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lanatra di vaucan

La storia della terza rivoluzione industriale

3 - L’abdicazione dello Stato

di Robert Kurz

Pubblichiamo il terzo capitolo della sezione VIII dello Schwarzbuch Kapitalismus (“Il libro nero del capitalismo”) di Robert Kurz

Crystal Palace interior.previewSe paragonato all’oggettività della «crisi della società del lavoro», delineatasi negli ultimi due decenni del XX secolo, il «consenso globale sull’economia di mercato», costituitosi con forza in quello stesso periodo, andrebbe giudicato solo come un sintomo della sempre più grave incapacità mentale delle istituzioni capitalistiche e dei relativi rappresentanti ideologici. Questa cecità di fronte alla realtà, un vero e proprio flagello collettivo, può essere spiegata in parte con la specifica costellazione della storia del dopoguerra.

Sul piano della teoria economica e su quello politico la dottrina keynesiana era riuscita ad imporsi con forza come reazione alla Grande depressione dell’epoca tra le due guerre; nella contrapposizione tra i sistemi con il blocco orientale essa caldeggiò la concessione di misure sociali. Inoltre perlomeno un settore delle élite funzionali capitalistiche era giunto alla conclusione, collegata più o meno saldamente al keynesismo, che il «consumo di massa di investimento» di beni di consumo durevoli fosse ormai un’architrave del sistema e dovesse quindi essere garantito dallo Stato. per questa via fu certamente possibile procrastinare il boom fordista oltre i suoi limiti interni. Ma come si intervenne allorché divenne chiaro che il sistema monetario iniziava nuovamente ad essere afflitto da un’inflazione drammatica e che quindi anche il keynesismo aveva fallito? Si ritornò al passato definendolo progresso.

Infatti il pensiero capitalistico, accanto al classico liberalismo economico – che risaliva ai fisiocratici, a Smith, Ricardo e Say – aveva prodotto solo la dottrina di Keynes (oltre che, in un ramo collaterale, il capitalismo di Stato integrale della «modernizzazione di recupero») come sintesi delle tendenze verso l’economia controllata dallo Stato a partire dal tardo XIX secolo, e in questo modo aveva esaurito ogni freccia al suo arco. Sul terreno del modo di produzione capitalistico non esiste una terza possibilità.

Questo perché il sistema è in grado di trovare una soluzione alla sua contraddizione intrinseca solo alternando meccanicamente gli alienanti poteri repressivi dello Stato e del mercato; una volta fallite entrambe le possibilità lo spazio di manovra delle sue istituzioni non poté che annullarsi.

In altri termini il fallimento conclamato del keynesismo significava l’ammissione del fallimento storico completo del modo di produzione capitalistico. Ma gli ideologi e l’élite funzionale del capitalismo questa ammissione non se la permisero mai. E così restò solo una cosa da fare: imboccare a ritroso la via verso il liberalismo puro, indicata da Dahrendorf durante il XXI Congresso dei sociologi tedeschi, ad onta dell’esperienza e nella più totale malafede; perseguendo la più insensata delle scappatoie, che si volle battezzare come via verso la libertà.

Nel giro di pochi anni l’oblio patologico nei confronti della storia capitalistica, già professato da Dahrendorf, si trasformò in un fenomeno globale. Nella sua marcia trionfale la società borghese riesumò il cadavere del vecchio liberalismo economico del XVIII e XIX secolo, ormai defunto da tempo immemorabile, annunciando a gran voce, in virtù di questo mucchietto di ossa dottrinali, un radioso futuro per l’economia di mercato e un nuovo vertiginoso ottimismo, che in realtà si contorceva per il dolore. Pertanto l’inizio della crisi fondamentale del «lavoro astratto» – e quindi del capitalismo – coincise con una svolta ideologica, che oggi denominiamo come «rivoluzione neoliberale» o «controrivoluzione neoclassica». Si parla anche, non a caso, di una «radicalizzazione del liberalismo» e, in effetti, il ritorno di questa dottrina già liquidata da tempo, sia sul piano teorico che su quello pratico, rappresenta un’autentica ingiuria fondamentalista alle facoltà intellettuali umane.

E ancora una volta non fu assolutamente causale il fatto che il radicalismo di mercato neoliberale si impose politicamente prima di tutto nei paesi anglosassoni in quanto era proprio lì che questa teoria si era originata, conservando per giunta una vitalità più durevole e una presenza più visibile rispetto ad altri paesi anche durante l’ascesa dell’economia di Stato capitalistica. Negli USA, durante la presidenza dell’ex-attore hollywoodiano Ronald Reagan (1980-1988), e in Gran Bretagna, sotto il governo conservatore di Margareth Thatcher (1979-1990), il nuovo fondamentalismo capitalistico venne addirittura promosso a religione di Stato che, a partire da queste potenze-guida del capitale globale, si diffuse in un batter d’occhio su tutta la Terra. Naturalmente la «rivoluzione» neoliberale-neoconservatrice, che condannò, sul piano politico e istituzionale, l’epoca socialdemocratica keynesiana, aveva un proprio retroterra teorico e, per certi versi, strategico. Infatti il liberalismo economico classico, anche durante l’epoca del New Deal, dell’economia di guerra e infine del boom fordista, nonostante sembrasse ormai fuori dai giochi, aveva mantenuto pur sempre la sua inossidabile comunità di credenti, continuando a svilupparsi anche se, per così dire, all’ombra del keynesismo. Questo neoliberalismo ebbe il suo patriarca in Friedrich August von Hayek (1899-1992), fino ad oggi il più coerente e dottrinario dei teorici neoliberali, che iniziò a predisporre la controrivoluzione del radicalismo di mercato già negli anni Quaranta, prima ancora che il keynesismo si fosse imposto come modello regolativo. Anche Hayek, completamente cieco di fronte ai fatti come tutti i dottrinari (che si illudono sempre di combattere astrattamente e con tanta più energia ogni dogmatismo, quanto più ne professano uno proprio in maniera monomaniacale), fin dal principio non lasciò adito al benché minimo dubbio circa la propria rappresentazione capovolta del mondo. Infatti Hayek non volle interpretare la crescita continua dell’apparato di regolazione dell’economia di Stato come la reazione inevitabile alla contraddizione intrinseca del processo capitalistico foriero di crisi, ma preferì imputare perlomeno le grandi crisi, i crolli e le catastrofi sociali a una deviazione peccaminosa dell’umanità dalla «dottrina pura» del liberalismo originario, causata dall’«eccesso di benessere»:

A causa […] di pretese irragionevoli, però superficialmente giustificate dal miglioramento già conseguito nella condizione materiale, alla svolta del secolo ebbe inizio l’abiura progressiva alla fede nei principi fondamentali del liberalismo […] Si rivolse l’attenzione unicamente verso le nuove pretese la cui rapida soddisfazione, apparentemente, si poneva in contraddizione con l’osservanza dei vecchi principi. Si diffuse sempre più la convinzione che non fosse possibile attendersi un progresso rinnovato, nelle vecchie linee di sviluppo, sotto il regime che lo aveva reso possibile nel passato, ma che esso potesse venire solo da una completa riorganizzazione dell’ordine sociale. In discussione non c’era più il completamento o il perfezionamento della macchina che già c’era, ma la sua dismissione, come se si trattasse di un ferrovecchio, e la sua sostituzione con una macchina diversa […] Mano a mano che diminuiva la comprensione circa il modo di funzionamento della libera economia di mercato si smarriva gradualmente anche il riconoscimento di ciò che era legato alla sua esistenza […] Secondo le idee che oggi vanno per la maggiore non si tratterebbe più di ottenere la maggiore utilità dalle libere forze di una libera società. Di fatto la nostra epoca si è ha deciso di rinunciare a quelle forze assieme ai loro effetti imprevedibili e di servirsi della direzione collettiva e «cosciente» di tutte le forze della società, in nome di fini ben specificati, invece che del meccanismo impersonale e anonimo del mercato […] Sconcertante è il fatto che questo stesso socialismo – già precocemente identificato come il più inquietante nemico della libertà e i cui esordi, per giunta, furono una chiara reazione al liberalismo della rivoluzione francese – gode di riconoscimento universale proprio sotto lo stendardo della libertà […] Il semplice cambiamento cui andò incontro il significato della parola libertà, per conferire all’argomento forza di persuasione, è di enorme rilevanza. Per il grande apostolo della libertà politica questa parola significava la liberazione dal dispotismo, la liberazione dall’arbitrio altrui […] La nuova libertà che venne proposta è invece una libertà dalla necessità, una liberazione dalla costrizione di quelle circostanze che concedono a tutti noi solo una scelta limitata per i beni elementari, anche se per gli uni molto maggiore che per gli altri […].1

Naturalmente un tale concetto di libertà, ossia la libertà dalla necessità sociale, per il neoliberalismo hardcore non era in alcun modo tollerabile. Hayek demonizza senza mezzi termini la ragionevole pretesa elementare che la società si regoli in maniera autonoma e cosciente (significativamente egli mette questa parola tra virgolette con un’intenzione peggiorativa) invece di essere regolata da un meccanismo di mercato anonimo e incosciente. Nella sua forma finora più pura, ben al di là dei classici del liberalismo, viene alla luce qui il fondamento primordiale dell’anti-ragione liberale: la pretesa di una socialità cosciente rappresenta un peccato contro lo Spirito Santo di una macchina sociale, asociale e cieca, descritta regolarmente nei termini di una legalità naturale oggettiva.

