Marx e la società comunitaria
di John Bellamy Foster
In questo studio, John Bellamy Foster entra nel vivo degli scritti di Marx sulle società comunitarie, un aspetto spesso trascurato dell'opera marxiana, nonostante la sua importanza per il progetto socialista. Collegando gli studi di Marx all'antropologia, alla storia e all'etnologia, J.B. Foster fa luce sulla centralità del comunitarismo nella critica generale di Marx alle società di classe
«In definitiva, il comunismo è l'unica cosa importante del pensiero di [Karl] Marx», osservava nel 1983 il teorico politico ungherese R. N. Berki.[1] Anche se si trattava di un'esagerazione, è innegabile che l'ampia concezione di Marx della società comunitaria/comunismo costituisse la base della sua intera critica della società divisa in classi e della sua visione di un futuro sostenibile per l'umanità. Tuttavia, ci sono stati pochi tentativi di affrontare sistematicamente lo sviluppo di questo aspetto del pensiero di Marx, così come è emerso nel corso della sua vita, a causa della complessità del suo approccio alla questione della produzione comunitaria nella storia, e delle sfide filosofiche, antropologiche e politico-economiche che questo ha presentato fino ai nostri giorni. Tuttavia, l'approccio di Marx alla società comunitaria è di reale importanza non solo per comprendere complessivamente il suo pensiero, ma anche per aiutare l'umanità a superare la gabbia d'acciaio della società capitalista. Oltre a presentare un'antropologia filosofica del comunismo, Marx ha approfondito la storia e l'etnologia delle attuali formazioni sociali comunitarie. Ciò ha portato a indagini concrete sulla produzione e sullo scambio comunitari. Tutto ciò ha contribuito alla sua concezione del comunismo del futuro come società di produttori associati.[2]
Nel nostro tempo, la produzione e lo scambio comunitari e gli elementi di uno Stato comunitario sono stati sviluppati, con diversi gradi di successo, in un certo numero di società socialiste successive alle rivoluzioni, in particolare in Unione Sovietica, Cina, Cuba, Venezuela e altrove nel mondo. La comprensione di Marx della storia, della filosofia, dell'antropologia e dell'economia politica della società comunitaria/collettiva è quindi un'importante fonte di intuizione e di visione, non solo per quanto riguarda il passato, ma anche per il presente e il futuro.
L'ontologia sociale della produzione comunitaria
Marx fu, fin dalla prima età, un prodotto dell'Illuminismo radicale, influenzato in questo senso sia dal padre, Heinrich Marx, sia dal suo mentore e futuro suocero, Ludwig von Westphalen.
A ciò si aggiunse il suo profondo incontro con la filosofia idealista tedesca, esemplificata dall'opera di G. W. F. Hegel. Marx fu un profondo conoscitore dell'antichità greca, impegnandosi in intensi studi sia su Aristotele, che considerava il più grande dei filosofi greci, sia su Epicuro, il principale pensatore materialista del mondo ellenistico. Nel 1841 completò la sua tesi di dottorato sulla filosofia della natura di Epicuro, emergendo come materialista da subito coinvolto con l'idea di comunismo.[3]
Marx lesse Che cos'è la proprietà? di Pierre-Joseph Proudhon già nel 1842. Tuttavia, insieme ad altri pensatori radicali nella Germania negli anni Quaranta dell'Ottocento, si occupò per la prima volta delle discussioni sui movimenti comunisti contemporanei che emergevano in Francia, a seguito della diffusione di queste idee in Germania, che erano presenti in Der Sozialismus und Communismus des heutigen Frankreich (1842), del funzionario prussiano Lorenz von Stein, e in Socialism and Communism (1843), di Moses Hess, che prese la forma di un commento critico a von Stein. Hess fu cofondatore, nel gennaio del 1842, del giornale liberale Rheinische Zeitung, di cui Marx divenne caporedattore nell'ottobre dello stesso anno. Uno dei primi compiti di Marx come redattore fu quello di rispondere alle accuse che la Rheinische Zeitung fosse un giornale comunista, a causa della pubblicazione di due articoli sulle abitazioni e sulle forme di governo comuniste, e di un pezzo sui seguaci di Charles Fourier, tutti scritti da Hess. La risposta di Marx a nome della Rheinische Zeitung fu molto circospetta, non sostenendo né opponendosi al comunismo, ma chiarendo che «la Rheinische Zeitung... non può concedere alle idee comuniste, nella loro forma odierna, neppure attualità teoretica, e quindi ancor meno può desiderare o anche solo ritener possibile la loro pratica realizzazione». Marx cita qui per la prima volta Fourier, insieme a Victor Prosper Considérant e Proudhon, facendo anche riferimento all'idea di comunismo in La repubblica di Platone.[4]
Per la maggior parte dei pensatori dell'epoca, la questione del comunismo era una semplice opposizione alla proprietà privata ed era trattata in modo puramente filosofico e, in gran parte, da un punto di vista idealista. Hess vedeva la società come originata da un patto sociale tra individui, distinto sia dalla nozione epicurea di istituzione di un contratto sociale originario tra gruppi di parentela - sconfitto e poi risorto in forme più limitate, mediate dalle classi, in seguito a rivolte sociali e alla morte dei re - sia dal concetto aristotelico dell'uomo come animale politico/sociale.[5] La visione individualistica della proprietà, da parte del primo socialismo francese e tedesco, rifletteva l'influenza di Proudhon che, seguendo Jean-Jacques Rousseau, non riusciva a distinguere tra proprietà privata e proprietà in generale, vedendo la proprietà semplicemente come un «furto»[6] Proudhon non riusciva quindi a comprendere la nozione di proprietà come principio attivo dell'appropriazione della natura. La sua analisi negava implicitamente l'universalità della proprietà nella società umana e, più specificamente, l'esistenza della proprietà comune, come sostenuto da Hegel e Marx. Tuttavia, per Hegel, la proprietà, anche se nasce universalmente nell'appropriazione della natura, esisteva come diritto astratto solo come proprietà privata. Il diritto astratto portava quindi alla dissoluzione della proprietà comune.[7]
