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Sulla democrazia machiavelliana di McCormick
Perché il populismo può essere democratico
di Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli
I populismi, o perlomeno alcune forme di populismo, sono una risorsa fondamentale per la democrazia in questa fase della sua travagliata storia. In uno scenario globale in cui le disuguaglianze si estremizzano e si radicano sempre più, lo sviluppo di idee e movimenti anti-oligarchici e anti-plutocratici è fondamentale per la sopravvivenza della democrazia. Forse solo il populismo può salvare la democrazia
Nel saggio Sulla distinzione tra democrazia e populismo,[1]John McCormick argomenta che il populismo sia necessario per rendere più democratichele democrazie contemporanee. Il tanto lamentato deficit democratico degli esistenti sistemi elettorali-rappresentativi ha indubbiamente tanti aspetti e tante cause. Ma, tra questi, ce n’è uno che è particolarmente rilevante per una discussione sul potenziale democratico dei populismi, un fattore che va al cuore della riflessione sul valore della libertà e dell’uguaglianza politica e su come la democrazia possa difendere ed estendere questi valori. Il problema principale è la preoccupante crescita delle disuguaglianze economiche e la deformazione dello spazio politico che ne consegue.
Il deficit democratico genera sfiducia verso le istituzioni e le loro procedure. Questa sfiducia è alimentata da quelli che le persone comuni percepiscono come i risultati insoddisfacenti di queste istituzioni e procedure. A sua volta, la sfiducia è un ostacolo a processi di riforma che portino a un controllo popolare più robusto. La sfiducia e il disimpegno lasciano mano libera alle élite economiche e finanziarie, le quali possono così influenzare il processo politico in modo disfunzionale, promuovendoper esempio politiche favorevoli a coloro che Machiavelli chiamava i grandi e sfavorevoli al popolo. È all’interno di questo circolo vizioso che il populismo può agire da leva e scardinare la polarizzazione della ricchezza e del potere che è la vera radice del deficit democratico.[2]
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Napolitano e l’ipotesi di golpe bianco
Cronache delle mutazioni istituzionali
nique la police
Quando Giorgio Napolitano fu eletto presidente della repubblica nella primavera 2006 nell’elettorato di centrosinistra, e là dove si fabbrica opinione pubblica, prevalsero due convizioni. La prima, all’epoca prevalente, che era stato eletto un vero guardiano della costituzione. La seconda è che l’indirizzo della presidenza, dopo Ciampi e Cossiga, sarebbe stato meno monetario e più politico (dopo il periodo Ciampi, ex presidente della Banca d’Italia) più legato alla continuità delle forme istituzionali e meno ai momenti di rottura (visto il periodo Cossiga, quello del “picconatore”). Nonostante sia stato votato quasi esclusivamente dal centrosinistra Napolitano era un candidato presidente apprezzato anche dal centrodestra. Riporta il Corriere della Sera dell’epoca: “Dal centrodestra sono venute molte esplicite dichiarazioni di apprezzamento per Giorgio Napolitano, tali da far pensare che la divisione degli schieramenti sul suo nome sia molto più formale che sostanziale”. Va considerato che a suo tempo, fine anni ’80 la corrente milanese di Napolitano nel Pci riceveva pubblicamente, per la propria rivista, finanziamenti da Publitalia ricambiando con articoli sulla “modernizzazione” (testuale) del modello di impresa berlusconiano. Ma è storia vecchia, solo per far capire che l’apprezzamento del centrodestra per Napolitano (l’unico che difese nel Pci, anche qui pubblicamente, Craxi contro la linea berlingueriana delle mani pulite) aveva comunque radici lontane. E anche per far comprendere che Napolitano è un soggetto politico apparentemente statico. Nella continuità, della indigeribile retorica istituzionale che lo contraddistingue, metabolizza continuamente le trasformazioni.
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Melancholia
di Augusto Illuminati
Cos’è questo rumore sordo di sottofondo, che impercettibilmente cresce soffocando le strida viola di giubilo su via del Plebiscito e davanti al Quirinale? Perché le fattezze oneste e non mascarate di Monti si sbozzano sul disco bluastro di un pianeta in avvicinamento? L’impatto ormai imminente è non con la crisi, ma peggio: con la cura della crisi. La cura presunta, s’intende, quella che ci vorrebbero propinare i responsabili della crisi secondo il discusso metodo omeopatico di Hahnemann, secondo il quale (wiki-citazione) il rimedio appropriato per una determinata malattia sarebbe dato da quella sostanza che, in una persona sana, induce sintomi simili a quelli osservati nella persona malata. Con l’unica differenza che il rimedio è somministrato in dose non diluita bensì concentrata. I precari rischiano di non avere pensioni? Tagliamo quelle dei nonni e dei padri che al momento li mantengono. I giovani sono disoccupati? Rendiamo più facili i licenziamenti degli occupati. Gli speculatori ci strozzano con il debito? Inseriamo in Costituzione l’obbligo di restituire i debiti. Il territorio si sfascia? Rendiamo costituzionalmente lecito fare di tutto e costruire per ogni dove. La crisi è pilotata dalla Goldmann Sachs? Piazziamo ai vertici europei e italiani i suoi esponenti.
I bocconiani che non hanno minimamente previsto la crisi dovrebbero fungere da medici. Come se non ci avessimo già provato con la finanza creativa di Tremonti. Più liberismo guarirà i mali del liberismo. In questo folle vortice –qui sta la differenza– ci precipitiamo con il consenso bipartisan di destra e sinistra (compreso chi, come Vendola, non deve manco votare Monti in Parlamento). O meglio: la sinistra ci si butta con entusiasmo, seguendo i consigli presidenziali e timorosa di vincere in elezioni anticipate, la destra fa il doppio gioco, strillando al tradimento, allo stato di necessità (per evitare il crollo delle azioni Mediaset e Mediolanum), riservandosi di scatenare una campagna contro i tagli, contro l’euro, contro i cattivi di Europa, Bce e Fmi, confidando magari in una rimonta elettorale a giugno 2012.
C’è dell’altro (e ovviamente anche qui la destra bavosa e sconfitta ci intinge il pane). L’esproprio di democrazia e di quel tanto che restava di (non rimpianta) sovranità nazionale è più che evidente e d’altronde il caso greco l’aveva anticipato.