Hayek è però il primo ad esprimere queste idee fondamentalmente irrazionali in maniera cristallina e con un’enfasi quasi ingenua invece di dissimularle; ma solo allo scopo di legittimare una dichiarazione di guerra intrinsecamente assurda contro un Io sociale cosciente che egli concepisce una «direzione cosciente» delle risorse solo nella forma della pianificazione statale leviatanica da parte di un’«autorità» di comando. Sotto questo punto di vista la sua concezione si situa comunque nel solco di tutto il pensiero della modernità, incluso quello socialista/comunista. E così Hayek pone sul piatto della bilancia l’insulsa dialettica liberale che oppone in modo singolare l’«uguaglianza» (alias «sicurezza sociale») da una parte e la «libertà» (alias «individualismo» o «libera concorrenza») dall’altra, per poi decidere in maniera estremistica a favore della presunta «libertà».

Ma così facendo Hayek non fa che tematizzare inconsapevolmente la contraddizione interna del liberalismo stesso, trasmessa come un’eredità insana anche al pensiero socialista, e rimanda alla struttura dissociata, irrazionale di un sistema produttore di merce chiuso; è proprio questa struttura ad impedire che l’impiego delle risorse sociali venga deciso e organizzato coscientemente dai membri della società per la riproduzione comune della vita, cosicché quest’ultima si contrappone loro come una struttura ingovernabile, pseudo-naturale, nella forma della cosiddetta economia; ne consegue la scissione delle relazioni sociali reali in un’attività atomizzata e astrattamente individuale all’interno del sistema dei mercati anonimi da una parte e in seno all’apparato di amministrazione statale degli uomini dall’altra; esso deve disciplinare i presupposti, i danni e gli effetti collaterali di questa forma di riproduzione distruttiva e rendere possibile la negoziazione in forma democratica delle alternative preformate dal cieco processo sistemico.

Su nessun lato di questo rapporto esiste la benché minima parvenza di libertà, ossia di autodeterminazione circa le proprie attività. Per sua natura lo Stato, anche in presenza di elezioni democratiche, resta pur sempre il mostro leviatanico – un apparato estraneo agli individui che regola la loro vita in ossequio ai criteri del sistema capitalistico; gli uomini non «sono» lo Stato, ma gli oggetti della sua gestione. D’altro canto neppure gli uomini degli apparati dello Stato, dalle più alte cariche del sistema politico fin ai più semplici amministratori locali, sono i soggetti di questa amministrazione degli uomini, in cui potrebbero esercitare la propria volontà, ma si riducono a funzionari esecutivi e «forza-lavoro» (giuridico-statale). L’apparato come tale, anche se composto e diretto da uomini, costituisce una struttura kafkiana che supera ogni volontà e ogni possibilità decisionale, poiché il suo funzionamento è già plasmato fin dal principio sul modello di un’economia irrazionalmente autonomizzata.

Potendo immaginarsi la «coscienza sociale» solo nella forma del Leviatano (ereditata dal liberalismo) i socialisti non fecero che rovesciare il progetto della coscientizzazione umana in un disciplinamento autoritario, burocratico del materiale umano. Non aveva poi torto più di tanto Hayek quando denunciava il paradosso del capitalismo di Stato, sia nella sua versione «forte», quella dei regimi della modernizzazione di recupero, sia nella versione «debole», quella della regolazione keynesiana occidentale, come «organizzazione repressiva della società» e come «via verso la schiavitù» (che era il titolo di un suo libro del 1945).

Tuttavia l’altro lato della struttura capitalistica dissociata, l’economia dei mercati anonimi, è una via altrettanto sicura verso la schiavitù. Gli individui della «libera» volontà economica sono già aprioristicamente alla mercé delle cieche «leggi del mercato» e meramente definiti come «forza-lavoro». La loro assurda «libertà» consiste solo nel sottomettere la propria esistenza al giogo dei mercati del lavoro, nella riduzione a lavoratori forzati della «bella macchina», cui non è lecito sollevare questioni circa il senso e lo scopo di tutto il processo, né tantomeno circa il proprio benessere. Questa circostanza elementare della servitù economica venne messa in luce in termini molto chiari da Gunther Anders, più di trent’anni dopo, alla soglia della nuova grande crisi:

Privo di libertà egli (l’operaio) non è soltanto per il fatto di essere escluso dalla proprietà dei «suoi» mezzi di produzione o dei «suoi» prodotti, ma anche perché non è in grado di misurare la totalità del contesto di produzione in cui è integrato; né di conoscere il prodotto finale e la destinazione di quest’ultimo (ambedue le cose restano, in qualche modo, «trascendenti»); né le qualità morali o immorali del «suo» prodotto; né chi ne beneficia, ne usa e ne rimane vittima. Tutto questo – incluso il suo stesso lavorare – ha luogo in certo qual modo dietro le sue spalle. Così accadde a me e alla squadra con la quale lavoravo, già più di trentacinque anni fa, in una fabbrica californiana. L’unica cosa che vedevamo «davanti a noi» era il pezzo di prodotto ch’eravamo stati mandati lì a «trattare», che si avvicinava e poi subito riscorreva via da noi; e noi non desideravamo più né sapere né vedere di più, la curiosità ci era stata tolta artatamente; ci mancava ogni interesse per il nostro fare – perché poi avremmo dovuto sapere o vedere di più, cosa ne avremmo ricavato? Soprattutto noi non dovevamo avere alcun interesse per ciò che eseguivamo, dovevamo lavorare senza scopo. Se uno di noi avesse domandato al caposquadra, o a chiunque altro, qualcosa sullo scopo del nostro fare, nel migliore dei casi sarebbe passato per un tipo strano – that’s none of your damned business, non sono affari tuoi – e un paio di anni più tardi, nel periodo di McCarthy, sarebbe stato considerato un security risk.2

Esiste forse una servitù peggiore di quella di chi è costretto a sacrificare la maggior parte delle sue giornate, delle sue settimane, dei suoi anni, della sua stessa vita non consacrata al sonno, al dispendio della propria energia, per uno scopo sostanziale e sociale su cui egli non può esercitare autodeterminazione alcuna? Sul lato della democrazia e dello Stato l’uomo capitalistico astrattamente «libero» è il mero oggetto di un’amministrazione umana totale, mentre su quello del mercato e dell’economia privata non è altro che un soldato del lavoro, vincolato all’autorità e all’obbedienza, all’interno di un’unità combattente organizzata in maniera quasi militare, nella «guerra totale» della concorrenza universale, la cui attività obbedisce a regole che lo degradano a organo esecutivo privo di autonomia. Deve rischiare la pelle per scopi estranei, che gli hanno inculcato con la forza. Così il «libero» individuo non è altro che un servo, che palesemente può scegliersi i suoi «padroni» sia nella politica che nell’economia. Ma questi «padroni» sono solo a loro volta i servi della «bella macchina», sia sul piano economico che su quello politico-democratico, mera «forza-lavoro direttiva» al servizio di un fine-in-sé mostruoso, che rende anche le loro azioni eteronome e obbligate.

