liberazione africani salissero alla ribalta nei primi anni Sessanta, aveva già riconosciuto nei movimenti nazionali antimperialisti un fattore di importanza strategica nella politica mondiale.
Per quanto riguarda le posizioni di Marx e di Engels, basti pensare agli indirizzi inaugurali che accompagnarono il Congresso di fondazione della Prima Internazionale (Londra, 1864) con il sostegno alla causa nazionale dell’indipendenza polacca. Nell’atto fondativo della prima organizzazione internazionale dei lavoratori compare quindi, assieme al riconoscimento della necessità della lotta di classe, il riconoscimento esplicito della necessità della lotta per l’indipendenza nazionale dei popoli oppressi. Quello irlandese era uno di questi, e uno dei motivi della rottura fra Marx e i dirigenti inglesi del movimento cartista è connesso proprio alla questione dell’indipendenza irlandese, che questi osteggiavano. Quegli esponenti della sinistra radicale italiana che negano oggi ai popoli oppressi dall’imperialismo americano ed europeo il diritto di resistere con le armi per la propria indipendenza nazionale sono perciò lontani anni luce dalle concezioni che furono di Marx e di Engels.
Rammentando la lezione di Marx e di Engels, così come di Lenin e di Stalin, dobbiamo allora, come comunisti ed antimperialisti, trarne i debiti insegnamenti e imparare il corretto metodo per sviluppare efficacemente una politica antimperialista. In assenza di un “moderno Principe”, quale è stato per decenni il campo socialista gravitante sull’Unione Sovietica, ci si deve quindi rivolgere, per dirla con Machiavelli, al “men tristo”, il che significa necessariamente stabilire possibili alleanze tattiche e convergenze momentanee anche con forze che si ispirano a culture politiche, borghesi o religiose, assai lontane o addirittura estranee alla concezione marxista e comunista, ma che avvertono il pericolo e la minaccia globale dell’imperialismo americano e del suo cane da guardia, il sionismo israeliano.
Dopo il crollo dell’Urss nel 1991, gli americani hanno “cambiato spalla al loro fucile” e si sono rivolti ad altri alleati di destra, di centro e di sinistra. E questo avverrà, nonostante la svolta neonazionalista e protezionista da lui promossa, anche con Donald Trump, perché non basta una personalità, sia pure di rilievo, a modificare la potente macchina imperialistica di quella che resta, pur nel contesto di una crisi economico-finanziaria ingravescente, la maggiore potenza mondiale. Può accadere che settori fascisti accentuino una loro identità “antiamericana” (ed “antiebraica”), ma ciò non ha niente a che vedere con la lotta dei comunisti, che è antimperialista ed antisionista, ma che non si rivolge mai contro il popolo americano nel suo insieme o contro gli appartenenti alla religione ebraica in quanto tali.
Infine, ciò non può e non deve infirmare, come Abate sicuramente riconosce, il nostro appoggio alla causa palestinese e alla resistenza dell’Iran, anche quando alla testa di quei paesi si trovano forze integraliste come Hamas, Hetzbollah o il clero sciita con a capo Khamenei. Accade, peraltro, che nella politica estera al criterio marxista di individuare la potenza o le potenze più pericolose viene talvolta sostituito quello proudhoniano di metterle tutte sullo stesso piano. Eppure ha un’evidenza inequivocabile l’estrema aggressività degli Stati Uniti, che stanno portando avanti “rivoluzione colorate” nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale per accerchiare la Federazione russa, per estendere il più lungo ‘limes’ del mondo (quello che parte dall’Asia Minore, passa dall’Asia centrale e giunge fino al confine con la Cina) e per riconquistare il controllo dell’America Latina, mentre utilizzano in Ucraina servi sciocchi quali Merz, Starmer, Macron e Meloni sia come ascari in funzione antirussa sia come apripista per la penetrazione in Africa.
Gli USA e Israele ci stanno portando in guerra, e la maggioranza dei lavoratori, dei giovani, dei disoccupati e dei pensionati neppure se ne rende conto. Ci sono, è vero altre potenze, che potrebbero guadagnare terreno, e vanno smascherate, ma il pericolo immediato, il nemico che si trova in casa nostra, che colloca atomiche nel nostro territorio senza neppure informare il nostro governo dell’ubicazione effettiva, che controlla i nostri servizi segreti, che ha trasformato certe zone del nostro paese in proprie riserve, dove agisce incurante dei pericoli per la popolazione, questo nemico è presente e operante nel nostro territorio da ottant’anni. Certo, l’egemonia mondiale degli USA non è più incontrastata, ma la tigre è più feroce quando teme l’accerchiamento. Nel 1864 il maggior nemico era lo zarismo, oggi è la classe dirigente americana, con tutta la sua corte di satelliti. Ecco perché in questa lotta un peso particolare dovrà averlo il proletariato statunitense, senza il cui intervento la lotta è disperata.