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La crociata per l’unipolarismo politico
di Walter G. Pozzi
È probabile che nel ’94 Berlusconi sia veramente apparso al potere economico come il gattopardiano elemento di continuità tra la prima e la seconda Repubblica. Così come è probabile che tale soluzione, in lui velocemente incarnatasi, fosse vista come un momento di passaggio, una reazione necessaria di fronte agli sconquassi creati da quella che, allora e fino a oggi, era vissuta dallo stesso potere come una ‘rivoluzione’ giudiziaria: una non programmata pulizia del Capitale. L’unica soluzione, in ogni caso, in grado di canalizzare e gestire senza sorprese una massa consistente di elettorato rimasto orfano delle vecchie sigle politiche, smembrate dalle inchieste della magistratura. Era un modo di ricomporre il pentapartito, con l’aggiunta della Lega nord e di Alleanza nazionale, all’interno di un unico blocco politico, e affrontare con successo la nuova stagione elettorale che si apriva sotto il segno del maggioritario.
Molti analisti politici, dopo una significativa esaltazione emotiva in favore dell’operato dei giudici, hanno creduto che Berlusconi potesse diventare il promotore di una nuova stagione liberale; il traghettatore dell’Italia verso la sponda della modernità.
Gli stessi capitani d’industria sopravvissuti a Tangentopoli, grazie a patteggiamenti e mille scuse, e i numerosi politici riciclatisi equamente nella boscaglia della nuova polarità politica, contavano di liquidare in tempi brevi la seconda Repubblica ed entrare in una terza stagione repubblicana; e di poterlo fare fortificati da una nuova Costituzione, dal ripristino di un effettivo (dal loro punto di vista) equilibrio tra i poteri dello stato, e dal reinserimento dell’immunità parlamentare.
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Attenti al virus mutante della Lega
di Alberto Burgio
Tutti guardiamo a Berlusconi e alle sue sorti e rischiamo di sottovalutare il ruolo di un altro protagonista della scena politica. Questa legislatura ha visto la Lega Nord conseguire importanti risultati. Il partito di Bossi, guidato in modo ferreo (a dispetto delle sue articolazioni) da un gruppo dirigente spregiudicato e abile, occupa posti-chiave nel governo (in particolare gli Interni e quella Semplificazione normativa che è il vero Ministero per le riforme istituzionali) e una posizione strategica in forza dell'asse con Tremonti. L'alleanza col Pdl gli ha permesso di dilagare nel sottogoverno (sia in periferia che a «Roma ladrona», nei consigli di amministrazione di banche, partecipate e media) e di rafforzarsi negli Enti locali (a cominciare dalle presidenze di Piemonte e Veneto e dalla vice-presidenza della Lombardia). In modo speculare, lo sradicamento della sinistra moderata dal mondo del lavoro dipendente e dalle fabbriche ha consentito alla Lega di conquistare consensi negli stessi settori più avanzati della classe operaia. Tutto questo è (dovrebbe essere) noto da tempo, ma ora c'è una novità. In queste settimane è emersa in modo plateale la capacità della Lega di sfruttare le crisi altrui (e persino le proprie) per trarne vantaggi.
L'esempio più evidente riguarda le rivolte nei Paesi della sponda sud del Mediterraneo. Non è inverosimile che la Libia cessi di fungere da posto di blocco per i migranti. La Ue evoca esodi biblici. E Bossi si frega le mani per il dono inatteso: tutta manna per la propaganda leghista, per l'appello razzista alla paura e all'identità.
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Il passaporto vaccinale e l’incognita dei conflitti
Alcune note polemiche a partire da uno scritto di Valérie Gérard
di Michele Garau
Intervenire sulle recenti mobilitazioni contro il passaporto sanitario, e di rimando sulla questione della campagna vaccinale, è un’incombenza davvero ingrata. Il rischio di trovarsi catturati nella morsa schiacciante di un dispositivo binario, dove le posizioni risultano polarizzate in una secca alternativa senza uscita, è molto alto. La recente pubblicazione, su Qui e ora1, di alcune note scritte da Valérie Gérard, in cui si denuncia l’impianto intrinsecamente reazionario e la base antropologica «ultraliberale» del movimento di protesta che si è dato in Francia, mi ha spinto a cercare di elaborare un parziale punto di vista. La lettura di queste righe mi ha un po’ forzato a formulare delle impressioni che non avevo intenzione di mettere per iscritto, sia per il loro grado di confusione e lacunosità, sia perché mi pare che l’intero dibattito in seno al mondo «antagonista» – nonostante alcuni scritti dall’indubbio interesse teorico – sia pesantemente viziato da questa ansia di posizionarsi unilateralmente su un piano di discorso in cui i livelli più diversi (sanitario, tecnico, politico ed epistemologico) collassano l’uno sull’altro. A questi livelli si interseca inoltre l’approccio, perfettamente legittimo, della valutazione strategica sulle potenzialità conflittuali delle proteste in corso.
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Un movimento di resistenza per il pianeta
Juan Cruz Ferre intervista John Bellamy Foster
Il cambiamento climatico è fuori controllo. È già troppo tardi per evitare le alte temperature, la scarsità d'acqua e le condizioni climatiche estreme. Ma la struttura finanziaria del capitalismo è legata ai combustibili fossili. Le soluzioni basate sul mercato sono inefficaci.
John Bellamy Foster, professore di sociologia presso l'Università dell'Oregon e direttore di Monthly Review, parla circa il tipo di programma necessario per fermare questa catastrofe. È stato intervistato da Juan Cruz Ferre per Left Voice dove il testo fu pubblicato per primo.
* * * *
Juan Cruz Ferre (JCF): C'è una schiacciante evidenza che dimostra come il clima antropico è fuori controllo e porterà alla catastrofe ambientale globale – senza un radicale miglioramento della produzione di energia. Nel numero di febbraio 2017 della Monthly Review, vi segnalo che, sebbene ci sia stata presentata con valutazioni precise e indiscutibili, la scienza e le istituzioni di scienze sociali non sono riuscite a venire con soluzioni efficaci. Perché pensi che questo è il caso?
John Bellamy Foster (JBF): Siamo in una situazione di emergenza nell' epoca Antropocene in cui la rottura del sistema terra, particolarmente il clima, sta minacciando il pianeta come luogo di abitazione umana. E tuttavia, il nostro sistema politico-economico, il capitalismo, è orientato principalmente all'accumulo di capitale, che ci impedisce di affrontare questa enorme sfida e accelera la distruzione. Gli scienziati naturalisti hanno fatto un lavoro eccellente e coraggioso nel lanciare l'allarme sui pericoli enormi della continuazione di affari come al solito per quanto riguarda le emissioni di carbonio e altri limiti del pianeta. Ma il mainstream delle scienze sociali come esiste oggi ha interiorizzato quasi completamente l’ideologia capitalista; tanto che gli scienziati sociali convenzionali sono completamente incapaci di affrontare il problema alla scala e nei termini storici che sono necessari. Sono abituati alla visione che la società molto tempo fa "conquistò" la natura e che la scienza sociale riguarda solo persone – relazioni personali, mai persone-natura.