La libertà consiste unicamente nel fatto che gli uomini, associati nella riproduzione della loro esistenza, possano farlo di loro spontanea volontà, così come discutere e deliberare in maniera comune circa il suo contenuto e le sue modalità. Tale criterio – fugacemente emerso nelle idee consigliari ma poi fallito a causa dell’insufficienza della critica del «lavoro astratto» e delle relative forme capitalistiche di relazione – appare inesausto come il sogno di una società fondamentalmente nuova. Questa libertà, diametralmente opposta all’universale servitù liberale sotto il dettato dei mercati del lavoro, sarebbe praticamente possibile su ogni livello ed aggregazione della riproduzione sociale – dall’economia domestica fino all’interconnessione transcontinentale della produzione. Naturalmente sono pur sempre necessari a questo scopo istituzioni mediatrici, senza che però esse trasgrediscano il criterio.

Sul piano tecnico e organizzativo non sussisterebbe alcun problema, oggi meno che mai, visto che la tecnologia della comunicazione si è sviluppata parallelamente al grado di interconnessione e di socializzazione, nell’industria come in tutti gli altri settori. Affinché i membri della società possano concorrere a una discussione e a una decisione sull’impiego delle risorse comuni non è necessaria nessuna «autorità» esterna, nessuna burocrazia e nessun governo mondiale, soprattutto nessun «centro onnisciente» (l’artefatto di ogni ideologia leviatanica di pianificazione statale), perché grazie all’ausilio dei più moderni mezzi di comunicazione e delle tecniche di interconnessione il «centro» può essere subito ovunque.

Ripensiamo alla «buona verticale» e alla «cattiva orizzontale» di Gottl-Ottlilienfeld. Sia l’amministrazione statale degli uomini, sia l’organizzazione economica sono, in ultima analisi, sempre orientate verticalmente; le istituzioni del sistema della merce, per loro essenza, sono il frutto della riorganizzazione sociale da parte dei dispotismi militari protomoderni. E poiché questa struttura verticale di dominio è connaturata al fine-in-sé della «bella macchina», né la democrazia politica, né un management «egalitario» apparentemente degerarchizzato, hanno la benché minima possibilità di cambiare qualcosa; abbiamo a che fare qui solo con un metodo benthamiano, che colloca la struttura verticale di dominio e repressione nell’interiorità degli individui stessi. La liberazione sociale presuppone lo scatenamento della «cattiva orizzontale» (che naturalmente è «cattiva» solo dal punto di vista della «forma-scopo» irrazionale del capitale), ossia la comunicazione diretta di tutti i partecipanti per determinare gli scopi del proprio agire conformemente alle proprie necessità, prima che questi scopi siano già stati fissati. Per questo è necessaria solo una quota sufficientemente grande di tempo sociale, libera dagli impegni della produzione immediata. Nei primi stadi dello sviluppo delle forze produttive questa socializzazione diretta, comunicativa, «orizzontale» verrebbe scambiata per una restrizione della produzione. Questo non significa però che una società priva di una struttura verticale di dominio sarebbe stata logicamente impossibile nel passato. Infatti un dispendio comunicativo relativamente elevato, anche nelle condizioni di uno scarso sviluppo delle forze produttive, non avrebbe mai ucciso nessuno per fame; lo stesso sviluppo delle scienze naturali, della tecnica etc. – contrariamente alle tesi del pensiero borghese a partire da Kant – non si sarebbe affatto arrestato, avrebbe avuto un decorso sicuramente più lento ma meno catastrofico. Il fatto che la storia umana fino ai nostri giorni, incluso il capitalismo, si sia sviluppato in forme feticistiche sociali autonomizzate e quindi attraverso strutture di dominio verticali, in grado di monopolizzare una parte sempre maggiore di tempo sociale in modo irrazionale e enormemente distruttivo, non è una «necessità oggettiva», ma solo una circostanza empirica.

Comunque sia, la terza rivoluzione industriale sfocia in un limite non solo del capitalismo ma anche di tutta la storia precedente, poiché esso ha ampliato così repentinamente la quota di tempo sociale, al punto che esso non può più essere monopolizzato positivamente da una minoranza nella struttura delle forme di dominio feticistiche, ma si manifesta solo negativamente come catastrofe sociale della «disoccupazione di massa strutturale». Si comprende così assai bene, in modo catastrofico, come il tempo sociale oggettivamente disponibile (sul piano tecnico e materiale) sia più che sufficiente per una socializzazione universale «orizzontale» che esige meno tempo per la produzione dei beni, in cui tutti i membri della società partecipino costantemente ai processi comunicativi e decisionali circa la mobilitazione sensata delle risorse, disponendo inoltre del tempo necessario per scopi individuali liberamente scelti. Una possibilità che è allo stesso tempo anche una condizione: la quota gigantesca di tempo può essere utilizzata positivamente solo mediante una socializzazione «orizzontale», capace di liquidare in egual misura lo Stato e il mercato, non più incastrata nella struttura schizoide di una polarità irrazionale, ma che sia in grado di superare al suo interno, in maniera «unipolare», cioè direttamente comunicativa, la politica e l’economia.

Ma l’urlo agghiacciante per i «posti di lavoro» sovrasta la voce della ragione ed è già il segnale che la coscienza sociale dominante non vuole sapere nulla della libertà sociale. Non desta quindi stupore il fatto che il pendolo congiunturale della coscienza dopo il naufragio dell’economia di Stato oscilli di nuovo verso il crudo liberalismo e quindi verso il concetto di perverso di «libertà» economica. Un’oscillazione che Hayek aveva già preparato durante la transizione verso il keynesismo, prevedendo con ciò che il ritorno del liberalismo sarebbe stato possibile solo al prezzo della sua «radicalizzazione». Le illusioni liberali del XVIII secolo e della prima parte del XIX secolo, a lungo confutate dallo sviluppo capitalistico, poterono risorgere, proprio per questa ragione, solo in una versione estremistica.

In sintesi Hayek si comporta come aveva fatto in precedenza il socialismo, muovendosi però nella direzione opposta: infatti il socialismo aveva tentato di sciogliere l’insolubile contraddizione intrinseca del capitalismo e quindi dell’ideologia liberale, assolutizzando il polo leviatanico e permettendo che lo Stato come imprenditore generale inghiottisse il mercato, mentre Hayek, al contrario, intendeva dissolvere lo Stato nel mercato, per giunta ben oltre rispetto a quanto predicassero le precedenti idee liberali. I latrati antisociali dell’archetipico linguaggio liberale riecheggiarono nel premuroso gergo accademico quando Hayek, il 6 febbraio del 1979, ormai al principio della nuova crisi globale del capitalismo, nell’aula magna dell’Università di Friburgo, fece questa confessione:

Ciò che è «sociale» non rappresenta per me un ideale ben definibile, ma ai giorni nostri serve solo a impoverire sempre più di contenuto le regole della nostra società, cui dobbiamo il nostro benessere […] Sono costretto ad ammettere, a costo di suscitare il vostro sconcerto, di non essere in grado di pensare in maniera sociale, perché non so cosa significhi.3

Hayek mirava semplicemente alla distruzione dello Stato sociale e regolativo keynesiano, ancor prima che esso venisse a buon diritto edificato; pretendeva la totale ritirata dello Stato anche da funzioni che perfino i liberali classici non avrebbero mai osato contestare o che nel frattempo erano state accettate giocoforza anche dal liberalismo. Tra le altre cose vi era, non da ultimo, la richiesta di liquidare di nuovo il sistema monetario statale e di instaurare una «libera concorrenza» tra battitori di moneta al posto delle monete nazionali Tuttavia Hayek non rimase privo di compagnia, neppure nell’epoca keynesiana. L’allievo del vecchio «mangia-socialisti» liberale Ludwig von Mises (1881-1973) a Vienna, che gli succedette alla direzione del locale Istituto per lo studio delle congiunture dal 1937-31, seminò il terreno alla London School of Economics (1931-1950), all’Università di Chicago (1950-1962) e, a partire dal 1962, all’Università di Friburgo – altrettanti centri di quel neoliberalismo che sarebbe diventato più tardi la potenza ideologica mondiale. Interamente nel solco del maestro, gli allievi di Hayek e poi i rispettivi allievi intervennero nel dibattito con sempre maggiore ardore; si prenda ad esempio il capo della Scuola di Chicago, Milton Friedman (1912) nel suo libro Capitalismo e libertà:

Poche tendenze dello sviluppo hanno il potere di sgretolare le fondamenta della nostra società libera come il postulato di una responsabilità sociale per gli imprenditori diversa da quella di massimizzare l’utile per gli azionisti.4

