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Appunti sul neoliberismo

di Michele Cangiani

ploytos copia scaled.jpgNon semplicemente nuovi problemi, ma il problema dei problemi è emerso con la crisi iniziata nel 2007-2008: l’incapacità della società contemporanea di affrontare i problemi, quelli, in particolare, causati dal suo stesso funzionamento. Nonostante gli evidenti fallimenti, sfociati clamorosamente nella crisi, l’ideologia neoliberale sembra piuttosto rafforzata che indebolita. Essa, anzi, benché gli interessi a cui conviene siano solo quelli di una piccola minoranza, tende a determinare non solo la politica economica, ma l’assetto complessivo della società, fin nei suoi fondamenti costituzionali. L’esigenza di riforme antidemocratiche, tipica della trasformazione neoliberista, è chiaramente emersa fin dall’inizio, durante la crisi della fase di accumulazione del dopoguerra.

 

1. Da una crisi all’altra

È emblematico, al riguardo, il Rapporto alla Commissione Trilaterale[1]. Ed è significativo che un prodromo della svolta neoliberista sia stata la politica adottata da Pinochet in Cile dopo il golpe del 1973, il quale valse come monito per qualunque paese si azzardasse a non adottare la tendenza ‘giusta’ per risolvere la crisi. Nel 1978, in Cina, Deng Xiaoping promosse la liberalizzazione – entro un regime politico illiberale. L’affermazione definitiva delle politiche neoliberiste è avvenuta con i governi Thatcher in Gran Bretagna nel 1979 e Reagan negli Stati Uniti d’America nel 1980, orientati in primo luogo ad abbattere il potere conquistato dai lavoratori e dalle loro organizzazioni. Non senza successo. I bollettini del Bureau of Labor Statistics del Department of Labor degli Stati Uniti documentano la costante diminuzione degli operai e impiegati iscritti ai sindacati: dal 20,1% nel 1983 all’11,1% nel 2014.

Da notare la differenza, sempre grande e anch’essa in aumento, fra i lavoratori del settore pubblico e quelli del settore privato; nel 2014, gli iscritti erano il 35,7% dei primi e il 6,6% dei secondi.

Con l’andar del tempo, c’è stato sempre meno bisogno di cautela politica e di veli scientifici. In un rapporto della banca J.P.Morgan[2] sull’Unione Europea si auspica che le Costituzioni che “mostrano forti influenze socialiste”, quelle dei paesi “periferici” in particolare, siano modificate per rendere gli esecutivi più forti e quindi facilitare riforme che diminuiscano “la protezione dei diritti dei lavoratori”. Vengono messi in questione, dunque, da una banca privata, i diritti economici e sociali, non solo al livello delle norme più specifiche, ma perfino a quello del loro fondamento costituzionale. Anche i diritti civili e politici, allora, sono necessariamente coinvolti, riguardo alla loro effettività, e anche formalmente.

La nuova ‘grande crisi’ che stiamo vivendo appare come il risultato del circolo vizioso delle politiche neoliberiste, che da essa traggono tuttavia più forza. Numerose e ben documentate analisi svelano questo paradosso, ma i movimenti di protesta restano limitati e caduchi. L’opposizione è irretita dall’aumento strutturale della disoccupazione, dalla frammentazione che la classe operaia ha subito e dalla cosiddetta globalizzazione. L’effetto della creazione di un mercato mondiale del lavoro – anch’esso frammentato, in modo teoricamente incompatibile con i principi liberisti e con il concetto stesso di mercato – è la pressione al ribasso sui salari. Questa è una delle buone ragioni della “non-morte del neoliberismo”, che a Colin Crouch[3] sembra “strana”. Egli auspica invano riforme che rendano socialmente responsabili le grandi corporations; la tendenza opposta continua imperterrita e conta sulla zelante complicità dei governi, delle istituzioni internazionali, dei mezzi d’informazione (o de propaganda fide). Crouch stesso rileva che la crisi, anziché diminuire il dominio sui mercati e sugli organismi politici delle grandi imprese sovranazionali, di quelle finanziarie in particolare, lo ha aumentato.