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Crisi Infinite
di Jacob Blumenfeld
Il mondo è già finito? Ci siamo persi il momento della nostra scadenza?
In questo momento, sembra essere questa la domanda che ci stiamo collettivamente ponendo attraverso i medium della cultura popolare.
Non siamo più soddisfatti dal vedere il nostro pianeta ripetutamente minacciato da alieni, epidemie, robot, esplosioni nucleari, o dalla natura, e ci piace guardare l'umanità mentre si trova a dover gestire le conseguenze del disastro anziché prevenirlo. Non più convinti dall'unificazione dell'umanità contro la minaccia universale, traiamo piacere dal guardare le persone dividersi e combattere a morte gli uni contro gli altri secondo la razza, lo stato e la nazione. Credere in quello che una volta era l'ideale utopico delle classi lavoratrici, che vedeva tutte la nazioni unirsi insieme per rendere il mondo più perfetto, certifica, oggi più che mai, che uno è pazzo.
C'è rimasta una qualche speranza per un futuro senza che ci sia una guerra perpetua, crisi economiche, catastrofi ambientali, misoginia dilagante, violenza razzista, disuguaglianze enormi, terribili prigioni, lavoro senza fine? Non c'è niente che punti a questo. Utopia è sempre stata un'idea nata morta, dichiarata morta al suo arrivo in questo mondo che dobbiamo lasciare. Per qualcuno, il mondo diventa migliore solamente se si fanno partecipare più persone della ricchezza della società.
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A proposito di femminismo
Risposta ad Antiper
Coordinamenta Femminista e Lesbica
Il vostro articolo del 25 novembre scorso è pieno di citazioni e grandi affreschi.
Forse, se una critica si può fare, si potrebbe notare che, pretendendo di mettere tanta diversa carne al fuoco, l’articolo finisce per bruciare tutto e lasciare ben poco da mettere sotto i denti.
La critica rivolta al nostro gruppo femminista “coordinamenta femminista e lesbica” sembra un buon esempio di questi errori “di cottura”. La critica che ci rivolgete è di poco conto, ma la scelta di esercitarla in un paragrafo in cui si prende di mira (a ragione!) il femminismo della differenza finisce per farle assumere ben altra rilevanza.
Perché fare il nome di un gruppo politico femminista che si oppone, da ben prima di voi, al pensiero innatista che accomuna ormai il femminismo di regime e molte femministe compagne? Perché utilizzare la coordinamenta come esempio di cattiva declinazione del femminismo (addirittura come esempio di articolazione prettamente formale della lotta) quando siamo uno dei pochi collettivi di compagne (l’unico romano) che ha preso pubblicamente parola contro la giornata del 26, opponendosi con forza a questa meschina manovra che sta minando da dentro le fondamenta del femminismo rivoluzionario per consegnarlo, attraverso la sua riduzione a lotte categoriali perfettamente compatibili con il capitalismo, nelle mani, non della borghesia tout court, ma della borghesia neoliberista?
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Verso la legge di stabilità
di Maurizio Sgroi
I tormenti del 2015
Se il 2014 vi è sembrato un anno orribile per la nostra finanza pubblica, e di sicuro finora lo è stato, potete consolarvi pensando che il 2015 sarà peggio. A meno di miracolistiche quanto improvvise crescite del Pil, il nostro Paese dovrà far fronte alle scadenze impegnative che richiedono le regole della spesa e del debito europeo che dovrebbero obbligarci – e mai condizionale fu più d’obbligo – a importanti correzioni fiscali per rientrare nei dettami europei.
Ora, per non rischiare di essere iscritto d’ufficio al partito dei gufi (splendidi animali, fra l’altro), dico subito che dati e parole di questo post sono estratti esclusivamente dalla nota di aggiornamento al Def che il governo ha presentato poche settimane fa e che sospetto pochi abbiano letto interamente, perdendosi così una splendida lezione di finanza pubblica. Al contrario, io mi sono abbeverato alla fonte di tanta conoscenza, e seppure il retrogusto sia vagamente amarognolo, non può dirsi sia stata fatica sprecata. Al contrario. E’ stata una prolusione all’ampio dibattito che comincerà questa settimana sulla futura legge di stabilità, utile anche a capire chi parla sapendo quello che dice e chi no.
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Il vuoto di sovranità in Europa
di Christian Marazzi
Le reazioni e i commenti al vertice di Bruxelles sono stati tutti prevalentemente negativi. “A disastrous failure at the summit”, ha scritto Martin Wolf sul Financial Times (14 dicembre). Allo stesso modo hanno commentato The Economist, Bloomberg BusinessWeek, e tutti i maggiori quotidiani finanziari.
Di fatto, il vertice europeo non ha preso alcuna decisione che possa salvare il Sistema monetario europeo, il patto fiscale (fiscal compact) imposto dalla Germania e accettato dagli altri leader europei, ad eccezione di David Cameron, prefigura quelle che dovrebbero essere le regole di Eurolandia, ma ha scarse possibilità di essere ratificato dai Parlamenti nazionali, perché riduce drasticamente la sovranità nazionale di ogni Paese.
“Le vere misure di emergenza sono state demandate alla Banca centrale europea. Quest’ultima alla vigilia del vertice ha deciso di abbassare i tassi europei all’1% e soprattutto ha deciso di concedere alle banche prestiti illimitati della durata di tre anni, accettando in pegno (come collaterale) anche titoli di scarsa qualità. In questo modo l’Europa spera di invogliare le banche con la prospettiva di consistenti guadagni ad indebitarsi all’1% presso gli sportelli di Francoforte e di usare questi capitali per acquistare titoli statali, che come quelli italiani offrono rendimenti che si aggirano attorno al 6%” (Alfondo Tuor, Ticinonews, 14, 12).
Le cose, però, non sono così semplici.
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Potere al popolo critica i limiti del Patto per la Costituzione e rilancia la lotta di classe dal basso
di Luigi Ficarra
Ritengo positiva la risposta data dalla portavoce di Potere al Popolo, Viola Carofalo, ai firmatari del Patto per la Costituzione, Felice Besostri e altri costituzionalisti (*).