In realtà, Marx ci spiega che il processo di liberazione non è unilaterale, e che la liberazione delle colonie e semicolonie ha un effetto liberatorio anche sulle metropoli. Si pensi agli anni Sessanta del Novecento, quando le lotte di liberazione in Asia, Africa e America Latina si sviluppavano, e contemporaneamente nell’Europa e in America si verificavano profondi cambiamenti sociali e di mentalità. Con la sconfitta di molti di questi movimenti e soprattutto con la politica neocolonialista (guerre di Afghanistan, Iraq, Somalia, Libia, Yemen, Siria) la xenofobia, il razzismo e il suprematismo si diffondono. Dopodiché, quando il proletariato delle metropoli diventa indifferente alla liberazione delle colonie e semicolonie, le sconfitte e l’arretramento diventano inevitabili. Il proletariato dei paesi avanzati sarà sempre sconfitto dalla propria borghesia, finché non deciderà di aiutare i paesi coloniali a liberarsi dall’imperialismo, colpendo così l’imperialismo nelle sue riserve di caccia. Eppure, ci sono compagni in buona fede, convinti che la questione nazionale non abbia più nessuna importanza.
4. Chi sono oggi i “Tui”?
Il caso di Abate presenta qualche affinità con la sindrome di Adorno, la cui avversione per il socialismo realmente esistente si accompagnava ad una tendenza verso il disfattismo e la disperazione, laddove queste non sono semplicemente reazioni emotive di carattere personale, ma sono passioni derivanti da una precisa posizione di classe. «I rappresentanti del moderno movimento operaio», ha scritto icasticamente Lenin nel 1910, «si accorgono di avere molto contro cui protestare, ma nulla per cui disperarsi». E aggiungeva impietosamente, com’era suo solito, che «la disperazione è tipica di coloro che non comprendono le cause del male, non vedono vie d’uscita e sono incapaci di lottare». Adorno fu dominato da queste “passioni tristi” anche nelle sue critiche al movimento studentesco anticapitalista e antimperialista degli anni Sessanta, che arrivò addirittura a bollare, insieme con l’ex radicale Habermas, come “fascismo di sinistra”. Ancora una volta, il “maestro” della Scuola di Francoforte ripudiava uno dei princìpi centrali del marxismo: il primato della prassi.
L’idealismo, ovviamente inteso in senso deteriore, è il tratto distintivo delle riflessioni di Adorno e Horkheimer sul socialismo realmente esistente e, più in generale, sui movimenti sociali di carattere progressista e rivoluzionario. È allora difficile negare che gli studenti avessero ragione quando, alla fine degli anni Sessanta, diffusero dei volantini in cui si affermava che gli studiosi di Francoforte erano “critici in teoria, conformisti in pratica”. In conclusione, i “Tui” hanno patrocinato, con un linguaggio accademico di alto livello, la linea del Dipartimento di Stato degli USA, secondo cui il comunismo sarebbe indistinguibile dal fascismo, anche se 27 milioni di sovietici hanno sacrificato la loro vita per sconfiggere l’aggressione nazista nella seconda guerra mondiale. Senza contare che, emarginando la lotta di classe in pro di una teoria critica di carattere idealistico ed avulsa dagli impegni politici pratici, hanno demolito le basi stesse del materialismo storico, curvandolo in direzione di una critica teorica generalizzata del dominio, del potere e del pensiero identitario. Pertanto, si può ragionevolmente sostenere che Adorno e Horkheimer hanno svolto il ruolo di succedanei radicali del dominio esistente, convogliando di fatto la stessa teoria critica all’interno di un’ideologia occidentalista e anticomunista.
Da quanto precede si deduce che la loro critica generalizzata del dominio rientra in un contesto più ampio, rappresentato da un’ideologia di stampo anarchico e individualista, che in ultima analisi disarma la sinistra di classe privandola degli strumenti di organizzazione necessari per condurre una lotta vittoriosa contro l’apparato politico, militare e culturale che protegge il blocco capitalistico. Naturalmente, del sincero impegno politico e culturale di Abate, così come di altri suoi sodali nella meritoria impresa della rivista Poliscritture, non si può dubitare. Tuttavia, la “critica critica” che impronta il loro orientamento metodologico e ideale non solo sfocia, a causa della mancanza di un ancoraggio di classe, nel nullismo, ma li rende pericolosamente contigui, nonostante la loro venerazione per la figura e l’opera di Franco Fortini, a quella politica di rinuncia, di cedimento e di conseguente subalternità che Adorno ha esplicitamente abbracciato attraverso la sua difesa antimarxista dell’inazione come forma più alta di prassi.