Philip Mirowski[4] è più deciso: il neoliberismo sopravvive perché mantiene il favore dell’opinione pubblica, seminando ignoranza nella popolazione. Il termine usato è “populace”, che richiama il significato spregiativo del tradizionale volgo e del moderno popolo massificato. Mirowski insiste sull’importanza dello stato sia per attuare politiche economiche gradite all’élite dominante sia per rendere tali politiche accettabili nonostante tutto. Come si sa, la repressione con la forza non basta, occorre anche convincere. Viene pertanto attuata, secondo Mirowski, una strategia della ‘doppia verità’. Da una parte, la propaganda essoterica contro lo stato paternalista e inefficiente o corrotto, in contrapposizione alla libertà di scelta e all’efficienza garantite dal ‘mercato’. Dall’altra, la dottrina esoterica del ruolo crescente dello stato nella predisposizione di condizioni favorevoli al business delle grandi corporations, finanziarie in prima fila, compresa la soppressione della democrazia, almeno nella misura richiesta da un sistema basato sull’aumento dello sfruttamento e sulla menzogna.

Si svela così l’apparente paradosso di un’ideologia del libero mercato che, secondo James K. Galbraith, reclama i servizi dello stato per favorire la “predazione” a vantaggio della “classe agiata”, cioè di un’élite manageriale dominata dall’alta finanza internazionale. Secondo Galbraith[5], una piccola minoranza, ricca e potente, cerca di controllare lo stato per “invadere ambiti che erano riservati al perseguimento di finalità pubbliche” e per impedire che vengano stabilite tali finalità o anche solo regole e limiti per le attività rivolte al profitto e alla rendita. È evidente il riferimento al “public purpose”, la definizione e l’attuazione del quale erano per John K. Galbraith[6] un’esigenza cruciale. Quest’esigenza implica che lo stato “si emancipi”, che si liberi dal controllo da parte del “planning system” privato, ciò che a sua volta presuppone, secondo Galbraith, la “public cognizance”, cioè il riconoscimento – abbastanza diffuso da diventare un fattore politico – del “conflitto inerente” fra pianificazione privata e finalità pubbliche. Erano altri tempi. Galbraith figlio non può non constatare che il cambiamento è avvenuto nel verso opposto a quello auspicato dal padre.

James O’Connor pubblicava, nello stesso 1973, The Fiscal Crisis of the State. La “crisi fiscale” è causata fondamentalmente, a suo avviso, dal rifiuto della classe dominante di pagare, mediante le imposte, i servizi pubblici dai quali continua a trarre vantaggio. Con lo sviluppo dell’accumulazione del capitale monopolistico, “le spese sociali di produzione” (derivanti p. es. dall’inquinamento o dallo sfruttamento eccessivo delle risorse umane e naturali) e “la popolazione eccedente” tendono ad aumentare[7]. Si espande dunque la spesa sociale, che, come quella militare, viene “socializzata”, cioè assunta dallo stato – il “warfare-welfare state”.

Un riferimento più diretto alla teoria di Karl Marx consente a Paul Mattick[8] di indagare le ragioni profonde della crisi dello sviluppo del dopoguerra; essa va inquadrata, a suo avviso, nella natura in generale contraddittoria dell’accumulazione capitalistica. La sua analisi, quindi, porta ad attribuire qualche buona ragione alla reazione teorica contro il keynesismo, sulla quale si sono basate le politiche, non certo buone, dell’epoca neoliberale. Mattick spiega “splendore e miseria dell’economia mista” in base a una lettura della teoria di Marx, secondo la quale la crisi è inevitabilmente e costantemente in agguato. Essendo essenzialmente produzione di plusvalore, anzi valorizzazione del plusvalore prodotto, il capitalismo esige un’accumulazione che si allarghi continuamente, e abbastanza per produrre una massa soddisfacente di plusvalore. La ricerca competitiva di profitti e sovrapprofitti conduce a una più alta composizione organica del capitale complessivo e quindi alla diminuzione del saggio del profitto.

Marx parla di quest’ultima come di una tendenza, alla quale si oppongono controtendenze, quali, in primo luogo, l’aumento del saggio del plusvalore e la riduzione del valore della forza lavoro. Inoltre, la “sovrappopolazione relativa”, data la diminuzione del salario che i lavoratori “messi in esubero” sono disposti ad accettare, può rendere conveniente mantenere una più bassa composizione organica nelle produzioni esistenti o aprire “nuovi rami di produzione”, p. es. di beni di lusso, fondati sulla prevalenza del “lavoro vivo”. Agiscono come controtendenze anche la diminuzione del prezzo degli elementi del capitale costante e “il commercio estero, nella misura in cui rende più a buon mercato tanto gli elementi del capitale costante, quanto quelli che formano direttamente il capitale variabile”[9].