La Carofalo evidenzia innanzitutto che le condizioni minime poste nel ‘Patto’ sono “insufficienti ad assicurare davvero a tutti i lavoratori la difesa dei diritti costituzionali alle ferie, al riposo, a un salario decente, alla pace, alla salute, perché essi sono stati sistematicamente negati”.
E negati, dice la Carofalo, non solo con le leggi ordinarie, tipo il Jobs Act ed il decreto Poletti, ma anche con leggi di revisione costituzionale che la classe dominante borghese ha compiuto specie con la modifica degli artt. 81 e 97 cost., per non parlare di quella, anch’essa molto rilevante, dell’art. 118, ultimo comma , cost..
Per cui giustamente dice che in conseguenza delle suddette modifiche molti “principi costituzionali (elencati nel ‘Patto’) sono oggi lettera morta”. Si che quella vigente non è più la Costituzione liberaldemocratica del ’47, ma una costituzione liberale.
Scrive ad esempio la Carofalo che, introdotto l’obbligo del pareggio di bilancio con gli artt. 81 e 97 novellati, “non è (oggi) possibile attuare l’articolo 3 cost . Invero, non potendosi fare spese fuori bilancio, non possono “rimuoversi gli ostacoli di ordine economico e sociale ”di cui in esso si parla. Il secondo comma dell’art. 81 prescrive infatti che “il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”. Non quindi per motivi sociali e di giustizia.
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Sul referendum Cgil e sul decreto Minniti
di Gianni Giovannelli
Tutto se scorda. Ogge si’ tu: dimane sarrà:
e po’ n’ata, chi sa, si tiempe ce rummane
Salvatore Di Giacomo (1860-1934)
Era prevedibile. Nonostante il gran rumore che aveva accompagnato il suo arrivo, Travicello Gentiloni rimane al suo posto, silenzioso. Come scriveva il buon Giusti: calò nel suo regno con molto fracasso … ma subito tacque limitandosi a galleggiare placidamente. Nessuno pare in grado di sostituirlo in questa situazione indubbiamente agitata e difficile. D’altro canto le decisioni vengono prese comunque elsewhere. Dunque un uomo inutile è a ben vedere la scelta più oculata, dopo l’inatteso tifone del 4 dicembre e in attesa che ritorni la calma rotta dall’incauta sfida imposta da Renzi. E’ vero che un uomo inutile non risolve il problema, ma almeno non crea danni. Per il potere, al momento, è sufficiente.
Oggi l’opposizione è fragile, divisa, dominata dalla paura e dall’impotenza. Il desiderio di cogliere l’occasione favorevole e di rimuovere ogni residuo ostacolo induce l’apparato di comando in tentazione.
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Due fallimenti fanno un successo
di Andrea Fumagalli
Con la fine dell’anno 2016, dopo la vittoria del No al referendum costituzionale, le simulate dimissioni di Renzi e il varo del governo-ombra Gentiloni, è il caso di fare il punto sugli indirizzi economici degli ultimi tempi. Essi sono basati su alcuni palesi fallimenti, sia da un punto di vista delle politiche economiche che di quelle del lavoro: il salvataggio delle banche e l’istituzionalizzazione della precarietà sono infatti esplicitazione di un fallimento ma anche paradossali e sbandierati “successi” dell’era renziana. I soldi non ci sono per il welfare ma ci sono per il sistema creditizio e per le imprese, favorite dalla svendita del fattore lavoro, una merce che per i governi di “sinistra” sembra non valere niente.
Fallimento # 1
Il primo fallimento di cui voglio parlare è quello del Monte dei Paschi di Siena (MPS), la più antica banca italiana, e ha origini lontane. Cominciamo con un minimo di cronistoria.
Con delibera novembre 2007, l’allora CdA, sotto la guida di Antonio Mussari, delibera l‘acquisizione di Antonveneta, la banca al centro (insieme alla Popolare di Lodi) dello scandalo del 2005 (con la complicità dell’allora Governatore di BdI Antonio Fazio), noto come lo scandalo dei “furbetti del quartierino”.
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Dalla Grecia le prospettive che abbiamo di fronte
Paolo Pini e Roberto Romano*
“Il trionfo elettorale di Syriza in Grecia potrebbe capovolgere la situazione dell’Europa e farla finita con l’austerità che mette a rischio la sopravvivenza del nostro continente e dei suoi giovani. Tanto più che le elezioni previste per la fine del 2015 in Spagna potrebbero produrre un risultato simile, con l’ascesa di Podemos. Ma perché questa rivoluzione democratica venuta dal Sud possa riuscire a modificare davvero il corso delle cose, bisognerebbe che i partiti di centrosinistra attualmente al potere in Francia e in Italia adottino un atteggiamento costruttivo e riconoscano la loro parte di responsabilità nella situazione attuale”[1]. Posizioni analoghe son quelle espresse da altri economisti quali De Grauwe[2], Krugman[3], Rodrik[4], Stiglitz[5], Wren-Lewis[6].
Un Paese piccolo come la Grecia potrebbe realmente cambiare le politiche europee, non tanto per la sua intrinseca forza economica, piuttosto perché intercetta il senso comune dei cittadini europei, così come il buon senso di tanti inascoltati economisti. Oggi la Grecia suggerisce un New Deal europeo, un progetto a cui ha lavorato l’attuale Ministro delle Finanze greco Varoufakis, con il concorso di Holland e Galbraith, prefigurando un “New Deal europeo che, come il suo predecessore americano, potrebbe portare al miglioramento nell’arco di mesi, pur attraverso misure che rientrano interamente nel quadro costituzionale al quale i governi europei hanno già aderito”[7].
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Cronache dalla crisi
Sergio Cesaratto
Vale la pena in questo scorcio finale delle vacanze - per gli italiani che se le sono potute permettere - fare brevemente il punto con nostri lettori sull’andamento della crisi e sul dibattito di politica economica.
1. Il fatto più eclatante dell’estate è stata la significativa ripresa dell’economia tedesca guidata dalle esportazioni. Queste hanno compiuto un balzo, soprattutto verso la Cina. Ciò ha fatto saltare di gioia gli economisti conservatori, pronti a suggerire che le politiche restrittive e anti-keynesiane della Merkel sono state più efficaci di quelle espansive di Obama. La verità è che la Germania ha tratto vantaggio dall’opportunismo della Merkel, dichiaratamente volto ad attendere che gli altri, Cina e Stati Uniti in primis, adottassero politiche espansive, trainando in tal modo le esportazioni tedesche. Il deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro ha fatto il resto. Tale deprezzamento è fondamentalmente scaturito dalla crisi di fiducia verso la moneta unica che ha fatto seguito all’accentuarsi dei rischi di una crisi di solvibilità del debito greco e degli altri paesi della “periferia” europea (Spagna, Portogallo e Irlanda). Fra la furbizia e il grottesco, la Germania ha così tratto beneficio sia dalle politiche espansive di alcuni che dalle difficoltà di altri, non certo dai tagli della Merkel.