In contrasto con questi punti di vista borghesi dominanti che erano penetrati nel pensiero socialista, la prospettiva di Marx era sia storica che materialista. Gli esseri umani sono stati fin dall'inizio animali sociali. La produzione, basata sull'appropriazione della natura per gli scopi umani, era originariamente comunitaria - e tenuta in comune. Il dominio completo della proprietà privata come appropriazione/produzione alienata, è sorto solo con il capitalismo, preceduto da «migliaia di secoli» di storia umana.[8] Marx ha attinto fin dall'inizio alla sua vasta conoscenza della filosofia e della storia greca e romana e alle tracce della prima storia germanica rivelate da Cesare in La guerra gallica, e da Tacito nel suo La Germania, che Marx ha tradotto nel 1837.[9] Nel corso della sua vita, Marx continuò a esplorare qualsiasi prova storica e antropologica si rendesse disponibile riguardo alla produzione comunitaria, allo scambio e alla proprietà, considerando anche la logica interna della produzione comunitaria attraverso le concezioni filosofiche ed economiche. Come studente dell'antichità classica, molto probabilmente era a conoscenza degli antichi resoconti di Nearco, ammiraglio di Alessandro Magno, sulle comunità domestiche indiane e sulla coltivazione comune dei terreni, raccontati da Strabone.[10]
Residui dell'antica 'marca germanica' - sistema di proprietà comune e produzione collettiva della terra - sopravvissero durante la vita di Marx nella regione intorno a Treviri, dove egli crebbe. Suo padre, avvocato, aveva discusso con lui le ramificazioni di questi diritti di proprietà collettiva durante la sua giovinezza.[11] I segni del diritto consuetudinario, che derivava dai commons [beni comuni] dell'epoca feudale, erano evidenti in tutta la Germania del primo Ottocento. Nello stesso mese in cui affrontava la questione del comunismo nella Rheinische Zeitung, Marx scriveva il suo primo articolo di economia politica: “Dibattiti sulla legge contro i furti di legna”, in cui difendeva strenuamente i diritti consuetudinari dei contadini renani, che si erano protratti fino all'epoca moderna, relativi al prelievo di legna morta (insieme a foglie e bacche morte) dalle foreste, un atto che allora veniva criminalizzato. In questo contesto, [Marx] aveva analizzato come tali diritti consuetudinari venivano sistematicamente espropriati dai proprietari terrieri in combutta con lo Stato. «Ci meraviglia soltanto», scriveva, «che al proprietario forestale non sia anche concesso di accendere le proprie stufe con i ladri di legna».[12]
La critica di Marx alla proprietà privata - negli anni Quaranta e Cinquanta del XIX secolo - si basava su una concezione ontologica degli esseri umani che esaltava le relazioni sociali e comunitarie derivanti dall'appropriazione della natura. In Europa - prima della metà del XIX secolo - la maggior parte della conoscenza concreta della storia dell'antichità dipendeva dalle antiche fonti greche e romane. Come scriveva Eric Hobsbawm nell'introduzione a Forme economiche precapitalistiche di Marx (una parte dei Grundrisse, scritte nel 1857-1858), «né un'educazione classica [europea] né il materiale allora disponibile rendevano possibile una seria conoscenza dell'Egitto e dell'antico Medio Oriente».[13] Questo, in varia misura, valeva anche per l'India, Ceylon e Giava, anche se in quel caso Marx poteva contare sui discutibili resoconti degli amministratori coloniali britannici e olandesi. La breve trattazione dei rapporti di proprietà comunitaria peruviana sotto gli Incas, contenuta in La conquista del Perù di William Prescott (1847), occupava un posto importante nell'analisi marxiana presente nei Grundrisse e nel Capitale. Dal XV secolo fino alla metà del XVI, la tribù predominante nella composizione sociale incaica negli attuali Perù, Ecuador e Bolivia, era «suddivisa in 100 clan comunitari (ayllu), che progressivamente si svilupparono in comuni di villaggio».[14]
Prima della «rivoluzione del tempo etnologico» che a partire dal 1859 ha dato origine agli studi antropologici moderni, la conoscenza storica e antropologica relativa alla produzione comunitaria nelle società arcaiche fondate sulla parentela e sul tributo, disponibile a Marx, era limitata.[15] Nei suoi primi anni [di studio], la conoscenza storica e antropologica della produzione comunitaria era fortemente influenzata dalle società classiste dell'antica Grecia e di Roma, in cui rimanevano tracce delle forme precedenti di produzione comunitaria. Tuttavia, Marx si è affidato alla sua profonda comprensione ontologica del lavoro e della produzione nella società, che gli ha permesso di sviluppare un’analisi penetrante la quale, almeno nelle sue linee generali, rimane ancora oggi rilevante.
Alla base dell’intera analisi marxiana vi era la sua ontologia materialista del lavoro umano e della produzione, introdotta per la prima volta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, e posta successivamente a fondamento della concezione materialista della storia in L’ideologia tedesca del 1845–1846, scritta insieme a Friedrich Engels. Nell’ontologia sociale marxiana, il lavoro e la produzione rappresentavano processi sociali a cui gli individui partecipavano in quanto esseri sociali. La storia umana poteva essere compresa attraverso le trasformazioni dei «modi di appropriazione».[16] Tutta la cultura umana era radicata nella realtà del lavoro umano e nell’appropriazione della natura, e quindi nella formazione dei rapporti di proprietà all’interno delle comunità, che originariamente erano comunità di parentela. La prima forma di proprietà descritta in L’ideologia tedesca era la proprietà tribale, associata alla caccia, alla raccolta, e alle forme più arcaiche di agricoltura. Queste ultime erano caratterizzate dall'«unità originaria tra una particolare forma di comunità (organizzazione tribale) e la connessa forma di proprietà della natura». Qui la divisione del lavoro rimaneva poco sviluppata. La società era patriarcale, e le prime forme di divisione del lavoro erano associate allo sviluppo della «schiavitù, latente nella famiglia». In questa prima descrizione della società tribale da parte di Marx, non è ancora menzionata direttamente la produzione o la proprietà comunitaria.[17]
È importante notare che L’ideologia tedesca non contiene alcun riferimento al «comunismo primitivo [originario]», un termine che né Marx né Engels hanno mai usato, se non in riferimento al «sistema comunitario asiatico», alla forma slava di possesso fondiario, e, con maggior dubbio, ai precursori della marca germanica. Non applicarono mai tale termine alle società di cacciatori-raccoglitori. Queste ultime, pur basandosi su una forma organizzativa di tipo comunitario, non erano considerate veri e propri modi di produzione, bensì società di parentela-clanica. L’uso dell’espressione “comunismo primitivo” per descrivere specificamente le società di cacciatori-raccoglitori fu adottato successivamente, introdotta nella Seconda e Terza Internazionale.[18]