Un saggio di profitto troppo basso, cioè un’insufficiente valorizzazione del capitale, frena l’accumulazione, determinando “sovrapproduzione di mezzi di produzione”[10]. Le controtendenze appena ricordate non bastano a prevenire la crisi, perché moderano bensì la caduta del saggio di profitto, ma nello stesso tempo agiscono in senso inverso. Con “i procedimenti per la creazione di plusvalore relativo”, secondo Marx, lo “stesso numero di lavoratori viene sfruttato di più, ma lo stesso capitale sfrutta un numero minore di lavoratori.” Gli “aumenti del plusvalore al di sopra del livello generale”, di cui si giova “il capitalista che utilizza invenzioni ecc. prima che il loro uso sia generalizzato”, rallentano la caduta del saggio di profitto, “anche se in ultima analisi sempre a essa debbono tendere”. In riferimento a un dato capitale, “il saggio del plusvalore cresce, mentre la massa in media diminuisce”[11]. Dunque le “stesse cause”, riducendo la FL “impiegata da un capitale dato” e accrescendo il saggio del plusvalore, tendono “alla riduzione del saggio di profitto e a rallentare la dinamica di questa diminuzione”[12].

Resta infine da considerare che l’aumento della massa di plusvalore, che alimenta l’accelerazione dell’accumulazione, comporta l’aumento della massa del prodotto, la quale “deve essere venduta”. Orbene, non è detto che “le condizioni dello sfruttamento immediato e della sua realizzazione” coincidano: “le une sono limitate soltanto dalla forza produttiva della società; le altre dalla proporzionalità dei diversi rami di produzione e dalla capacità di consumo della società.” Quest’ultima è determinata dalla “capacità di consumo sulla base di rapporti di distribuzione antagonistici, che costringe la grande base della società a un consumo minimo – entro confini più o meno stretti. [La capacità di consumo] è inoltre limitata dalla spinta all’accumulazione”[13]. Se, allora, parte della massa di plusvalore prodotto resta fuori dal processo dell’accumulazione, cioè non viene investita, si ha una “sovrappopolazione relativa”, la quale non viene impiegata dal “capitale sovrabbondante” non perché non sarebbe possibile sviluppare le forze produttive, rendendo così più breve e agevole il lavoro e più diffuso il benessere, ma perché “periodicamente si producono troppi strumenti di lavoro e troppi mezzi di sussistenza per farli funzionare come mezzi di sfruttamento dei lavoratori a un determinato saggio del profitto[14]. Prima o poi si arriva alla “pletora di capitale” e alla crisi, e alla distruzione di capitale che consente eventualmente di uscirne.

Nell’epoca neoliberale, la diminuzione del costo della forza lavoro, delle imposte sui redditi più alti e della spesa sociale ha consentito l’aumento del saggio del profitto, riproducendo però, nello stesso tempo, tendenze depressive, contribuendo a determinare l’eccedenza di capitale, cioè la sovraccumulazione ovvero l’impossibilità di un’accumulazione adeguatamente allargata. Un rimedio (dimostratosi come sempre rischioso e provvisorio) è stato il massiccio ricorso all’indebitamento delle famiglie e degli stati. Un altro, la creazione di nuovi campi d’investimento. L’epoca neoliberale viene anche designata come quella della globalizzazione – cioè dell’allargamento del mercato, ma anzitutto della ricerca di forza lavoro e di risorse naturali a buon mercato – e della finanziarizzazione[15]. Diversi rimedi, che però non risolvono i vecchi problemi e ne creano di nuovi.

Michel Chossudovsky[16] osserva che il sistema economico globale è “caratterizzato da due dinamiche contraddittorie: da una parte, l’affermarsi di un’economia globale del lavoro a basso costo e, dall’altra, la ricerca di nuovi mercati di consumo.” In termini keynesiani – e coerentemente con la necessità, secondo Marx, che l’accumulazione sia “allargata” – si realizzerà un “equilibrio di sottoccupazione” nella misura in cui la domanda effettiva non verrà mantenuta abbastanza elevata da una massa crescente d’investimenti profittevoli.

Il problema è che non sembra possibile tornare alle politiche ‘keynesiane’ che hanno accompagnato la fase di sviluppo durata un quarto di secolo dopo la Seconda guerra mondiale. Nell’opera sopra citata di O’Connor c’è una consapevolezza precoce della crisi definitiva di tale fase. Si presentava quindi, a suo avviso, un’alternativa radicale fra due tendenze: da una parte, l’ampliamento dell’intervento pubblico in “una prospettiva socialista che si sforzi di ridefinire i bisogni in termini collettivi”[17]; dall’altra, una cooperazione-collusione crescente della politica con il settore monopolistico dell’economia (protagonista del planning system secondo Galbraith), a spese del settore concorrenziale, delle classi lavoratrici e delle risorse naturali.