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Domenico Losurdo, “La lotta di classe”
di Alessandro Visalli
Il libro di Domenico Losurdo è stato pubblicato nel 2013 e rappresenta in qualche modo l’estensivo scavo archeologico dal quale viene tratta la tesi storico-ricostruttiva ad ampio raggio presentata nella sua ultima opera, “Il marxismo occidentale”[1]. La tesi di fondo è che la lotta di classe ha forme molteplici, includenti sia lo scontro tra lavoro e capitale nel luogo della produzione e nella società, sia quello per la liberazione dalle forme di oppressione presenti nel mondo e, finanche, quello tra nazioni.
I due padri del marxismo, ovvero Karl Marx e Friedrich Engels, nelle loro opere e lettere, non hanno mai espresso in modo sistematico la tesi che Losurdo cerca di desumere dal loro lavoro, ovvero la connessione tra liberazione della classe operaia e liberazione nazionale. Ciò è onestamente riconosciuto, ma lo storico ritiene svolga un ruolo centrale nel loro pensiero ed a tal fine compie una profonda operazione di ricostruzione, andandone ad individuare le tracce nei testi e nella complessiva storia del marxismo.
Questa è la tesi, per certi versi paradossale, ma reputo ben fondata, del testo.
I due processi di liberazione articolano le tre forme di emancipazione per le quali i due filosofi lavorano: la “emancipazione umana”, la “emancipazione politica” e la “emancipazione universale”. Questa triplice emancipazione è il prodotto di un’azione sviluppata durante diversi decenni e avendo sempre di mira una costante attenzione alla politica estera, pungolata dalla turbolenta politica internazionale del tempo. Tempo che va dall’assestamento post guerre napoleoniche alla crisi del 1848 e poi alla progressiva creazione dei blocchi di potere, con stati guida e stati satellite di interposizione, che condurranno alla Prima guerra mondiale.
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Da Saverio Saltarelli alle Sardine: quale odio?
L'altro 12 dicembre
di Fulvio Grimaldi
Amici, lettori, ciò che mi auguro leggiate qui sotto e ricordiate non c’entra niente col Natale, col suo bambinello e i suoi re magi (pastori e sovrani insieme ai piedi di un neonato che insigniscono di divinità: interclassismo e monarchia assoluta ante litteram); non c’entra con il disgustoso panzone con cui la Coca Cola ci ha corrotto le feste e neanche col capodanno. Ma c’entra col solstizio e con il ritorno della luce celebrato dai nostri avi meno dediti a strumentali superstizioni. E il ritorno della luce può essere anche inteso come ritorno della verità. Una verità riabilitata dal ricordo. E io questo ricordo me lo voglio portare nell’anno venturo e in tutti quelli successivi, finchè occhio e cuore saranno in grado di ricevere luce. Poi gli occhi si chiuderanno, ma la luce non si spegnerà.
https://www.youtube.com/watch?v=eWgJUdln3wg Compagno Saltarelli, un mio amico e compagno, cantato da Pino Masi
L’altro 12 dicembre. Quello dimenticato. Quello quando in piazza non c’erano Sardine ben vestite, benparlanti, sorridenti, applaudite con standing ovation dall’universo del comando perché “moderate” e ostili a ogni conflitto (che non sia con l’opposizione). Quando in piazza, a fare una denuncia non gradita agli autori della Strage di Stato dell’anno prima e tantomeno gradita a chi stava alle spalle dell’anarchico innocente Giuseppe Pinelli, quando volò da una finestra della Questura di Luigi Calabresi, c’erano decine di migliaia di manifestanti contro quella strage e quella “caduta”. Tra loro Saverio Saltarelli, 22 anni, studente abruzzese, facchino a Milano, rivoluzionario. Un poliziotto gli spacca il cuore con un candelotto lacrimogeno, “arma non letale”.
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La globalizzazione democratica di Rodrik
di Vincenzo Russo
Nel suo nuovo saggio l'economista sviluppa le idee elaborate in questi ultimi anni e formula una serie di proposte per tentare di conciliare il ruolo dello Stato nazionale, che considera tutt'altro che esaurito, con un'economia per cui i confini non hanno più significato
La tesi principale del libro è che gli Stati nazionali hanno ancora un ruolo da giocare specialmente in termini di giustizia sociale, riduzione delle diseguaglianze e protezione dei diritti dei lavoratori. Devo dire che prima di leggere il lavoro di Rodrik ero convinto del contrario specialmente con riguardo alla posizione dei paesi membri dell’Unione europea. Dopo attenta meditazione sulle sue argomentazioni, tendo a convergere con la sua posizione. Il motivo è presto detto: intanto la globalizzazione degli ultimi decenni non è stata ben governata e la finanza rapace ha fatto il bello e il cattivo tempo. La globalizzazione implica una verticalizzazione del processo decisionale che per funzionare bene comporterebbe una riforma delle istituzioni sovranazionali. In assenza di detta riforma non si può contare su di esse per garantire a livello globale il rispetto dei diritti fondamentali, un livello essenziale di giustizia sociale, la libertà di movimento dei cittadini in cerca non solo delle libertà che sono loro negate nei paesi dove sono nati ma anche il diritto a migliorare il loro benessere emigrando.
Si tratta quindi di una soluzione di second best che non va condannata come tale ma di prendere atto che allo stato non è disponibile quella di first best. E chi sa quanto tempo bisogna ancora attendere prima di riuscire a costruirla. Come sappiamo, a livello sovranazionale, non ci sono parlamenti regolarmente eletti. E se ci sono come nell’Unione europea, ciò non significa che hanno l’ultima parola in materia di politiche sociali e redistributive. Ci sono tecnocrazie nominate da alcuni governi che non esprimono necessariamente gli interessi delle fasce più deboli dei paesi membri. Per le istituzioni sovranazionali si parla di governance e non di organismi pienamente democratici. Nel massimo organo decisionale delle Nazioni Unite il potere è concentrato nel Consiglio di sicurezza composto da cinque membri permanenti e da dieci temporanei.