La seconda forma storica di proprietà descritta in L’ideologia tedesca è quella della «proprietà della comunità antica», sorta «dall’unione di più tribù in una città, mediante patto o per conquista, e in cui continua a esistere la schiavitù».[19] La «proprietà privata della terra» nell’antichità, come Marx spiegò in seguito nei suoi Quaderni etnologici, nacque «in parte dallo svincolarsi dei diritti individuali dei gruppi di parentela o dei membri della tribù dai diritti collettivi della famiglia e della tribù... in parte dalla crescita e dalla trasformazione della sovranità del capo». La proprietà privata della terra fu dunque inizialmente mediata dalla proprietà fondiaria comunitaria (ager publicus), e tuttavia finì col favorire l’introduzione di rapporti di classe che indebolirono l’ordine collettivo.[20]
Il concetto di di “antica comune città-stato" [ancient commune and state] alla base delle relazioni sociali dell’antichità, era associata alla polis come società governata in modo comunitario e derivante da precedenti relazioni tribali. Come ha scritto Patricia Springborg in Marx, Democracy, and the Ancient Polis, la polis era «una comune urbana in cui la proprietà privata coesisteva con quella comunitaria». Nella concezione marxiana, secondo Springborg, la polis «teneva in sospensione le forme tribali e comunitarie mentre inaugurava lo Stato come fenomeno».[21] L’economia e, inversamente, lo Stato — come sostenevano Hegel, Marx e successivamente Karl Polanyi — non erano ancora sradicati dalla polis. Di conseguenza, non esisteva ancora un’alienazione dello stato dalla società civile in senso moderno, il che permetteva la persistenza di forme comunitarie insieme alla divisione in classi.[22]
Per Marx, la schiavitù, pur costituendo in molti modi il fondamento materiale della polis greca dell’età dell’oro, era subordinata all’ordine comunitario che governava i rapporti di proprietà e che derivava da precedenti relazioni di parentela. La crescita della proprietà e del denaro mobile, in particolare del lavoro di conio (cominciato in Lidia nel VII secolo a.C.), intensificò le divisioni di classe. Tale sviluppo fu cruciale per spiegare le origini e l’espansione della schiavitù servile antica, contribuendo al tempo stesso allo scioglimento finale dell’ordine comunitario greco e romano.[23]
Infatti, sebbene Marx abbia sottolineato con forza il ruolo della schiavitù nell’antichità, non ha mai descritto la società antica come un vero e proprio «modo di produzione schiavistico», come divenne poi comune nella teoria marxista. Così, in Passaggi dall'antichità al feudalesimo di Perry Anderson, si afferma che l’«innovazione decisiva» del mondo greco-romano fu la «schiavitù servile su vasta scala», o il «modo di produzione schiavistico».[24] Al contrario, Marx vedeva la produzione schiavistica come un attributo secondario rispetto alla forma comunitaria e statale, legata allo sviluppo del denaro e del commercio. Le radici della polis, sin dai tempi primordiali, affondavano nelle relazioni tribali o parentali, come nel caso della fratria greca, da cui si svilupparono, con la crescita della proprietà privata, le divisioni di classe tra aristocrazia e demos (nel caso di Atene). La schiavitù, secondo Marx, era una sorta di sovrapposizione. Tuttavia, ciò non gli impedì di osservare nei Grundrisse - pensando all’età dell’oro di Atene sotto Pericle e di Roma sotto Augusto - che economicamente, «alla base del mondo antico c’è il lavoro forzato diretto; la comunità poggia su di esso come fondamento».[25]
Le critiche persistenti all’accumulazione illimitata di ricchezza, che svolsero un ruolo prominente nella filosofia greca da Aristotele a Epicuro, furono interpretate da Marx (e da studiosi classici fino ai nostri giorni) come l'esito di mutamenti nella società, riconducibili principalmente ai primi segnali di un’economia monetaria, specialmente in alcuni interstizi e tra le nazioni commerciali, che aprivano la strada alla ricerca sistematica della ricchezza fine a stessa, destabilizzando i rapporti sociali precedenti.[26] Come scrisse Marx: «Tutte le passate forme di società sono perite in seguito allo sviluppo della ricchezza – o che è la stessa cosa, delle forze produttive sociali. Perciò presso gli antichi, che avevano questa consapevolezza, la ricchezza viene denunciata direttamente come fattore di dissoluzione della comunità».[27]
L’economia politica della società comunitaria
«Tutti i gli sviluppi dell’economia politica», scrivevano Marx ed Engels, «hanno come presupposto la proprietà privata»[28] In opposizione a ciò, e in linea con Hegel, Marx insisteva sul fatto che «ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell’individuo all'interno e per mezzo di una determinata forma sociale. In questo senso è una tautologia affermare che la proprietà (l’appropriarsi) è una condizione della produzione», mentre identificare la produzione con la proprietà privata significa negare la maggior parte della storia umana. La produzione e la proprietà comunitaria costituivano l’«economia naturale» della società, prevalente nei livelli più bassi di sviluppo delle forze produttive. La proprietà privata emerse con la società di classe e la divisione del lavoro, diventando la forma dominante solo nei rapporti capitalistici di produzione.[29]
«Proprietà», scriveva Marx nei Grundrisse, «significa dunque originariamente - nella sua forma asiatica, slava, antica, germanica – il rapporto del soggetto che lavora (che produce o si riproduce) con le condizioni della sua produzione o riproduzione come condizioni sue». Con la forma “asiatica” egli intendeva principalmente le comunità di villaggio in India e a Giava; con la forma “slava”, il mir russo, o comune contadina, ancora presente nel XIX secolo; con la forma “classica antica”, i rapporti comunitari ancora evidenti nella polis greca; con la forma germanica, l’antica tradizione della marca, in cui la comunità trovava un riflesso nelle tribù germaniche che si «riunivano» periodicamente su base collettiva, pur non «vivendo insieme» stabilmente.[30] Marx faceva riferimento anche alla proprietà comunitaria presso i Celti. Tacito scriveva in La Germania a proposito delle tribù germaniche: «I campi, a seconda del numero dei coltivatori, sono occupati a turno dal loro complesso, essi vengono divisi secondo il ceto di ognuno, la grande estensione dei territori facilita la spartizione».[31] Era noto che in molte società comunitarie «non c’è una proprietà del singolo separato dalla comunità, il quale piuttosto ne è soltanto il possessore», secondo i principi dell’usufrutto comunitario. Una parte del lavoro eccedente va, senza eccezioni, alla “comunità superiore” per la sua riproduzione.[32] In tali situazioni, «presupposto dell’appropriazione della terra rimane qui l’esser membro della comunità, ma in quanto membro della comunità il singolo è proprietario privato» di un «particolare terreno».[33]