Questa radicalizzazione si è spinta fino a un punto tale da non risparmiare più neppure Adam Smith, il patriarca liberale della moderna scienza dell’economia politica, che venne accusato di eresia dall’estremista liberale americano Murray Rothbard, come osserva una sbigottita recensione del Financial Times:

Adam Smith fece regredire di un secolo il progresso della teoria economica, preparò la strada agli orrori del marxismo. Questa vigorosa critica si trova nei due volumi dell’opera di Murray Rothbard […] Scomparso nel 1995, Rothbard fu uno dei pochi economisti americani che si riconobbe nella tradizione austriaca di Ludwig von Mises e di Friedrich Hayek […] A giudizio di Rothbard, Adam Smith non merita affatto la sua fama di seguace della libera economia di mercato. Rothbard accusa Smith di avere promosso non solo la costruzione di alloggi pubblici e il sistema scolastico statale, ma anche la regolazione del sistema bancario, la progressività delle imposte, rigide leggi anti-usura e numerosi altri interventi dello Stato. Comunque le si osservi le idee di Smith sono da considerare un regresso rispetto al liberalismo ortodosso […].5

La «gioventù selvaggia» della scuola neoliberale assunse toni altrettanto aspri; dalle parti di Chicago le cose restarono in famiglia: nella dedica del suo Capitalismo e libertà (1962) Milton Friedman aveva già lanciato il figlio David, cui volle trasmettere il compito di «portare la fiaccola della libertà negli anni a venire»; incarico che fu portato a termine undici anni più tardi grazie alla pubblicazione di un saggio che reca significativamente come titolo The machinery of Freedom. L’idea genuinamente benthamiana della «macchina della libertà» viene condotta al suo esito estremo:

Chi accusasse il figlio del Nobel Milton Friedman di nostalgia per lo Stato-sentinella notturna paleoliberale lo diffamerebbe visto che il nostro uomo, com’è logico, vorrebbe privatizzare perfino le guardie notturne. «Tutto ciò che i governi fanno può essere suddiviso in due categorie: i compiti che è già possibile sottrargli e i compiti che, speriamo, sarà possibile sottrargli un giorno», si legge nel suo libro […] Ad esempio, la lotta contro il crimine condotta dai privati sarebbe più efficiente di quella dello Stato. La vittima di un crimine si limiterebbe a cedere i propri diritti di indennizzo o di risarcimento per danni morali a un imprenditore privato che si metterà alla ricerca del colpevole – vivo o morto. Non ricorda forse i cacciatori di taglie del selvaggio West? E perché no, afferma Friedman, «quel sistema funzionava benissimo». Le sue idee sono estremistiche ma Friedman non è certo un caso isolato. Il capitalismo radicale è di gran moda in America […].6

Si delineano qui i contorni di una società terrificante, che neppure gli autori delle utopie negative della prima metà del secolo si sarebbero mai sognati. Non si tratta più del dominio totale, esercitato dall’onnipotente e onnipresente apparato dello Stato, ma di un regime del terrore non meno spaventoso che, in una società atomizzata, viene instaurato dai potenti interessi privati di tutte le istanze solvibili dell’economia di mercato. Al posto dell’onnipotente polizia segreta di Stato subentrano servizi di sicurezza privati, truppe d’assalto e guardie del corpo, «sceriffi neri»7 e squadroni della morte. E questa distopia speculare non viene presentata come un monito ma, in tutta serietà, come l’immagine positiva di una società così come essa dovrebbe essere.

Ma il neoliberalismo radicalizzato non fu affatto una questione specificamente americana, anche se questo patrimonio ideale trovò terreno fertile nel mondo anglosassone. La stessa carriera di Hayek ci dimostra fino a che punto la macchia fosse in grado di diffondersi. Nonostante le differenze la versione tedesca e svizzera del neoliberalismo, modellata da Walther Eucken (1891-1950) e Wilhelm Röpke (1899-1966), che fu la base teorica della politica economica di Ludwig Erhard, il ministro del presunto «miracolo economico» tedesco, si trovava pur sempre in relazione stretta con Hayek e i suoi allievi. Sia Eucken che Röpke avevano tratto dalla Grande depressione conclusioni egualmente orientate contro la dottrina keynesiana; essi ritenevano che la crisi fosse stata causata soprattutto dal fatto che la libera concorrenza non era stata garantita a sufficienza sul piano istituzionale mentre i suoi effetti benefici erano stati ostacolati dalla costituzione di monopoli. Essi richiesero pertanto che lo Stato creasse le condizioni di riferimento di una politica di ordine, che sostenesse il corretto funzionamento del meccanismo concorrenziale (tale variante neoliberale venne definita anche come «ordoliberalismo»); si dovevano inoltre limitare gli interventi dello Stato nei rapporti socio-economici, che mai avrebbero dovuto assecondare il modello keynesiano di un «socialismo degli investimenti» e del «deficit spending». La variante ordo-liberale fu più «moderata» rispetto al neoliberalismo radicale austro-inglese e statunitense; ma Hayek dispiegò il suo notevole talento nell’orientare verso la sua direzione le diverse posizioni neoliberali dal punto di vista della teoria politica e della strategia. Nel 1947, nella località di Mont Pélerin, in Svizzera, sotto la regia di Hayek, venne fondata la Mont Pèlerin Society, attiva anche ai giorni nostri, una specie di «brain trust» e, al contempo, di Ku-Klux-Klan intellettuale del neoliberalismo diretto ad accrescere a lungo termine l’influenza dell’estremismo economico capitalistico, come si legge in un beneaugurante resoconto, involontariamente rivelatorio, relativo al congresso del cinquantesimo anniversario:

Dal primo fino al dieci aprile del 1947 […] trentanove tra accademici, imprenditori e giornalisti si riunirono sul Mont Pèlerin, sulle alture di Vevey, su invito di Friedrich August von Hayek, per discutere delle sfide e delle minacce in una società liberale. Al termine di quei dieci giorni […] venne fondata infine – questo l’obiettivo che Hayek si era proposto – la società che porta il nome del luogo […] Questa associazione, a quei tempi ancora ristretta e limitata in gran parte all’Europa e agli USA, è diventata nel frattempo la patria intellettuale di più di 500 liberali in tutte le parti del mondo […] Ogni due anni la Società di Mont Pèlerin organizza in qualche località del globo il suo General Meeting, mentre nel periodo intermedio si tengono incontri regionali. Tali incontri servono alla discussione, sono rivolti solo ai membri dell’organizzazione, non a un pubblico più ampio. Questo «isolamento» rende la Società sospetta agli occhi di molti […] E così […] i media non sono ufficialmente ammessi e quei pochi giornalisti che fanno parte dell’organizzazione sono certamente autorizzati a a fornire un resoconto essenziale delle conversazioni, senza però entrare eccessivamente nei dettagli […].8

In maniera molto discreta la Società di Mont Pèlerin pratica uno zelante lobbismo sul piano della politica accademica, i suoi membri si sono aggiudicati posizioni-chiave nel mondo universitario. A questo proposito, l’assegnazione del Premio Nobel ad Hayek, nel 1974, e a M. Friedman, nel 1976 – al termine dell’effimero boom keynesiano-fordista – contribuì certo all’ascesa trionfale del nuovo estremismo economico. Tutto questo potrebbe indubbiamente passare per una «cospirazione mondiale» del radicalismo liberale, ma in queste cose, come sempre accade, si attribuisce un peso eccessivo alla volontà soggettiva. È inevitabile che in una società scissa, fondata su forme feticistiche irrazionali invece che sull’auto-coscienza comunicativa, non ci sia solo un dominio verticale ma anche cricche, conventicole e cordate, corruzione e mafia, cerchie informali e Ku-Klux-Klan di ogni genere; tutte queste organizzazioni però possono essere efficaci, anche nel campo scientifico e della politica sociale, se ad esse corrispondono congiunture «oggettive» economico-politiche e intellettuali.