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Rêve Générale
Quando la sazietà del ricco non ti lascia dormire
Nicolas Martino
L’appuntamento è per domani, domenica 15 maggio. La «Nuit Debout» si diffonde nelle piazze di Roma, Milano, Napoli, e in tante città francesi e di tutta Europa per immaginare e costruire insieme altre forme di vita. E non è un caso che la dimensione notturna e onirica dell’appuntamento sia legata a una lotta che riguarda il lavoro, ovvero la vita di ognuno di noi. Infatti nelle piazze parigine, impegnate nella lotta contro la «Loi Travail», ha fatto la sua comparsa uno striscione che invitava, dopo lo sciopero generale, al «Rêve Générale», al sogno collettivo da fare in piazza trasformata per la notte in una vera e propria «Dream Machine». Parigi si sa, inaugura spesso i tempi nuovi a venire, chissà allora che da Place de la République non si diffonda in tutta Europa un nuovo ciclo di lotte. Chissà che non riparta quella «Comune» accesa a Parigi dal jolie mai e dal suo slogan più famoso, e forse abusato, l’«immaginazione al potere». Uno slogan che sembra tornare oggi con il «Rêve Générale», anche se con uno passo indietro strategico e significativo, giacché lo scarto quarantennale che ci separa da quel decennio «comunardo» non è stato privo di conseguenze. Per capire perché il sogno sia oggi immediatamente legato al lavoro e al reddito e per cogliere la profondità di questo scarto e quindi la differenza del passo indietro, occorre partire da quel primo slogan e chiedersi che cosa significasse.
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Identità e cattiva coscienza
Il difficile congresso del Pd
di Giorgio Salerno
La perdita dell’identità
All’indomani della condanna definitiva di Berlusconi il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, nell’editoriale “Le conseguenze della verità”, del 2 agosto 2013, scriveva:”Per giungere a questo esito – rendere compiutamente giustizia - ci sono voluti 10 anni di indagini, 6 anni di cammino processuale continuamente accidentato dai ‘mostri’ giudiziari costruiti con le sue mani dal premier Berlusconi [..] Rivelatisi infine inutili anche i ‘mostri’, che hanno menomato il processo ma non sono riusciti ad ucciderlo, è scattato il ricatto psicologico su istituzioni deboli e partiti disancorati da ogni radice identitaria” (evidenziazioni mie). Qualche giorno dopo, il medesimo, nell’editoriale del 7 agosto “Perché bisogna dire no”, aggiungeva: “Ma la disperazione berlusconiana sta raccogliendo tutti gli elementi sparsi della cultura ventennale di una destra populista, carismatica, a-occidentale, per comporre una testa d’ariete e forzare istituzioni deboli, partiti prigionieri della loro indeterminatezza, soprattutto identitaria” (evidenziazioni mie).
Le due citazioni contengono delle valutazioni pienamente condivisibili e, per certi aspetti, inattese o almeno singolari. Singolari e bizzarre, visto il pulpito da cui proviene la predica, e cioè dal quotidiano e dal gruppo editoriale che più si è speso nel processo di cambiamento, anzi di annientamento, del Partito Comunista Italiano, un partito dotato più di altri di una forte caratterizzazione identitaria.
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Boeri e le gabbie salariali: l’incubo che ritorna
di coniarerivolta
In un articolo pubblicato su Repubblica, Tito Boeri, ex presidente dell’INPS, propone una delle sue tante ricette, rigorosamente in salsa neoliberista, per far tornare a crescere l’economia italiana e ridurre la disoccupazione: la reintroduzione delle cosiddette “gabbie salariali”, cioè differenziali tra le retribuzioni dei lavoratori in base al luogo di residenza, ipocritamente giustificati sulla base di differenze nel costo della vita nelle varie regioni d’Italia. Prima di addentrarci nei dettagli della proposta, vediamo da cosa scaturisce questa nuova (nuova si fa per dire, i neoliberisti sono persone molto banali) idea del Prof. Boeri.
Il predecessore di Tridico ci informa, preoccupato, che il Nord del Paese si sente tradito dalla Lega, che avrebbe lasciato troppo spazio alle ricette economiche del Movimento 5 Stelle e avrebbe rinunciato, in tutto o in parte, alle proprie. “L’agenda di Governo” – scrive Boeri – “ha del tutto ignorato le istanze del blocco sociale settentrionale”. Immediatamente, Boeri mette le cose in chiaro sulla sua visione del Paese, riferendosi a un Nord di lavoratori e pensionati che speravano nelle promesse della Lega – quota 100 e la flat tax, ad esempio – e a un Sud di disoccupati che avevano votato in massa Movimento 5 Stelle per ricevere il reddito di cittadinanza. Solo questi ultimi sarebbero stati davvero accontentati. Il produttivo Nord sarebbe stato fregato dalla Lega attraverso una quota 100 molto limitata, nella sua portata, rispetto alle aspettative dei lavoratori settentrionali prossimi alla pensione e una flat tax che, fino ad ora, non si è vista (se non attraverso una ben misera “flataxina”).
Secondo Boeri, un partito interessato ad affrontare i veri problemi del Paese dovrebbe partire dalla questione settentrionale, prendendo di petto quella che secondo lui è la vera grande ingiustizia territoriale: i salari reali (ovvero il rapporto tra i salari in termini monetari e i prezzi, che ci dice, in pratica, quante cose un lavoratore può comprare con il proprio stipendio) sono più alti al Sud che al Nord, a causa di prezzi molto più bassi nelle regioni meridionali rispetto a quelli nelle regioni del Settentrione.
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La storia della terza rivoluzione industriale
3 - L’abdicazione dello Stato
di Robert Kurz
Pubblichiamo il terzo capitolo della sezione VIII dello Schwarzbuch Kapitalismus (“Il libro nero del capitalismo”) di Robert Kurz
Se paragonato all’oggettività della «crisi della società del lavoro», delineatasi negli ultimi due decenni del XX secolo, il «consenso globale sull’economia di mercato», costituitosi con forza in quello stesso periodo, andrebbe giudicato solo come un sintomo della sempre più grave incapacità mentale delle istituzioni capitalistiche e dei relativi rappresentanti ideologici. Questa cecità di fronte alla realtà, un vero e proprio flagello collettivo, può essere spiegata in parte con la specifica costellazione della storia del dopoguerra.