Sia nei Grundrisse che nel Capitale, Marx si concentrò sui rapporti comunitari peruviani sotto gli Inca. Basandosi sull’opera di Prescott, Marx osservava che nella società incaica l’individuo «non aveva il potere di trasferire né di aumentare i suoi possedimenti» per quanto riguarda la terra, che era detenuta comunitariamente e ridistribuita ogni anno. Nel Capitale, egli si riferiva al Perù sotto gli Inca come a un’«economia naturale» o economia non mercantile, e al «più artificialmente sviluppato comunismo dei peruviani». Ciò che affascinava Marx del Perù era che quest’ultimo rappresentava una «società in cui le forme più elevate dell’economia, ad esempio la cooperazione, la divisione sviluppata del lavoro, ecc», erano presenti «anche in assenza di qualsiasi forma di denaro» e in presenza di una «comunità del lavoro». In altre formazioni sociali, come le comunità slave, Marx sottolineava che, sebbene lo scambio monetario esistesse nelle relazioni esterne, esso non era «l’elemento costitutivo originario all’interno della comunità». Persino nell’Impero Romano nel suo massimo sviluppo, il «sistema monetario» dominava solo all’interno dell’esercito.[34]
Marx considerava il “sistema comunitario asiatico” rappresentato dalle comunità di villaggio che ancora esistevano come uno dei principali esempi di quella “unità originaria” tralavoratori e condizioni naturali della produzione. Egli insisteva sul fatto che «un intero insieme di modelli differenti (sebbene talvolta ne sopravvivano solo dei resti) [della ‘proprietà comunitaria primitiva’] rimaneva in vita in India», dove il «lavoro comunitario» poteva essere osservato «nella sua forma evoluta spontaneamente». In effetti, «uno studio più particolare di proprietà comune asiatiche, specialmente indiane, dimostrerebbe come dalle differenti forme della proprietà comune spontanea risultano differenti forme del suo dissolvimento. Così, per esempio, i differenti tipi originali della proprietà privata romana e germanica si possono derivare da differenti forme di proprietà comune indiana». La forma asiatica di proprietà nelle comunità di villaggio rappresentava una forma (teoricamente) anteriore rispetto al modo greco e romano antico.[35] Nella sua analisi delle forme economiche precapitalistiche, come osservava Hobsbawm, «le forme orientali [asiatiche] (e slave) sono storicamente le più vicine alle origini dell’umanità, poiché conservano la comunità primitiva (di villaggio) funzionante all’interno di una sovrastruttura sociale più elaborata, e presentano un sistema di classi insufficientemente sviluppato».[36]
Si afferma spesso che Marx ed Engels abbiano dato grande enfasi all’idea di un “modo di produzione asiatico”, che viene solitamente descritto, basandosi più su Karl Wittfogel che su Marx, come una società in cui il bisogno di grandi progetti di irrigazione, e quindi di un vasto lavoro collettivo, portò allo sviluppo di uno stato centralizzato e dispotico, o a un’ipertrofia dello stato. Tuttavia, vi sono poche basi per questa interpretazione in Marx. Sebbene Marx abbia impiegato il concetto di "modo di produzione asiatico" nella prefazione del suo Per la critica dell’economia politica del 1859, lo usò di rado e finì per abbandonarlo del tutto. Inoltre, pur facendo talvolta riferimento a uno stato dispotico che gestiva grandi opere irrigue, la sua analisi era generalmente rivolta alle comunità di villaggio stesse, che egli vedeva come collettivi autosufficienti dotati di proprietà, produzione e scambio comunitari, sia in agricoltura che nella piccola manifattura (produzione artigianale)[37] Queste comunità di villaggio indiane, che Marx identificava esplicitamente con il “comunismo primitivo”, dimostravano una permanenza storica risalente a prima della "antica comune città-stato” della Grecia e di Roma. Inoltre, a differenza dell’antichità greco-romana, la schiavitù non costituiva il fondamento economico della società asiatica.[38] Sebbene tali società assumessero spesso una forma tributaria dispotica, ciò non negava, per Marx, il carattere comunitario della proprietà e della produzione all’interno delle comunità di villaggio stesse. Tuttavia, il dispotismo dall’alto, insieme alla colonizzazione, portava spesso queste comunità a una condizione di stagnazione, limitata alla semplice riproduzione.[39]
La natura economica della produzione e dello scambio comunitari, come indicato Marx nei Grundrisse, risiedeva nella sua attenzione ai bisogni umani collettivi e allo sviluppo dell'individuo sociale. «Il carattere comune della produzione farebbe fin dal principio del prodotto un prodotto comune, generale», non mediato dallo scambio di merci. «Lo scambio che originariamente ha luogo nella produzione... non sarebbe scambio di valori di scambio, ma di attività» e di valori d'uso. Tale produzione/scambio comunitario sarebbe «determinato dai bisogni e dagli scopi comunitari [e] includerebbe fin dall'inizio la partecipazione dell'individuo al mondo comunitario dei prodotti». Per sua stessa natura, la produzione comunitaria non è determinata post festum dal mercato, che permette al capitale di mediare tutti i rapporti di produzione, ma piuttosto ex ante su principi comunitari attraverso i quali il carattere sociale della produzione è presupposto fin dall'inizio.[40] In questo senso, la produzione basata sulla proprietà comunitaria, in un contesto moderno, sosteneva, dovrebbe essere realizzata «in conformità con un piano sociale definito», che «mantiene la giusta proporzione fra le diverse funzioni del lavoro e i diversi bisogni» dei lavoratori.[41]
Nella società capitalista, secondo Marx, «il tempo è tutto, l'uomo non è più niente; è tutt'al più la carcassa del tempo. Non vi è più questione di qualità. La quantità sola decide di tutto».[42] Al contrario, quando si tratta di produzione comunitaria, il tempo di lavoro come pura quantità è fondamentale ma non ha l'ultima parola:
Presupposta la produzione comune, rimane naturalmente essenziale la determinazione del tempo. Meno è il tempo che occorre alla società per produrre grano, bestiame, ecc. e tanto più tempo essa guadagna per altra produzione, materiale o spirituale. Come per il singolo individuo, anche per la società l’universalità del suo sviluppo, del suo godimento e della sua attività dipende dal risparmio di tempo. Economia di tempo, in questo si risolve in ultima istanza ogni economia. La società deve ripartire razionalmente il suo tempo per pervenire a una produzione adeguata ai suoi bisogni complessivi, proprio come il singolo deve ripartire giustamente il suo tempo per acquisire le cognizioni necessarie e per far fronte alle diverse esigenze della sua attività. Economia di tempo e ripartizione pianificata del tempo di lavoro nei differenti rami di produzione, rimane quindi la suprema legge economica sulla base della produzione comune. E’ anzi una legge che vale in grado molto più elevato. Ciò è però essenzialmente diverso dalla misurazione dei valori di scambio (lavori o prodotti del lavoro) mediante il tempo di lavoro. I lavori dei singoli nel medesimo ramo di lavoro, e i differenti generi di lavoro, differiscono non solo nel piano quantitativo, ma anche su quello qualitativo.[43]