Una semplice congiuntura teorica non avrebbe mai potuto ristorare il neoliberalismo come un rivolo di acqua fresca dopo un lungo periodo di siccità, sia nella teoria economica, sia nel favore delle elite funzionali del capitalismo. Ad una considerazione più attenta, la precedente «marcia trionfale» del keynesismo fu una vicenda assolutamente peculiare e, per certi versi, sfortunata. Infatti la «General Theory» era indubbiamente giunta troppo tardi per la crisi economica mondiale; sia la prassi economica del New Deal rooseveltiano, sia l’economia nazionalsocialista si collocavano senz’altro sulla linea della dottrina keynesiana, ma si trattò di una politica sorta in maniera spontanea e pragmatica, non certo dell’«applicazione» del contributo teorico di Keynes. Nel dopoguerra solo la generazione più giovane degli economisti, non ancora affermatasi nel mondo accademico, andrebbe giudicata in maggioranza come convintamente keynesiana; invece la vecchia generazione, che perlopiù conservò le sue cattedre, continuò a sostenere la teoria classica o, addirittura, già quella neoliberale.

Anche se la politica sociale ed economica dei governi, sotto la pressione del boom e delle sue necessità, per non parlare della concorrenza sistemica con il blocco orientale, aveva assunto sembianze sempre più keynesiane, che lo volesse o meno, dappertutto la teoria ufficiale non fu affatto il keynesismo quanto piuttosto un liberalismo confusamente modificato; in Germania fu l’«ordoliberalismo» di Eucken e Röpke, in maniera del tutto esplicita, a fungere da fondamento teorico per il costrutto dell’«economia sociale di mercato» di Ludwig Erhard. La situazione era pertanto paradossale, sia sul piano teorico che su quello della politica sociale: i governi giustificavano la loro politica economica con argomenti ispirati al liberalismo classico o perfino al neoliberalismo ma adottavano un atteggiamento sempre più keynesiano sul lato del «deficit spending»; quest’ultimo però non venne utilizzato, come nelle intenzioni di Keynes, per risolvere una crisi, bensì per accrescere e prolungare il boom: in parte attraverso la realizzazione di una base infrastrutturale per il capitalismo integrale, capillarmente esteso, che richiedeva enormi investimenti da parte dello Stato, in parte mediante misure di politica sociale tese a foraggiare il consumo di massa.

Quando finalmente i giovani economisti degli anni Quaranta, ormai incanutiti, riuscirono a conseguire posizioni di prestigio – quando cioè sembrava giunta l’epoca aurea del keynesismo – questa si volatilizzò nuovamente; infatti, pressoché simultaneamente alla vittoria del Nobel da parte di Hayek e Friedman, si ebbe l’intronizzazione del neoliberalismo radicale. Una strana storia che testimonia come il keynesismo, a prescindere dalle situazioni di crisi, rimase pur sempre il brutto anatroccolo della corporazione economica, della classe politica e delle élite funzionali capitalistiche, sebbene il suo programma fosse l’unico in grado di prolungare la vita del capitalismo, ad onta della sua autocontraddizione in processo, e di applicare in maniera totale alla vita sociale questo modo di produzione (per quanto fosse possibile).

Questa «ingratitudine» è il sintomo di un impulso ideologico profondo e di un atteggiamento fanatico della società capitalistica, che risale fino a Hobbes, Mandeville e via dicendo: la fede assolutamente illogica, da «dominatori», nella possibilità per il capitale di accumularsi illimitatamente grazie allo sfruttamento massimale di un materiale umano da mantenere e tormentare sostanzialmente nello status del «lavoratore povero». Si tratta proprio della considerazione microeconomica, meramente economica e pseudo-individuale, riproposta non a caso da Dahrendorf e che è «naturale» per il capitale. Questo perché si tratta dell’unica posizione possibile nella pratica mentre quella macro-economica, o addirittura rivolta alla società nel suo complesso, è solo virtuale e teorica e necessita dagli «attori economici» un elemento di riflessione a loro estraneo, che si pone in contrasto con il loro agire.

Essa è però pseudo-individuale proprio perché, a rigore, la può assumere solo un proprietario di capitale o un manager, mentre la stessa «individualità» economica applicata ai mercati del lavoro, a coloro che ne dipendono, conduce solo ad esiti grotteschi e autodistruttivi. Ma anche per il management la posizione «naturale», riferita all’individualismo dell’economia privata, sul piano macroeconomico e della società complessiva, sfocia in aporie che si ripercuotono sul livello delle singole imprese. L’«Es» economico del capitalismo, in opposizione ad ogni idea razionale, insiste nella sua oscura pulsione che lo spinge a trasformare il mondo in un gigantesco ammasso di merci e, allo stesso tempo, a schiacciare le masse su di un livello di esistenza minimale; chi pensa di distoglierlo da questa impossibilità logica, si cimenta in un’impresa quasi altrettanto promettente che convertire un predatore carnivoro al vegetarianesimo.

E così lo sfondo teorico per l’irruzione dell’estremismo neoliberale era già pronto da sempre; era necessaria solo una situazione economico-sociale che causasse il fallimento del keynesismo, anche in termini pratici, per scatenare il predatore. Per un’ironia del destino questa situazione coincise proprio con il fatidico insediamento al vertice del keynesismo, dopo una marcia faticosissima attraverso le istituzioni – da cui si vide nuovamente scalzato dopo pochissimo tempo. Infatti nel medesimo frangente in cui ci furono governi esplicitamente keynesiani negli USA, in Gran Bretagna e in Germania, mentre programmi analoghi guadagnavano terreno anche per lo «sviluppo» del Terzo Mondo, ebbe inizio una nuova crisi, che non solo mise fine al boom fordista ma annunciò anche il crollo del sistema industriale a palla di neve.9

Negli USA i presidenti del tradizionalmente liberal-progressista Partito democratico, John F. Kennedy e Lyndon B. Johnson, già nel 1960-68, con il programma della «Great Society», introdussero o consolidarono elementi di keynesismo nella politica sociale e nella regolazione statale, mai più revocati neppure sotto le presidenze più conservatrici dei repubblicani Richard Nixon e Gerald R. Ford (1968-76). Ma fu soprattutto l’amministrazione democratica di Jimmy Carter (1976-1980) che intraprese il tentativo di realizzare nuovi programmi sociali. Anche in Gran Bretagna il governo laburista guidato da Clement Attlee aveva attuato già nel 1945-51 programmi keynesiani e perfino nazionalizzazioni, che però in seguito vennero parzialmente vanificate dai conservatori, che governarono fino al 1964 con Winston Churchill e Harold Macmillan. A partire da quel momento laburisti e conservatori si alternarono al governo, sullo sfondo di aspri conflitti sociali; alla fine, nel periodo 1974-1979, salirono al potere i governi laburisti, spiccatamente keynesiani, di Harold Wilson e James Callaghan. In Germania al lungo periodo di governo conservatore di Konrad Adenauer e Ludwig Erhard subentrò una «Grande coalizione», fino ad arrivare ai governi liberal-socialisti di Willy Brandt e Helmut Schmidt (1962-82) con il loro forte orientamento keynesiano.

Tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, sotto la pressione della crisi inflazionistica, il keynesismo dei governi Carter, Callaghan e Schmidt subì un tracollo quasi simultaneo nei più importanti centri industriali. La «svolta» messa a punto da Reagan, Thatcher e Kohl rappresentò qualcosa di più di una mera alternanza di governo e molto di più di un cambiamento di politica; concretizzò quella virata improvvisa verso il liberalismo radicale, preparata da tempo e con sempre maggior successo dall’attività sotterranea della Società di Mont Pèlerin, mediante le sue molteplici relazioni con i partiti liberali e conservatori:

I membri della Società di Mont Pèlerin hanno regolarmente giocato un ruolo-chiave a partire dall’unione economica e monetaria (Ludwig Erhard) e dalla Scuola di Friburgo, attraverso il periodo reaganiano e il thatcherismo, che si giovarono di numerosi consiglieri provenienti dalle file dell’organizzazione, fino ad arrivare alla rivoluzione di velluto in Cecoslovacchia (Vaclav Havel) […]10