Certo, Adorno e Horkheimer analizzavano con grande finezza le varie forme di infelicità generate dalla “società dei consumi”, ma si rifiutavano di scendere sul terreno decisivo (e rischioso) della prassi rivoluzionaria per eliminare (o almeno ridurre al minimo) le fonti di tale infelicità, partendo dall’assunto di base, falso sul piano dei princìpi e di fatto unilaterale, che la cura socialista è molto peggiore della malattia stessa. Dal canto suo, Abate ritiene, bontà sua, che l’opportunismo, il revisionismo, il riformismo, il centrismo e l’eclettismo, che è quanto dire le varie negazioni del marxismo rivoluzionario, siano semplicemente uno strato di polvere depositatosi su un movimento storico, il comunismo, il quale per ragioni intrinseche e non per circostanze così superficiali sarebbe finito nel buio della storia. Ma allora è più onesto e più coerente rinunciare a doppiare il Capo di Buona Speranza, “non tentare quelle nuove acque”, e rientrare nei ranghi dell’accogliente liberalismo borghese progressista, dove c’è sempre “molto contro cui protestare, ma nulla per cui disperarsi”.
Comments
"si vede che Michele Castaldo non conosce il patto di sangue storico che lega i popoli montenegrino e serbo".
Al che replicari: "È probabile ch'io non conosca il patto di sangue e di fratellanza tra i due popoli montenegrino e serbo, ma che il direttore non conosca la forza della leggi del modo di produzione capitalistico, È CERTO".
Poi il Montenegro si separo' dalla, Serbia.
Il povero Lenin coi bolscevichi diedero la terra ai braccianti ex servi della gleba per sviluppare le Comunità agricole, ma i contadini-ex braccianti volevano arricchirsi. Dunque si scontravano un aspetto ideale e uno materiale.
Ceaucescu, sconosciuto ai più, di cui nessuno parla, fece costruire nel centro di Bucarest un immenso refettorio per - diceva lui insieme ai comunisti idealisti rumeni - sottrarre la donna dalla schiavitù domestica. E dopo la caduta del muro fu restituita la terra che era stata tolta per restituirla agli ex proprietari e loro famiglie.
Poi sappiamo come è finita.
Lenin sciolse l'esercito zarista per organizzare un esercito popolare sull'esempio - si diceva - della Comune di Parigi. Poi fu costretto a richiamare in servizio gli ex ufficiale dell'esercito sciolto per combattere contro le armate bianche occidentali. Fu traditore Lenin? O fu traditore quando fu costretto a sparare sui marinai a Kronstad che sposavano tutte le rivendicazioni dei contadini di cui gran parte di essi erano figli?
L'Urss stalinista si schiero' col liberismo occidentale e occidentalista pagando un contributo di sangue senza precedenti nella storia. Fu traditore Stalin? Non scherziamo, coi termini. La storia ha dinamiche PROPRIE che non obbediscono alla volontà degli uomini e quelle dinamiche sono mosse da leggi impersonali. È questo il nocciolo di granito da sgranocchiare e richiede denti sani e tanta, ma tanta, ma tanta buona volontà che ai difensori del libero arbitrio difetta
Michele Castaldo
Domando: URSS, Cina, Cuba, Vietnam, tutti i paesi dell'est europeo, in modo particolare la Romania (di un certo Ceaucescu mai citato, che fece costruire nel centro di Bucarest, la capitale, un enorme refettorio per sottrarre la donna dal dominio della famiglia e della servitù della casa, dai fornelli, insomma), oppure che i bolscevichi diedero la terra per bocche ai braccianti servi della gleba, pensando di sviluppare le comunità agricole mentre i contadini volevano arricchirsi.
Ecco, ho citato solo due fatti dove si mostra il rapporto tra l'ideale e il materiale, ovvero due strade che anziché fondersisi si separano fino a contrapporsi e la seconda - quella che obbedisce alle leggi oggettive dello scambio - sconfigge la prima.
Cosa fa separare la teoria dai fatti?
La gloriosa Albania - di cui noi a suo tempo andavamo fieri inneggiando al compagno Enver Oxa, poi cadde rovinosamente, per non parlare della ex Jugoslavia. Tutta colpa di revisionist e traditori?
Qui cito un esempio da "chiaroveggente" : dopo la disgregazione della Jugo erano rimaste Montenegro e Serbia a rappresentare una volontà ideale. In un incontro con un direttore - montenegrino - di una centrale elettrica a Obrenovaz feci una previsione dicendo: non passerà molto tempo e il Montenegro si separerà dalla Serbia.
Il direttore montenegrino obietto'
Parole sante!
Il mio scritto. a cui fa riferimento qui Eros Barone, si legge al seguente link:
https://www.poliscritture.it/2025/07/16/il-comunismo-nel-buio-6/