È vero, scriveva Marx a Engels nel 1868, che «nessuna forma sociale può impedire che in UN MODO O NELL’ALTRO sia il tempo di lavoro disponibile della società a regolare la produzione. Ma finché questa regolazione non si attua mediante il controllo diretto, consapevole, del tempo di lavoro da parte della società – il che è possibile solo con la proprietà comune – bensì mediante il movimento dei prezzi delle merci», il risultato è l'anarchia della società capitalistica di classe e l'incapacità di soddisfare la «gerarchia … dei bisogni». Nell'economia mercantile generalizzata del capitalismo, i bisogni umani e sociali più urgenti - compreso il libero sviluppo dell'individuo - invece di costituire gli obiettivi principali della produzione, diventano ostacoli all’accomulazione.[44]
Il potere produttivo emergente del lavoro come cooperazione attraverso la quale i lavoratori diventano membri di un «organismo lavorativo» esisteva già prima del capitalismo. Come scrisse Marx nel Capitale, la «semplice cooperazione», che realizzò «strutture gigantesche», era evidente nelle opere colossali degli «antichi asiatici, egizi, etruschi» e, come egli aveva osservato altrove, in quelle degli Incas del Perù. Le prime civiltà asiatiche «si trovarono in possesso di un’eccedenza di mezzi di sussistenza che potevano spendere per opere di magnificenza e di utilità. Questi Stati avevano il comando delle mani e delle braccia di quasi tutta la popolazione non agricola e ciò offriva loro i mezzi per erigere quegli imponenti monumenti dei quali riempirono il paese»[45] Queste società non mercantili così diverse furono in grado di estrarre il surplus come tributo da una popolazione prevalentemente agricola. Ciò era conforme al modello delle economie naturali, o a quello che oggi viene comunemente chiamato modo di produzione tributario, che comprendeva numerose civiltà precapitalistiche dall'antichità al feudalesimo, la maggior parte delle quali manteneva relazioni comunitarie o collettivistiche alla base della società.[46] Come osservò Samir Amin, «il modo tributario» emerse dai precedenti «modi di produzione comunitari». Esso «aggiunge a una comunità villaggio ancora esistente un apparato sociale e politico per lo sfruttamento di questa comunità attraverso l'esazione del tributo». Sebbene variasse notevolmente a seconda dei tempi e dei luoghi, costituiva «la forma più diffusa delle società precapitalistiche».[47]
Dai comuni medievali alla Comune di Parigi del 1871
Fino all'inizio dell'età moderna, i villaggi contadini in Europa facevano affidamento sui diritti consuetudinari relativi alla terra, spesso accompagnati da una produzione di beni di consumo di modesta entità. Pertanto, la transizione dal feudalesimo al capitalismo in Europa, come in Inghilterra a partire dal XV secolo, dipese dallo scioglimento dei diritti consuetudinari e dall'enclosure* dei beni comuni, generando così un proletariato moderno, un processo che richiese secoli. I beni comuni o la proprietà comune, anche se presenti all'interno del feudalesimo e di altre forme di produzione tributaria, erano associati ai diritti collettivi di appropriazione, pur essendo orientati ai valori d'uso e alle forme di scambio non mercantili. Mentre la proprietà privata in un'economia merce generalizzata è alienabile, la proprietà comune della terra non lo è, ed è radicata nei diritti consuetudinari di una particolare comunità o località. Come osserva lo storico Peter Linebaugh, «i diritti comuni sono radicati in una particolare ecologia con la sua agricoltura locale».[48] Nella società medievale, le comunità contadine avevano diritti consuetudinari di appropriazione della terra/natura che ponevano limiti ai corrispondenti diritti dei signori feudali sulla terra.
Si pensa spesso che i beni comuni medievali dell'Inghilterra fossero basati semplicemente sui beni comuni propriamente detti (boschi, paludi e prati incolti utilizzati per il pascolo e per i materiali e le risorse naturali), ma i beni comuni in questo senso stretto non potevano essere separati dai campi comuni stessi, che circondavano direttamente le città e i villaggi, che erano normalmente coltivati attraverso l'aratura collettiva, con strisce di terra distribuite in modo tale da garantire l'uguaglianza dei villaggi nell'accesso alla terra più fertile.[49] Marx ha scritto ampiamente nel Capitale e altrove sull'enclosure dei beni comuni come elemento cruciale per lo sviluppo del capitalismo e sui mezzi brutali utilizzati nella loro espropriazione forzata, commentando «la stoica serenità d’animo con cui l’economista politico tratta la più sfacciata profanazione del “sacro diritto di proprietà” e gli atti di violenza più brutali contro le persone non appena si rendano necessari a creare il fondamento del modo di produzione capitalistico»[50]
Il concetto di società comunitaria è sempre stato legato alla questione della struttura di comando politico della società e alla proprietà/produzione, sollevando la questione della governance comunitaria. Nel tardo Medioevo, in particolare nell'Italia settentrionale e nelle Fiandre, sorsero comuni urbani o città autonome basate su giuramenti vincolanti tra cittadini uguali (di solito ricchi) in sfida alle nozioni feudali di rango e vassallaggio. Le comunità urbane medievali erano costruite attorno alle corporazioni e assumevano quindi la forma di oligarchie mercantili basate sulle corporazioni, costituendo il luogo di nascita della borghesia. L'era feudale generò anche concezioni utopistiche delle comunità urbane, derivanti da una borghesia nascente.[51] Il governo della città di Parigi, dopo la presa della Bastiglia nel 1789, era noto come Comune di Parigi. Fu da questa prima Comune di Parigi, emersa da una rivoluzione borghese, che la Comune rivoluzionaria dei lavoratori del 1871 prese il nome.[52] Lontana dalle precedenti comunità medievali e persino dalla Comune di Parigi del 1789, la breve Comune di Parigi del 1871, emersa durante la guerra franco-prussiana, rappresentava, secondo Marx, non la costruzione di un nuovo potere statale, ma la negazione del potere statale e quindi del rapporto alienato tra Stato e società civile. Costituì un autentico ordine comunale urbano rivoluzionario della classe operaia del XIX secolo, che terminò dopo settantadue giorni con il massacro dei comunardi da parte dello Stato francese.