Soprattutto Reagan e la Thatcher incarnarono la grande eruzione, sospinta verso l’alto da una miscela esplosiva fornita dalla subliminale psicologia asociale delle élite capitalistiche e dalla crisi inflazionistica: «Come un mostro fuoriuscito da un’illustrazione dell’Apocalisse, il reaganismo balzò fuori dal recinto della «cintura del sole» americana […]».11 A rendere così seducente la svolta radicale per economisti e politici non fu solo la crescita a larghe falcate dell’inflazione in tutto il mondo ma anche la simultanea crescita della disoccupazione di massa, incomprensibile alla luce dei manuali economici. Un fenomeno che la teoria keynesiana non poteva più spiegare, né tantomeno risolvere. Infatti la micro-inflazione «dosata» del «deficit spending», già prevista da Keynes, avrebbe dovuto garantire automaticamente la piena occupazione. Su questo punto godeva di un certo credito la cosiddetta «curva di Philips», dal nome dell’economista britannico A. W. Philips, secondo cui inflazione e disoccupazione si trovano in un rapporto di proporzionalità inversa: all’aumento dell’inflazione doveva corrispondere una diminuzione della disoccupazione e viceversa. Il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt ne aveva tratto la deduzione programmatica secondo cui «cinque punti di inflazione erano meglio di cinque punti di disoccupazione». A quell’epoca però la curva di Philips si era rivelata un artefatto indifendibile: non solo l’inflazione minacciava di sfuggire ad ogni controllo ma anche l’effetto automatico sulla disoccupazione, che si presumeva legato alla crescita dell’inflazione, non sembrava funzionare più. E così la corona d’alloro si posò apparentemente sul capo di Milton Friedman, che aveva già previsto da tempo che non sarebbe stato più possibile tenere sotto controllo duraturo l’inflazione collegata ai meccanismi keynesiani, la quale, a sua volta, non avrebbe più frenato la disoccupazione. Allo Stato sarebbe spettato un unico compito in tema di politica economica: quello di garantire la stabilità monetaria (che fece guadagnare a questa teoria il nome di «monetarismo»), condizione indispensabile per il libero gioco delle forze di mercato, mediante un politica di alti tassi di interesse e una rigida disciplina di bilancio. Come Friedman non si stancò mai di sottolineare, la questione era piuttosto semplice:

Se la quantità di beni e servizi, che è possibile acquistare, ossia l’output, cresce altrettanto rapidamente della quantità di moneta, i prezzi rimangono stabili per principio […] L’inflazione nasce nel momento in cui la quantità di moneta cresce assai più velocemente dell’output complessivo. Quanto più rapidamente cresce la quantità di moneta per unità di output, tanto più elevato è il tasso di inflazione. Probabilmente nessun’altra legge della scienza economica è stata dimostrata nella maniera più incontrovertibile di questa. L’output viene limitato dalle risorse fisiche e umane disponibili e dalla situazione delle conoscenze e delle capacità di sfruttamento di queste risorse. Anche nel migliore dei casi l’output può aumentare solo lentamente […].12

In effetti è semplicissimo: il flagello dell’inflazione si scatena allorché la quantità di moneta cresce più velocemente di quella dei beni; pertanto, se si presta fede alla ricetta, occorre limitare la quantità di moneta così da adeguarla alla quantità dei beni. Naturalmente però bisogna risolvere prima una piccola questione: quale sarebbe questa «quantità reale dei beni»? Secondo Friedman, è la quantità di beni che è possibile produrre con le risorse fisiche e con le conoscenze e capacità umane a disposizione. Sul livello della politica sociale tutto sfocia nell’eterna predica neoliberale: «È possibile distribuire solo ciò che è stato prodotto in un certo periodo sotto forma di beni e servizi». Su questo punto il neoliberalismo si dimostra più ingenuo di quanto esso effettivamente non sia. Un’argomentazione altrettanto ingenua era stata avanzata da Fourastié circa la possibile riduzione dell’orario di lavoro attraverso l’aumento della produttività. Ma la produzione dei beni, così come il tempo di lavoro, sotto il dettato della razionalità economica, non è una grandezza riferibile alla potenzialità «naturale» delle forze produttive.

In altre parole: la quantità dei beni prodotti e distribuiti a seconda delle necessità non è mai equivalente a quella che sarebbe possibile ottenere sulla base delle potenzialità «naturali», delle risorse fisiche e delle conoscenze disponibili. Tale output invece viene determinato esclusivamente in base ai criteri del denaro, ossia dal processo della valorizzazione capitalistica. Come disse correttamente lo stesso Friedman: l’unica responsabilità sociale dell’imprenditore è massimizzare l’utile per gli azionisti della sua società. In questo senso la quantità «reale» dei beni non è affatto quella che corrisponde alle risorse materiali e tecnico-scientifiche bensì quella la cui produzione rispetta il criterio della cosiddetta redditività. A sua volta il livello della redditività viene stabilito attraverso il livello medio capitalistico complessivo del profitto (oggi su scala globale). Questo significa che perfino certi beni prodotti con profitto non sono «redditizi» se questo profitto si trova al di sotto dello standard di redditività. Pertanto può benissimo verificarsi l’assurda situazione per cui la produzione in larga misura «non redditizia» in senso capitalistico – anche di beni materiali funzionanti prodotti con mezzi fisicamente disponibili – distrugga «valore» economico invece di crearlo. Comunque sia, un’economia di mercato produce sempre molto al di sotto della sua capacità tecnica «naturale»; i mezzi di produzione non vengono realizzati conformemente alle possibilità tecniche, né le capacità prodotte vengono sfruttate al massimo in maniera corrispondente, anche in presenza di una domanda sociale urgente. È per questo motivo che, durante una crisi, si ha una paralisi su vasta scala dei mezzi di produzione mentre contemporaneamente la gente soffre la fame. Sotto la sferza della crisi economica Keynes temeva che questa assurdità «scandalosa» potesse suscitare una «rivolta» contro il capitalismo; fu solo per salvare il sistema, non certo per abolire questa assurdità, che egli pensò di aggirare furbescamente in qualche modo la calamitosa limitazione capitalistica delle forze produttive «naturali» mediante il «deficit spending»: attraverso l’indebitamento statale e la politica della diminuzione dei tassi di interesse la quantità di moneta, contro la logica capitalistica (economico-aziendale), si sarebbe adeguata alle possibilità produttive reali («naturali» in senso fisico) dei beni, garantendo così, in misura soddisfacente il consumo e l’occupazione.

Se questa «astuzia» avesse effettivamente oltrepassato il limite delle risorse fisiche e delle conoscenze umane disponibili allora neppure la creazione supplementare di moneta sarebbe servita naturalmente a nulla. Pertanto l’argomento di Friedman si confuta da solo: il suo unico significato è che, mediante il trucco keynesiano, possibilità produttive assolutamente reali erano state sfruttate «illegittimamente» oltre i limiti capitalistici. Il risultato finale, in termini di crisi, non si evidenzia dunque sul lato dei mezzi di produzione, apparentemente sfruttati oltre misura, ma (come dichiara lo stesso Friedman) sul lato del denaro, che si «svaluta» mobilitando mezzi di produzione materiali che, secondo l’anti-ragione capitalistica, avrebbero dovuto restare «giustamente» inattivi. Su questo piano la «curva di Philips» rappresenta solo un indicatore, valido solo temporaneamente, in grado di segnalare fino a che punto, nelle condizioni della Seconda rivoluzione industriale, la quantità di moneta si trovasse in relativa armonia con l’effettiva potenza «naturale» delle forze produttive senza che il sistema monetario rischiasse il disastro totale.

Il degrado progressivo di questo meccanismo era un indizio del fatto che la Terza rivoluzione industriale, ben al di là della situazione creata dalla precedente crisi economica mondiale, stava ampliando in maniera catastrofica lo squilibrio tra redditività economica e possibilità «naturali» delle forze produttive. Mentre la capacità produttiva tecnologica era aumentata repentinamente grazie alla razionalizzazione microelettronica, la disoccupazione di massa aveva ridotto il potere di acquisto nella stessa misura. Il tentativo keynesiano di aggirare la restrizione capitalistica delle possibilità e delle risorse fisiche mediante un’espansione «artificiale» della quantità di moneta insufflata, in presenza di un’elevata inflazione non funzionò più – un sintomo del fatto che le reali possibilità produttive stavano sfuggendo al criterio della redditività capitalistica e ad un ritmo sempre più frenetico.

A medio termine questo significa, in ultima analisi, solo una cosa: il capitalismo come mai in passato si trova di fronte alla «scelta» tra lo sfacelo totale inflazionistico e il collasso deflazionistico. Keynesiani e monetaristi sono solo i due poli di una contraddizione logica, ormai pronta ad esplodere; pertanto dalla loro contesa, nonostante il superficiale trionfo monetarista, non uscirà alla fine nessun vincitore, ma solo la bancarotta comune intellettuale e pratica.