Sul piano della teoria economica e su quello politico la dottrina keynesiana era riuscita ad imporsi con forza come reazione alla Grande depressione dell’epoca tra le due guerre; nella contrapposizione tra i sistemi con il blocco orientale essa caldeggiò la concessione di misure sociali. Inoltre perlomeno un settore delle élite funzionali capitalistiche era giunto alla conclusione, collegata più o meno saldamente al keynesismo, che il «consumo di massa di investimento» di beni di consumo durevoli fosse ormai un’architrave del sistema e dovesse quindi essere garantito dallo Stato. per questa via fu certamente possibile procrastinare il boom fordista oltre i suoi limiti interni. Ma come si intervenne allorché divenne chiaro che il sistema monetario iniziava nuovamente ad essere afflitto da un’inflazione drammatica e che quindi anche il keynesismo aveva fallito? Si ritornò al passato definendolo progresso.
Infatti il pensiero capitalistico, accanto al classico liberalismo economico – che risaliva ai fisiocratici, a Smith, Ricardo e Say – aveva prodotto solo la dottrina di Keynes (oltre che, in un ramo collaterale, il capitalismo di Stato integrale della «modernizzazione di recupero») come sintesi delle tendenze verso l’economia controllata dallo Stato a partire dal tardo XIX secolo, e in questo modo aveva esaurito ogni freccia al suo arco. Sul terreno del modo di produzione capitalistico non esiste una terza possibilità.
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Autonomia differenziata: il convitato di pietra è l’Unione Europea
di Rete dei Comunisti
Come è stato osservato in più interventi tenuti in una recente e riuscita assemblea a Napoli (09 marzo – “Il Sud Conta”) sulla questione del regionalismo differenziato, dalla riforma costituzionale del 2001 la “questione meridionale” (a prescindere dalle sue varie declinazioni) è stata espulsa dalla agenda politica nazionale e, anche formalmente, la questione settentrionale è entrata a far parte del discorso politico dominante, con chiara legittimazione costituzionale.
Il tema del recupero del “grande divario” tra Nord e Sud del Paese è stato, di conseguenza, del tutto obliterato. Le stesse politiche di orientamento della spesa pubblica nazionale hanno guardato altrove.
Nel 2001 lo Svimez, analizzando l’andamento dell’anno precedente, da un lato si rallegrava del fatto che il Sud da qualche anno presentasse incrementi del prodotto interno lordo, dei consumi e degli investimenti maggiori di quelli del resto del paese, mentre dall’altro lato evidenziava (come a dire qui lo dico e qui lo nego) delle tendenze che mostravano come tale miglioramento fosse illusorio:
«… l’economia del Mezzogiorno si presenta con dati e prospettive certamente migliori rispetto all’esperienza della prima parte degli anni ’90, avendo saputo arrestare la tendenza ad un ulteriore arretramento dei livelli relativi di prodotto, di occupazione e di investimenti. Un consolidamento ed ulteriori progressi del processo di crescita dell’economia dell’area restano più che mai legati, oltre che alla congiuntura nazionale e internazionale, all’intensità e alla regolarità dell’azione volta a rimuovere i vincoli strutturali e gli elementi di debolezza che continuano a gravare sul Mezzogiorno».
In effetti questa ripresa del mai compiuto processo di convergenza si inseriva in un quadro che la rendeva meramente congiunturale, ossia dipendente dal ciclo italiano, europeo e più propriamente mondiale.
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Papi e madonne
di Cristina Morini
Nessuno mette in dubbio le molte competenze di Laura Boldrini, attuale presidente della Camera. Ci limitiamo a sottolineare brevemente come un sistema completamente al collasso, vada affidando le tribolazioni del dopo elezioni alle brave persone, meglio se donne, ai buoni pensieri e alle parole semplici quasi fossero piccoli atti di purificazione simbolica per avvezzarci a sopportare i mali del momento. “Buona sera, fratelli e sorelle”, dice al microfono il neo-papa Francesco e a noi pare già di sentirci meglio.
La cura è proseguita, appunto, con l’elezione sullo scranno della Camera di una donna dai solidi meriti. Bella, buona, sa tutte le lingue, sempre con la valigia in mano, in giro per tutti i paesi disperati del mondo. Dacci una mano anche tu che sei stata in tanti luoghi di crisi, tra cui ex Jugoslavia, Afghanistan, Pakistan, Iraq, Iran, Sudan, Caucaso, Angola e Ruanda. Lei, nel primo discorso, non dimentica nessuno: “la difesa dei diritti degli ultimi… l’impegno per chi ha perso certezze e speranze… la lotta contro la povertà e non contro i poveri… le donne che subiscono violenza travestita da amore… i detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante… i pensionati che hanno lavorato tutta una vita e che oggi non riescono ad andare avanti… chi ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato, a chi rischia di perdere la Cig, ai cosiddetti esodati… ai tanti imprenditori che costituiscono una risorsa essenziale per l’economia italiana e che oggi sono schiacciati dal peso della crisi… alle vittime del terremoto…”.
Qualche commentatore si è emozionato e ha sentito allora di poter destare il fantasma di Enrico Berlinguer, cioè di quella vecchia e rassicurante sinistra che di solito sta chiusa a chiave in un cassettone.
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L’ultima geopolitica: tra Leviatano e Behemoth
di Giorgio Gattei
1. Racconterò una favola, quella del Leviatano che lotta contro Behemoth. Al giorno d’oggi non va di moda il termine favola, che appare disdicevole, e si preferisce parlare piuttosto di “narrazioni” che risulterebbero necessarie per imbrigliare il disordine del mondo in una maniera comprensibile che possa essere di guida al comportamento politico più acconcio. E siccome adesso ci si è convinti che anche l’economia è un tipo di narrazione, e quindi è anch’essa una “favola”, partirò dalla favola economica che più grande non ce n’è, quella che racconta dello sfruttamento del lavoro salariato da parte dei capitalisti percettori di profitti, rendite ed interessi, quale è consegnata nelle pagine straordinarie del Capitale di Karl Marx.
Questa “favola” ha riscosso così tanto successo in passato (ma oggi non più di tanto) che da essa sono derivate altre narrazioni altrettanto favolose, come quella del Partito che, baciando la classe operaia addormentata, la risveglierebbe a volontà rivoluzionaria, oppure quella della caduta del saggio del profitto che, nel racconto del Capitale, dovrebbe svolgere la medesima funzione conclusiva del Crepuscolo degli dei nell’Anello del nibelungo di Richard Wagner. Ma dal Capitale è uscita fuori anche la favola dell’imperialismo per opera di quel grande narratore russo che si faceva chiamare Lenin (che però non è il suo vero nome): siccome i soggetti capitalistici sono plurimi, essi competono nell’arena del mondo sotto forma di Stati-nazione che cercano di accaparrarsi commercialmente, e anche militarmente qualora non basti, le maggiori aree di sfruttamento. E proprio così non era successo all’inizio del Novecento quando la competizione imperialistica, fino ad allora mantenutasi aggressiva ma pacifica, era sfociata nel grande macello della guerra mondiale del 1914-1918.