Per Marx, la Comune di Parigi indicava una nuova struttura di comando politico comunale che, rompendo con lo Stato capitalista come potere al di sopra della società, svolgeva comunque funzioni analoghe ad esso, ancora influenzata dall'ordine borghese da cui era emersa. Fu introdotto il suffragio universale maschile. I funzionari eletti dovevano essere retribuiti con salari paragonabili a quelli dei lavoratori in generale, con la possibilità di revoca immediata di coloro che non avessero rispettato i mandati dei loro elettori. La Comune abolì la pena di morte, il lavoro minorile e la coscrizione obbligatoria, eliminando al contempo i debiti. I lavoratori furono organizzati in società cooperative per gestire le fabbriche, con l'intenzione di organizzare le cooperative in un unico grande sindacato. Fu creato un sindacato femminile, nonché un sistema di istruzione laica universale.[53] Come scriveva Marx in La guerra civile in Francia (1871):
La Comune voleva abolire quella proprietà di classe che fa del lavoro di molti la ricchezza di pochi. Essa voleva l'espropriazione degli espropriatori. Voleva fare della proprietà individuale una realtà, trasformando i mezzi di produzione, la terra e il capitale, che ora sono essenzialmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di lavoro libero e associato. Ma questo è comunismo, "impossibile" comunismo! …. Ma se la produzione cooperativa non deve restare una finzione e un inganno, se essa deve subentrare al sistema capitalista; se delle associazioni cooperative unite devono regolare la produzione nazionale secondo un piano comune, prendendola così sotto il loro controllo e ponendo fine all'anarchia costante e alle convulsioni periodiche che sono la sorte inevitabile della produzione capitalistica; che cosa sarebbe questo o signori, se non comunismo, "possibile" comunismo? … Eppure, questa fu la prima rivoluzione in cui la classe operaia sia stata apertamente riconosciuta come la sola classe capace di iniziativa sociale… La grande misura sociale della Comune fu la sua stessa esistenza operante. Le misure particolari da essa approvate potevano soltanto presagire la tendenza a un governo del popolo per opera del popolo... Altra misura di questo genere fu quella di consegnare alle associazioni operaie, sotto riserva d'indennizzo, tutte le fabbriche e i laboratori chiusi, tanto se i rispettivi capitalisti s'erano nascosti, quanto se avevano preferito sospendere il lavoro.[54]
Per Marx, la Comune di Parigi, con tutte le sue debolezze, aveva dimostrato che in una repubblica operaia, insieme all'abolizione della società civile borghese, non era più necessario un potere statale al di sopra della società civile. La Comune di Parigi era una comune urbana che prefigurava una repubblica operaia, basata sulla produzione collettiva secondo un piano comune e una governance sociale democratica, costituendo così una fase iniziale nella transizione verso una completa società comunista. «La Costituzione della Comune avrebbe invece restituito al corpo sociale tutte le energie sino allora assorbite dallo stato parassita, che si nutre alle spalle della società e ne intralcia i liberi movimenti».[55]
Questa visione d'insieme della formazione della società comunitaria, temperata dall'esperienza della Comune di Parigi, si rifletteva nella Critica al programma di Gotha di Marx, scritta nel 1875. Per Marx, la Comune di Parigi del 1871 rappresentava la forma finalmente scoperta della «dittatura rivoluzionaria del proletariato», destinata, secondo lui, a rovesciare la dittatura di classe del capitale, costituendo un nuovo ordine più democratico nella transizione al socialismo/comunismo. Nel comunismo pienamente sviluppato, come immaginato da Marx ed Engels, non ci sarebbe stato alcun Leviatano del potere statale al di sopra della società. Lo Stato si sarebbe gradualmente “estinto” man mano che la struttura del comando politico fosse stata trasferita alla popolazione, sostituita da quella che Engels chiamava semplicemente comunità/comune.[56] Né ci sarebbe stata una società civile in senso borghese. L'economia sarebbe stata gestita secondo un piano comune in cui le decisioni sarebbero state prese principalmente ex ante dai produttori associati, non post festum dal mercato. Il lavoro creativo sarebbe stato «la prima necessità della vita», in modo tale che «il libero sviluppo di ciascuno» sarebbe diventato la base del «libero sviluppo di tutti». La struttura complessiva dell'economia sarebbe stata quella di una «società collettivista fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione» e governata dal principio ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni. «Nella società collettivista, fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti... poiché ora, in contrapposto alla società capitalista, i lavori individuali non esistono più come parti costitutive del lavoro complessivo attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto». In una società di questo tipo, «ciò che è destinato alla soddisfazione collettiva di bisogni, come scuole, istituzioni sanitarie, ecc.» sarebbe enormemente aumentato in proporzione, così come il settore dello sviluppo culturale in generale. Le «fonti dell’esistenza», cioè la terra/natura, diventerebbero proprietà comune a beneficio di tutti.[57]
Nel delimitare il carattere generale della produzione, Marx scrisse nel Capitale: «La libertà in questo campo [determinata dalla necessità naturale] può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura ... con il minor impiego possibile di energia», nel processo di promozione di uno sviluppo umano sostenibile.[58] Il metabolismo sociale alienato tra l'umanità e la natura sarebbe stato superato. Come Marx aveva indicato all'inizio dei suoi Manoscritti economico-filosofici, «Questo comunismo è, in quanto compiuto naturalismo, umanismo, e in quanto compiuto umanismo, naturalismo. Esso è la verace soluzione del contrasto dell'uomo con la natura».[59]
La rivoluzione del tempo etnologico
Il 1859 vide la pubblicazione di L'origine delle specie di Charles Darwin, che forniva per la prima volta una solida teoria dell'evoluzione naturale, e una «rivoluzione del tempo etnologico», conseguente alla scoperta di resti umani preistorici nella grotta di Brixham, nell'Inghilterra sud-occidentale. La scoperta della grotta di Brixham aumentò di migliaia di secoli il periodo di tempo in cui si ritiene che gli esseri umani abbiano vissuto sulla Terra. Resti umani, talvolta accompagnati da strumenti primitivi, erano già stati trovati in precedenza, tra cui, nel 1856, i primi resti di Neanderthal, nella Valle omonima in Germania. Sebbene meno spettacolari della scoperta di Neanderthal, i resti della grotta di Brixham non lasciarono dubbi sulla «grande antichità dell'umanità».[60]
Il risultato fu una grande corsa alla ricerca delle origini evolutive e antropologiche degli esseri umani, della natura delle prime società e delle origini della famiglia, dello Stato e della proprietà privata, [presente] in opere come il posto dell'uomo nella natura (1863) di Thomas Huxley; Geological Evidences of the Antiquity of Man di Charles Lyell (1863); I tempi preistorici e l'origine dell'incivilimento di John Lubbock (1864); Village-Communities in the East and West di Henry Sumner Maine (1871); La società antica di Lewis Henry Morgan (1877) e The Aryan Village in India and Ceylon di John Budd Phear (1880). In Germania, Georg Ludwig von Maurer proseguì le ricerche iniziate nel 1854 con la sua grande opera sulla marca germanica, Introduction to the History of the Mark, Village, and Town Constitutions and Public Power.
Nel 1880-1882, Marx compose una serie di estratti dalle opere di Morgan, Phear, Maine e Lubbock, noti come Quaderni etno-antropologici. Un anno prima aveva preso ampi appunti dagli studi etnologici del giovane sociologo russo Maxim Kovalevsky, il cui manoscritto, Communal Landownership: The Causes, Course and Consequences of Its Dissolution, trattava delle relazioni comunitarie in India, Algeria e America Latina.[61] Nel 1880-1881 annotò alcuni passaggi da Java; or How to Manage a Colony (1861) di William B. Money.