La ricetta fin troppo semplice di Friedman propone solo di sostituire la crisi da inflazione con la crisi da deflazione. Egli afferma, in sintesi, che ad essere «naturali» sono solo le leggi capitalistiche di movimento del denaro – secondo Friedman l’unica forma in cui la società «può» mobilitare le sue risorse materiali – non i mezzi di produzione disponibili, le risorse fisiche e le potenze tecnico-scientifiche:

L’autorità monetaria può abbassare il tasso di interesse di mercato al di sotto del tasso naturale solo mediante l’inflazione. E può sollevarlo al di sopra del tasso naturale solo mediante la deflazione […] Questa analisi trova il suo immediato corrispettivo sul mercato del lavoro […] Un livello di occupazione più elevato è un segnale del fatto che vi è una domanda eccessiva di lavoro, che spinge verso l’alto i salari reali. Un livello di disoccupazione inferiore è l’indizio di un’offerta eccessiva di lavoro, che riduce i salari reali. In altre parole, il «livello di occupazione» naturale è quello in cui […] si instaura una situazione di equilibrio […] Come nel caso del tasso di interesse il livello di «mercato» può essere mantenuto al di sotto del livello naturale solo attraverso l’inflazione e, ancora una volta come per i tassi di interesse, solo attraverso un’accelerazione del processo di inflazione.13

Un tasso di interesse «naturale» e quindi una quantità di moneta «naturale» non possono che condurre a una disoccupazione «naturale» e quindi da mettere in conto. Con questo argomento Friedman esonera lo Stato dal compito gravoso e praticamente impossibile di garantire la «piena occupazione» e il consumo di massa.

Sia Friedman che i suoi accoliti si illusero di risolvere il problema in maniera speculare al keynesismo: quest’ultimo aveva presupposto erroneamente un livello determinato di inflazione, per così dire, «naturale», da tenere sotto controllo, mentre il monetarismo, all’opposto e altrettanto erroneamente, presuppone un livello corrispondente di disoccupazione «naturale». Questa illusione è dovuta al fatto che il monetarismo, come il keynesismo, pur essendo le loro conclusioni antitetiche, circoscrive il problema sul piano monetario su cui ritiene possibile una soluzione atemporale, «naturale»: in previsione ci sarebbe solo «l’igiene della politica monetaria invece dell’idraulica keynesiana».14 Entrambi però ignorano completamente che lo sviluppo incessante e irreversibile delle forze produttive, nel corso della storia delle tre rivoluzioni industriali, fa sì che le strade del sistema monetario e delle possibilità tecnico-scientifiche della produzione si separino sempre più nettamente, fino alla totale incompatibilità di queste potenze con la forma feticistica del denaro e con la riproduzione degli individui sui «mercati del lavoro». È solo questione di tempo perché la dottrina monetarista finisca alla gogna come quella keynesiana.

Ma la gilda degli economisti, così come, nel complesso, le elite funzionali del capitalismo, non sanno riconoscere i presupposti impliciti del moderno sistema della merce, le cui categorie rinchiudono il loro pensiero, rendendo loro impossibile una meta-riflessione «sulle» forme e i presupposti di questa società; essa farebbe implodere, assieme alla relativa prassi sociale, l’intera costruzione, realizzata nel giro di tre secoli, della cosiddetta scienza economica e metterebbe fondamentalmente in questione la necessità sociale delle elite funzionali, inclusa la classe politica. Fu così che per fronteggiare la nuova grande crisi su scala planetaria, si decise di assecondare neoliberalismo radicale, anche perché vi si associava l’idea gradita di soggiogare con ancor più forza gli uomini degradati a materiale umano.

E così, in ossequio alla dottrina monetarista, il riflusso sistematico e la liquidazione della regolazione keynesiana e del Welfare State divennero la tendenza sociale principale per il resto del XX secolo. La grande «svolta» nei paesi anglosassoni e in Germania fece di questa politica sociale il paradigma per gli altri centri capitalistici, che vi si accodarono con maggiore o minore entusiasmo; furono invece le istituzioni economiche internazionali, come la Banca mondiale e il FMI, ad imporla anche nel Terzo mondo, già in gran parte rovinato nel gorgo della crisi. Alla fine degli anni Ottanta il collasso del capitalismo di Stato del blocco orientale rinvigorì ulteriormente questo «consenso mondiale» neoliberale, cosicché la crisi venne presentata in maniera ancor più clamorosa come il frutto dell’aberrazione dell’economia di Stato.

Con le parole d’ordine della «deregulation» e della «privatizzazione» ebbe inizio allora, in un’inusitata orgia distruttiva, lo smantellamento delle strutture dell’economia di Stato, edificate in più di un secolo; un processo tutt’altro che giunto al termine. Anche questo sviluppo – che vede un capitalismo letteralmente impazzito distruggere tutte le sue garanzie e sgretolare tutte le sue condizioni di riferimento – si manifesta, proprio come la crisi della terza rivoluzione industriale, in una successione intermittente di spinte. Vennero privatizzate le industrie di Stato, laddove il Leviatano si era assunto il ruolo di imprenditore, nei paesi del capitalismo di Stato, nel Terzo mondo, ma parzialmente anche nei centri (soprattutto in Germania, Francia e Italia) al fine di controllare e difendere la propria industria (o alcune parti giudicate strategiche). Come se non bastasse persino interi settori dell’infrastruttura sociale furono sottomessi, costi quel che costi, al calcolo della redditività economica, rinnegando così la loro natura di condizioni per la società nel suo complesso, che dovevano funzionare indipendentemente dai cicli della congiuntura di mercato, come aveva già riconosciuto Adolph Wagner.

Ma gli obiettivi del maglio neoliberale furono soprattutto i settori dello Stato sociale e della cultura. Tutto ciò che non serviva direttamente alla valorizzazione doveva scomparire dalla faccia della Terra. Istituti scientifici e ospedali, giardini d’infanzia e teatri, piscine e musei, scuole e strutture sociali vennero chiusi in successione oppure finanziati in maniera talmente ridotta da limitare drasticamente il loro livello di funzionamento. Ovunque lo Stato centrale lascia che le municipalità si dissanguino finanziariamente e scontino la crisi dell’indebitamento dello Stato. Naturalmente affidare allo Stato la responsabilità dei più importanti settori sociali e culturali equivale pur sempre a mettere il lupo a far la guardia alle pecore. Ma nelle condizioni del modo di produzione capitalistico non può esistere nessun’altra struttura oltre allo Stato, che possa garantire perlomeno un grado minimale del livello di civiltà e mitighi le conseguenze distruttive della razionalità economica. La ritirata totale dello Stato, attualmente invocata e messa in atto, inizia già a segnalare la possibilità della completa degenerazione civile, del resto insita fin dal principio nel capitalismo. Questo degrado di civiltà viene alla luce in maniera grottesca anche nel quotidiano di un centro capitalistico come la Germania:

Pecunia non olet, il denaro non ha odore; lo si insegna da sempre ai ginnasiali durante le ore di latino. Ma ciò che i romani non potevano neppure sospettare, lo apprendono adesso i loro discendenti nelle pause tra una lezione e l’altra: maleodora il denaro che non c’è. In questo senso la Commissione per l’igiene degli spazi interni dell’Ufficio federale per l’ambiente lamenta la situazione catastrofica dell’igiene nelle scuole tedesche. Soprattutto il «settore igienico-sanitario» avrebbe risentito del fatto che le attività di pulizia nelle scuole «siano state ridotte ad un livello ormai inaccettabile». A causa della scarsità di denaro i comuni risparmiano sulla pulizia degli edifici scolastici […].15

Lo «Stato minimo», imposto con le buone o le cattive maniere, maleodora in modo scandaloso sotto ogni riguardo. È questo l’inevitabile risultato materiale dell’«igiene della politica monetaria». Le elite funzionali capitalistiche, ideologizzate dal neoliberalismo, sono pronte ad accettare, senza indugio alcuno, un processo esteso di degrado civile, poiché l’unica cosa che esse hanno a cuore è la sopravvivenza del sistema, per quanto irrazionali siano le conseguenze. Ma anche rispetto al salvataggio del sistema i dogmi dell’«igiene politico-monetaria», dello «Stato minimo», della deregulation e della privatizzazione generalizzata rappresentano solo formulette campate in aria. Non c’è dubbio: grazie all’ondata di privatizzazioni (la svendita dell’«argenteria» pubblica) lo Stato riempie provvisoriamente di denaro le sue esauste, ma in questo modo il problema non viene certo risolto, e l’effetto si esaurisce ben presto di nuovo. Il denaro «risparmiato» e gli «impiegati» pubblici licenziati non vengono utilizzati in maniera ipoteticamente più efficiente sul lato dell’economia «privata». I settori privatizzati delle infrastrutture vengono ridotti al loro nocciolo «redditizio» e cessano di adempiere alla loro funzione sociale generale; molti settori sociali e culturali semplicemente scompaiono.