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La falsa sfida di Lega&Cinquestelle all'Unione europea
E la vera sfida da lanciare al governo, all'Ue e ai "mercati"
di Il cuneo rosso
Ci siamo: la Commissione europea boccia la finanziaria del governo Salvini/Di Maio e i due demagoghi a pettinfuori (o quasi) giurano: non retrocediamo di un millimetro. Su tutto possiamo transigere, sulla difesa dei poveri e dei pensionandi no. Prima i proletari! Salvini-Di Maio/Lega-Cinquestelle in armi contro la perfida UE, dunque. Avanti fino in fondo, sia quel che sia. E boia chi molla.
Che c'è di vero in questa sceneggiata meneghino/napoletana?
Per l'essenziale, nulla.
Perché:
1) il Fiscal Compact, il patto strangolatorio inserito in Costituzione che impone il pareggio di bilancio e il dimezzamento del debito di stato, non viene in alcun modo messo in discussione. Anzi non viene neppure nominato;
2) perché il Def (Documento di economia e finanza) del governo in carica garantisce per i prossimi anni l'avanzo primario; garantisce cioè, al pari dei precedenti governi, che lo stato spenderà meno di quanto incasserà. E lo farà per tutelare al meglio i suoi grandi creditori-piranha (quest'anno incassano 62 miliardi di interessi), cioè proprio i famigerati mercati e/o investitori, quelli di cui i "nemici" Juncker e Moscovici sono portaborse e portavoce;
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Corpo, mente, bisogni: autogestione e valore d’uso
di Cristina Morini
Da un punto di vista storico è corretto sostenere che la fame o più genericamente le sofferenze materiali non sono mai state levatrici di rivoluzioni, neppure di trasformazioni sostanziali o di mutamenti radicali. In assenza dei mezzi per provvedere al proprio sostentamento poca attenzione si finisce per prestare al contesto generale, a struttura e sovrastruttura, oppure alle condizioni in cui versano gli altri, intorno. Le sommosse per il pane dell’Ancien régime sono state certamente un potente indicatore di conflittualità sociale, tuttavia il significato politico di tali azioni è spesso subordinato a quello scenico, comunque condizionato dalla rivendicazione delle briciole, di un piccolo spazio di sopravvivenza, senza grandi orizzonti. Detto questo in termini molto stringati e banali, sarà anche necessario specificare che, pur nel grave e progressivo accrescersi delle diseguaglianze, non è possibile paragonare la nera miseria che ha attanagliato anche questo Paese fino al secondo Dopoguerra con l’odierna condizione della maggior parte della popolazione occidentale, ambito dal quale parliamo. Di tali cornici credo valga la pena di tenere conto, senza troppo farci condizionare da visioni eccessivamente miserevoli che sottostanno a logiche assistenziali che non ci appartengono.
È completamente vero che all’interno degli ambiti teorici e politici di movimento sembra crescere l’attenzione per quella che Antonio Alia, in un ottimo articolo pubblicato su Commonware, ha definito “politica del bisogno”: si intende con essa un insieme di “pratiche sociali che si pongono prima di tutto, se non esclusivamente, il problema del soddisfacimento di un bisogno (la salute, la liquidità, una buona alimentazione, ecc.) che il mercato o lo stato non riescono a garantire”.
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La violenza torna sempre a casa
Intervista ad Arun Kundnani
A seguito degli attacchi di Parigi, quali sono le tragiche e più logiche conseguenze di una guerra senza confini fisici? Arun Kundnani, autore di The Muslims are coming! edito da Verso, si occupa di terrorismo e di politiche di contrasto all’estremismo nel Regno Unito e negli Stati Uniti. In questa intervista spiega e critica le ramificazioni della guerra al terrore, partendo dalla retorica – liberale o conservatrice – utilizzata da intellettuali e commentatori, e arrivando alle teorie sul radicalismo che hanno alimentato i programmi antiterrorismo in Occidente. Secondo Kundnani, l’unica vera alternativa al jihadismo è rappresentata da una politica anti-razzista, anti-imperialista e anti-capitalista.
***
Il mondo intero è adesso una zona di guerra? E come si relaziona questa idea con la retorica della guerra al terrore?
La promessa della guerra al terrore era che noi saremmo andati ad ammazzarli “laggiù” così che loro non ci avrebbero ucciso “quaggiù”: la violenza di massa in Iraq, Afghanistan, Pakistan, Palestina, Yemen e Somalia – è stata compiuta in nome della pace in Occidente. “L’autorizzazione a utilizzare la forza militare”, approvata dal Parlamento americano dopo l’undici settembre, aveva già identificato nell’intero globo il campo di battaglia per la guerra al terrore; e Obama continua a farsi forte di ciò per conferire una parvenza di legalità al suo programma di uccisione tramite droni.
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Euro, quelli che il “declino parte da lontano”
di Alberto Bagnai
Poveri euristi!
Glielo ha detto in faccia perfino Frits Bolkestein, uno degli artefici del Mercato Unico: “L’Unione monetaria è un esperimento fallito”. È successo a Roma, il 12 aprile, al convegno di a/simmetrie, dove 500 persone e un consistente drappello di imprenditori, sindacalisti e politici (Alemanno, Boghetta, Crosetto, Fassina, Messina, Salvini) hanno preso atto di questo certificato di morte e delle sue motivazioni: nel Nord Europa non esiste alcuna volontà di dar seguito a un progetto federale, al famoso “più Europa”, all’unione politica, per il semplice motivo che i contribuenti del Nord, istruiti da anni a ritenere che la crisi sia colpa del Sud, non hanno alcuna voglia di metter mano al portafoglio per contribuire a sanare gli squilibri europei in modo solidale. Certo, il vicepresidente della Bce, Vitor Constancio, ha detto che in realtà la colpa di questo disastro è dell’atteggiamento irresponsabile delle banche del Nord. Ma questo, ovviamente, è un altro paio di maniche: l’elettore va dove propaganda vuole, e al Nord sono degli esperti nel settore…
Poveri euristi, ottusi seguaci di un progetto fallimentare e mortifero!
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