L’origine dell'interesse di Marx per gli studi etnologici alla fine della sua vita è ben evidenziata nella sua risposta al lavoro di Maurer sulla marca germanica, in cui Maurer aveva dimostrato in modo definitivo che la marca aveva una base comunitaria più forte di quanto si pensasse in precedenza. Scrivendo a Engels nel 1868, Marx indicò che le indagini etnologiche di Maurer e di altri rivelavano che era cruciale «gettare lo sguardo, al di là del medioevo, sul primo evo di ogni popolo – e questo corrisponde alla tendenza socialista, benché quegli eruditi non abbiano idea di esservi legati». Tuttavia, osservava Marx, Maurer e altri ricercatori etnologici simili, come il filologo e storico della cultura Jakob Grimm, non mostrarono una reale comprensione di questa tendenza: «E allora sono sorpresi di trovare nelle cose più antiche le cose più recenti». Le forme comunitarie sopravvissute, residui di comunità più egualitarie del passato, indicavano in modo dialettico lo sviluppo futuro della società comunista.[62]
Grazie ai suoi precedenti studi sulla proprietà comune e sulla governance comunitaria delle società, Marx fu in grado di incorporare queste nuove scoperte, in tutta la loro ricchezza, senza alterare fondamentalmente il suo approccio, sviluppato nel corso della sua vita. Nei suoi Quaderni etno-antropologici, l'attenzione è spesso rivolta alle relazioni comunitarie. Ventisette passaggi di La società antica di Morgan, che trattano della proprietà comune, delle abitazioni e dei regimi fondiari sono evidenziati da Marx con linee parallele tracciate a margine o con brevi commenti.[63] Tuttavia, rispetto ai precedenti lavori di Marx, qui viene data molta più importanza alle relazioni di parentela e di genere, in quanto hanno plasmato queste comunità. Egli fu particolarmente colpito dagli studi di Morgan sugli Haudenosaunee [popolo della lunga casa] - chiamati Confederazione Irochese dai francesi e Lega delle Cinque Nazioni dagli inglesi - rappresentanti una precedente società basata sui clan (gens). «Tutti i membri di una gens irochese», scrisse Marx, ispirandosi a Morgan, «erano liberi, obbligati a difendere la libertà di ciascuno di loro».[64] Gli Haudenosaunee costruivano grandi longhouse [lunga casa] che ospitavano più famiglie. Le longhouse furono descritte da Morgan nel suo Houses and House-Life of the American Aborigines (1881), come «abbastanza grandi da ospitare cinque, dieci o venti famiglie, e ogni famiglia praticava il comunismo nella vita».[65] Nelle parole di Morgan, riprese e sottolineate da Marx: «… (Un livello superiore della società) sarà, in forma più elevata, la reviviscenza della libertà, uguaglianza e fraternità delle antiche gentes».[66]
La concezione di Marx della proprietà come originariamente derivante dall'appropriazione della natura, eliminava il mito dei popoli senza proprietà usato per giustificare l'espropriazione della terra da parte dei coloni europei. Nei suoi estratti, interpolati con Communal Landownership di Kovalevsky riguardo all'Algeria, Marx (tramite Kovalevsky) osservava che «secoli di dominio arabo, turco e infine francese, tranne che nel periodo più recente... non sono stati in grado di smantellare l'organizzazione consanguinea [basata sulla parentela] e i principi di indivisibilità e inalienabilità della proprietà fondiaria».[67] Tuttavia, solo una rivolta avrebbe potuto garantire una durevole proprietà fondiaria comunitaria. Dopo due mesi trascorsi ad Algeri nel 1882 per motivi di salute, Marx dichiarerà che gli algerini «SENZA UN MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO se ne andranno in malora».[68] Allo stesso modo, attraverso i suoi estratti da Kovalevsky, prenderà nota in modo particolare della «rapina della proprietà comunitaria e privata dei contadini» in India da parte degli inglesi.[69]
A causa della salute cagionevole, Marx non fu in grado, negli ultimi anni prima della sua morte nel 1883, di sviluppare una trattazione - come aveva chiaramente intenzione di fare - basata sui suoi Quaderni etno-antropologici. Tuttavia, Engels cercò di portare avanti le scoperte etnologiche di Marx (attraverso Morgan, Maurer e altri) nel suo Origini della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), scritto l'anno successivo alla morte di Marx, e in La marca (1882), che Marx lesse e commentò prima della pubblicazione. L'analisi di Engels era profondamente radicata nell'esame delle relazioni di parentela e di genere, in particolare della gens (clan) così come si manifestava nelle diverse culture. Ovunque - negli Irochesi in Nord America, negli Incas in Perù, nelle comunità di villaggio in India e a Giava, nell'obshchina [comunità agricola rurale] russa, nei clan celtici in Europa, nell'antichità greca e nella marca germanica - c'erano indicazioni, secondo Engels, di grandi comunità domestiche, di vita comune, di proprietà comune della terra, di coltivazione comune e di lavoro cooperativo, che variavano nel tempo e nel luogo. Aspetti di queste relazioni comunitarie arcaiche erano evidenti nell'antica fratria greca e nella gens romana .[70] «La comunità domestica patriarcale», dichiarava [Engels],
è esistita in molti se non in tutti i luoghi, quale stadio intermedio tra la famiglia matriarcale di tipo comunista e quella moderna, isolata.... Si potrà litigare ancora a lungo per stabilire se l’unità economica fosse la gens o la comunità domestica, o ancora un gruppo fondato sulla parentela, di tipo comunista intermedio, oppure se, a seconda della condizione del suolo, esistessero tutti e tre i gruppi. Ora Kovalevskij, però, sostiene che la situazione descritta da Tacito non aveva come presupposto la comunità di marca o di villaggio, bensì la comunità domestica; soltanto molto più tardi e in seguito all’aumento della popolazione, da quest'ultima si sarebbe sviluppata la comunità di villaggio.[71]
Nella concezione di Engels, nelle prime società tribali più tradizionali di cacciatori-raccoglitori, dove non esisteva ancora un surplus economico, l'ordine sociale era incentrato più sulla riproduzione delle relazioni di parentela e della popolazione che sulla produzione in senso economico.[72]
La questione della 'comune russa', che ebbe un ruolo importante nel pensiero di Marx ed Engels, si presentò per la prima volta nel 1847-1852. In quel periodo il barone prussiano von Haxthausen-Abbenburg (un aristocratico e funzionario tedesco sostenitore della servitù della gleba) scrisse, con l'appoggio dello zar, uno studio sulle relazioni agrarie russe, nel quale scoprì l'esistenza diffusa della mir [assemblea comunitaria e organo decisionale delle comunità rurali russe (obshchina)]. Questa scoperta avrebbe giocato un ruolo importante nello sviluppo del Populismo russo. In un primo momento, Marx non vide nulla di particolarmente distintivo nel mir russo, considerandolo semplicemente una manifestazione di un ordinamento comunitario arcaico in decadenza. Tuttavia, dopo aver ricevuto una copia di The Situation of the Working Class in Russia del giovane studioso russo V. V. Bervi (Flerovskii) nel 1869, Marx si dedicò con la massima urgenza a imparare a leggere il russo, cosa che riuscì a fare in meno di un anno. Questo lo portò all'intenso studio del Populismo russo, che finì per cambiare le sue opinioni sul significato contemporaneo del mir.[73]