Indubbiamente però gli onerosi investimenti statali e le retribuzioni degli impiegati dello Stato impegnati in questi settori, così come le risorse finanziarie del Welfare, rappresentavano allo stesso tempo, come i keynesiani sottolinearono a buon diritto, una domanda per i mercati dei beni, generando così una produzione reale. E se si fosse trattato davvero di una domanda simulata dalla politica monetaria e da una spensierata creazione di moneta, come affermano con forza i monetaristi, allora naturalmente la sua drastica riduzione non avrebbe colpito solo le finanze dello Stato, le retribuzioni dei funzionari e i sussidi sociali ma anche i volumi di mercato, i fatturati e gli utili delle imprese. In altre parole: nella stessa misura in cui il «sistema idraulico keynesiano» viene ostruito e i suoi rubinetti vengono intenzionalmente chiusi, anche la crisi minaccia di venire alla luce in tutta la sua reale portata, soffocando la riproduzione del sistema capitalistico. Il keynesismo fu il primo e, allo stesso tempo, l’ultimo progetto di salvataggio del sistema capitalistico, mentre il maglio neoliberale, contro ogni aspettativa, potrebbe radere al suolo non solo la «dittatura del Welfare» ma anche il capitalismo stesso. I costi indiretti dello smantellamento dello Stato sociale, delle chiusure, della privatizzazione e delle misure di austerità hanno superato già da tempo i risparmi, aggravando i costi della crisi invece di attenuarli. E così neppure un decennio e mezzo di demolizione neoliberale dello Stato ha saputo invertire in qualche modo la tendenza secolare espressa dalla «legge dell’espansione dello Stato» di Adolph Wagner, come dimostra un paragone a lungo termine fra tre paesi-chiave del capitalismo dalle differenti tradizioni:

Quota dello Stato in percentuale del Prodotto interno lordo:

Paese187019601994 
Germania 10 32 50
Svezia 6 31 69
USA 4 27 32

(Fonte: Fondo Monetario Internazionale/Wirtschaftswoche)

È evidente che la quota dello Stato non è cresciuta allo stesso modo ovunque a causa dei differenti retaggi e del differente sviluppo storico ma è comunque aumentata dappertutto così drasticamente che non può trattarsi assolutamente di una politica soggettiva quanto piuttosto di un processo strutturale oggettivo. La terapia d’urto neoliberale non potrà che peggiorare lo specifico potenziale di crisi, insito in questa situazione e scatenato dalla terza rivoluzione industriale. All’abdicazione dello Stato non potrà che seguire quella del mercato. Quindi la «morte» dello Stato avrà il significato di una liberazione, solo se assieme ad esso muore anche il capitalismo. Ma un capitalismo fuori controllo, incapace al contempo di garantire la riproduzione sociale, ripristinerà necessariamente lo stato di emergenza del suo «take-off» proto-industriale. «Padre Stato» getta la maschera, riducendosi al suo nucleo violento e repressivo mentre le onde della crisi avanzano ad un ritmo sempre più convulso. Non a caso lo stato di emergenza neoliberale venne sperimentato nel 1973 con la dittatura militare cilena; persino oggi Margareth Thatcher – sul cui conto si dice che «cammini con le sue scarpe di lusso sui cadaveri» – rivendica apertamente la sua amicizia con un mostro come Pinochet, che gettava dagli elicotteri gli oppositori di sinistra. Né tantomeno è un caso che la prima «riforma» di Ronald Reagan fu il trasferimento di 135 miliardi di dollari dal settore assistenziale a quello militare. Con l’inasprimento dello stato di emergenza la latente predisposizione alla violenza del liberalismo minaccia di manifestarsi anche all’interno mentre la fiducia stessa nella democrazia benthamiana inizia a sgretolarsi, come lascia intendere il congresso del cinquantesimo anniversario della Società di Mont Pèlerin:

Sebbene i membri della Società abbiano sempre preso partito fin dal principio, con convinzione, per la democrazia liberale […] non hanno mai perso di vista la testa di Giano della democrazia. In questo momento […] si fanno sempre più vive la percezione e la preoccupazione circa il fatto che la democrazia – indiscutibilmente l’espressione della visione liberale dell’uomo – racchiude simultaneamente al suo interno tutti quei meccanismi che sono in grado di restringere la libertà dell’individuo in favore di uno Stato privo di freni […] In generale è possibile dire che tutti gli sviluppi illiberali degli ultimi cinquant’anni sono avvenuti nonostante la democrazia e, forse, almeno in parte, anche a causa della democrazia […].16

Non sarebbe possibile esprimere più chiaramente l’idea secondo cui la democrazia, nella crisi della terza rivoluzione industriale, si rovescerebbe dall’interno nell’esplicito terrore di Stato contro i «superflui». Non perché il metodo democratico si ponga fondamentalmente in contraddizione col capitalismo ma perché sotto la minaccia di una crisi in grado di generare il collasso, non si può più fare affidamento neppure sui meccanismi benthamiani. Quando tutte le corde si spezzano e il materiale umano inizia a formulare strane idee, è necessario sveltire un tantino la procedura e il nocciolo dittatoriale occulto della democrazia deve tornare alla luce.

Ma laddove perfino il nucleo di potere dello Stato si è dissolto ma, nonostante ciò, l’economia monetaria continua a sopravvivere in forme criminali e avvilenti – conformemente ai sogni di un estremismo liberale alla David Friedman – regna già l’aperta barbarie. In vaste regioni del globo, dall’America Latina, all’Africa, all’Afghanistan, all’Asia Centrale, fino ai Balcani, il collasso della «modernizzazione di recupero», associata alle successive «terapie shock» neoliberali o alle restrizioni sociali imposte dal FMI, ha già precipitato la società in uno stato di terrore che neppure il terrore del protocapitalismo aveva mai sperimentato.


Continua...
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(Traduzione dal tedesco di Samuele Cerea)

Note:
1.Hayek, Friedrich A. von, Der Weg zur Knechtschaft, pag. 39 e s., 44 e ss.
2.G. Anders, L’uomo è antiquato. Libro II, pp. 82-83.
3.Hayek, Friedrich A. von, Wissenschaft und Sozialismus, 1979, pag. 16.
4.Friedman M., Capitalism and Freedom, 1962.
5.Prowse, Michael, Der Sturz des Adam Smith, Wirtschaftswoche 6/1997.
6.Piper, Nikolaus, Die unheimliche Revolution. Bewundert, gehaßt, gefürchtet – wie die Doktrin vom Laissez-faire-Kapitalismus in die Wirtschaft zurückkehrte, Die Zeit 37/1997
7.Erano così soprannominati per il colore delle loro uniformi gli agenti della ZSD, una celebre organizzazione di sicurezza privata in Germania. [Nota del traduttore]
8.Neue Zürcher Zeitung, 3/5/1997
9.Per sistema a palla di neve [Schneeballsystem] si intende un’organizzazione o un processo che esige una crescita continua per sopravvivere. Espressione utilizzata in origine per manipolazioni truffaldine come la famigerata “piramide di Ponzi”. [Nota del traduttore]
10.Neue Zürcher Zeitung, 3/5/1997
11.Davis, Mike, Phoenix im Sturzflug. Zur politischen Ökonomie der Vereinigten Staaten in den achtziger Jahren, 1986, p. 13.
12.Friedman, M., Geld regiert die Welt, 1992, p. 199.
13.Friedman, M., Die optimale Geldmenge und andere Essays, 1976, pag. 144 e sgg.
14.Starbatty J., Geldpolitische Hygiene statt keynesianischer Hydraulik. Hayeks Konjunkturtheorie wird im Lichte der jüngsten Finanzkrisen wieder aktuell in Handelsblatt, 16/3/1999.
15.Die Zeit 27/1999
16.Neue Zürcher Zeitung, 3/5/1997

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