La visione evoluta di Marx sulla comune russa si manifestò nelle bozze della lettera del 1881 a Vera Zasulič e nella prefazione del 1882 (scritta insieme a Engels) alla seconda edizione russa del Manifesto del Partito comunista. Nelle bozze delle lettere a Zasulič, Marx sosteneva che il mir russo era la forma più sviluppata di agricoltura comunitaria, le cui tracce erano state trovate «ovunque» in Europa e in alcune parti dell'Asia. Le forme precedenti, come le tribù tedesche al tempo di Cesare, erano basate sulla parentela e caratterizzate da una vita in comune e da una coltivazione collettiva. Al contrario, la più tarda comunità agricola della marca germanica, descritta da Tacito più di un secolo dopo [Cesare], combinava la proprietà comune del villaggio, compresa la ridistribuzione periodica della terra, con abitazioni e coltivazioni individuali. La comunità agricola mostrava un 'dualismo' nelle forme di proprietà che era sia fonte di maggiore vitalità sia segno di imminente dissoluzione e graduale emergere della proprietà privata, in cui la restante proprietà comunitaria sarebbe diventata solo un'appendice.[74]
Tutte le forme sopravvissute di agricoltura comunitaria, che si trovavano in Russia e in Asia nel XIX secolo (in quella russa, erano libere dalla forza deformante della colonizzazione esterna), mostravano le stesse caratteristiche fondamentali e il dualismo della comune agraria. Ovunque il comunismo agrario sia sopravvissuto, è stato grazie alla sua esistenza come «microcosmo localizzato» sottoposto a «un dispotismo più o meno centralizzato al di sopra della comune». Tutto ciò sollevava la questione se la comune russa o il mir potessero essere la base per lo sviluppo di una nuova società comunista. La risposta provvisoria di Marx fu che, data: (1) la base non parentale della comune russa; (2) la sua «contemporaneità», il che significava che era in grado di integrare alcune delle «acquisizioni positive sviluppate dal sistema capitalistico senza passare sotto le sue forche caudine»; e (3) la sua sopravvivenza su base nazionale, poteva plausibilmente essere l'embrione di una società comunitaria di nuovo sviluppo, radicata nel lavoro cooperativo. La crisi della società capitalista contemporanea potrebbe essa stessa promuovere «il ritorno delle società moderne a una forma superiore di un tipo "arcaico" di proprietà e di produzione collettiva». Ma perché ciò avvenga, sarebbe necessaria una rivoluzione che attinga ai movimenti socialisti contemporanei.[75]
Marx ed Engels concludevano la loro prefazione alla seconda edizione russa del Manifesto del Partito comunista con le parole: «Se la rivoluzione russa servirà di segnale ad una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà terriera comune russa potrà servire da punto di partenza per una evoluzione comunista».[76]
La società comunitaria come passato e futuro
Marx dichiarò più volte, nel corso della sua vita, che la sopravvivenza di residui di proprietà comune della terra nella regione intorno a Treviri, dove era cresciuto, aveva lasciato in lui una profonda impressione. In gioventù aveva discusso di questi rapporti di proprietà arcaici con il padre avvocato. La sua traduzione di La Germania di Tacito, completata quando Marx era ancora adolescente, senza dubbio rafforzò queste opinioni. I suoi primi studi sulla polis greca e sulla filosofia attraverso Aristotele ed Epicuro (che si occupavano entrambi della natura della comunità); il suo impegno come redattore della Rheinische Zeitung con la questione della perdita dei diritti consuetudinari dei contadini sulla foresta; e la sua adozione della nozione di appropriazione/proprietà di Hegel come base della società alimentarono questa prospettiva. Per Marx, come scriveva nel 1842, la proprietà nasceva dalla «forza elementare della natura» e dal lavoro umano. Questo era visibile nella Germania del suo tempo, nel diritto consuetudinario/comunale di raccogliere la legna nella foresta, in linea con tutte le forme di appropriazione fondamentali per l'esistenza umana.[77]
L'approccio di Marx alla questione del comunismo fu fin dall'inizio materialista e storico, sottolineando l'origine sociale degli esseri umani, in contrapposizione alle visioni individualiste, idealiste, romantiche e utopiche comuni ai socialisti francesi e ai giovani hegeliani tedeschi. Fin dai suoi primi scritti, ha sottolineato la base naturale e comunitaria dell'appropriazione umana della natura e lo sviluppo sociale dei rapporti di proprietà come prodotto del lavoro umano, evidente in tutta la storia dell'umanità, contrapponendolo ai rapporti alienati della proprietà privata capitalista. Ciò implicava una visione profondamente antropologica e una teoria del lavoro nella cultura.[78] L'ontologia sociale che ne risultava era alla base della sua intera critica dell'economia politica. L'idea che il passato offra indizi per il futuro dell'uomo e la possibilità di trascendere il presente attraverso la creazione di una società comunitaria superiore hanno governato il pensiero di Marx quasi fin dall'inizio.
Data l'importanza che la società comunitaria riveste nel pensiero di Marx, egli attinse a tutte le informazioni storiche e antropologiche disponibili al suo tempo per esplorare le varie forme di proprietà e di governance comunitaria, comprese le comuni agrarie e le strutture comunitarie urbane. Scavò a fondo nella storia greca e romana, nei rapporti degli amministratori coloniali e nei primi lavori etnologici. Questa ricerca fu portata avanti da altri marxisti classici, in particolare da Rosa Luxemburg.[79] In definitiva, Marx era convinto che il passato mediasse tra il presente e il futuro. La base naturale e spontaneamente comunitaria dell'umanità sarebbe risorta in una forma superiore di società, non solo in Europa, ma in tutto il mondo attraverso la rivoluzione. «Nessuna interpretazione errata di Marx», ha scritto Hobsbawm, «è più grottesca di quella che suggerisce che egli si aspettasse una rivoluzione esclusivamente dai Paesi industriali avanzati dell'Occidente».[80]
Nel nostro tempo, le rivoluzioni in Cina, con le sue prime e dinamiche comuni popolari e il suo attuale sistema di proprietà collettiva della terra delle comuni, e in Venezuela, con le sue diverse comunità e la sua lotta per creare uno «Stato comunitario», dimostrano che il futuro umano, se deve essercene uno, richiede la creazione di una società comunitaria, una società di, da e per i produttori associati.[81]
Note