 

2. A chi giova?

La seconda tendenza ha prevalso e, da allora fino ai nostri giorni, è diventata più drastica e pervasiva. O’Connor sottolinea la conseguenza di un sempre più difficile equilibrio del bilancio statale e dunque l’importanza sempre maggiore dell’inversione della funzione redistributiva – dai salari ai profitti e alle rendite – del sistema fiscale. La nuova fase della “regolazione” neoliberista nasce anche per superare, anche con metodi fiscali, la “crisi fiscale”, che è un aspetto della dinamica generale della crisi. O’Connor rileva che i lavoratori contribuiscono a riprodurre la loro condizione, finanziando essi stessi il proprio welfare, in maggior misura in conseguenza della crisi. In seguito Anwar Shaikh[18] dimostra che le spese pubbliche per il welfare vengono finanziate totalmente o in gran parte da coloro che ne usufruiscono. Più precisamente, il “salario sociale netto” risulta negativo negli USA per tutta la seconda metà del XX secolo. Esso è positivo in cinque altri paesi OCSE: dal 3,5% del PIL nel periodo del boom (1950-1972) al 5% in seguito, fino al 1997.

La disuguaglianza è aumentata, anche in seguito a un’imposizione fiscale che tende sempre più ad essere ‘regressiva’, cioè a pesare maggiormente sui redditi medi e bassi, specialmente se si tiene conto degli aumenti che hanno riguardato la tassazione indiretta e i costi di servizi sanitari, sociali e locali addossati ai cittadini, mentre l’evasione e l’elusione contributiva rimangono elevate. Infine, provvedimenti legislativi come il recente cosiddetto ‘jobs act’ in Italia si risolvono in un trasferimento di denaro pubblico alle imprese. Il risultato è che la quota di PIL spettante ai lavoratori dipendenti si è ridotta in media del 10% fra la seconda metà degli anni Settanta e il 2007 (p. es. USA dal 70 al 63%, Francia dal 76 al 65%, Italia dal 68 al 53%)[19].

Dopo il 2007 la crisi ha accentuato queste tendenze. L’aumento della disuguaglianza risulta particolarmente elevato in Italia. Ciò dipende dai rapporti di potere nel mercato del lavoro, così come nella società e nella politica interna e internazionale. Anche la politica fiscale tendenzialmente regressiva influisce al riguardo, tanto più che la pressione fiscale è aumentata da circa il 40% del PIL nei primi anni duemila al 43,5% nel 2014, secondo i dati ufficiali ISTAT, ma si stima che sia almeno il 53% per i non evasori. Va osservato che il saldo primario dei conti pubblici, inghiottito dal pagamento di una parte degli interessi sul debito pubblico, è stato positivo negli ultimi venti anni, in media il 2,1% del PIL. Tenendo poi conto delle privatizzazioni e dei continui tagli della spesa, che pesano soprattutto sul welfare e su servizi e investimenti pubblici, risulta confermato che le politiche neoliberiste fanno dei governi i difensori dei ceti più ricchi e in particolare delle rendite e dei profitti delle grandi imprese dotate di potere monopolistico. Con la crisi tutto ciò tende ad accentuarsi, insieme al degrado delle istituzioni e delle pratiche democratiche.

D’altronde, questa non è un’assoluta novità. La crisi scoppiata nel 1929 portò in Gran Bretagna, anche se non a un regime fascista come in altri paesi, alla caduta del governo laburista presieduto da Ramsay MacDonald e alla formazione del National Government del 1931, cioè a una coalizione fra laburisti, conservatori e liberali, giudicata da molti un attentato alle tradizioni della democrazia britannica. MacDonald, rimasto primo ministro (anzi premier, come ai nostri giorni ci si compiace di dire anche in Italia), perseguì la riduzione della spesa pubblica e anzitutto del sussidio di disoccupazione e di salari e stipendi pubblici. L’origine e la legittimazione del National Government stavano nel garantire gli interessi finanziari della City e dei rentiers e, in generale, il potere incontrastato della classe dominante in vista delle riforme che la crisi rendeva necessarie.

Un altro pilastro del neoliberismo, oltre alla svalutazione della forza lavoro, è la ricerca di nuovi campi d’investimento per il capitale eccedente. Ecco dunque, in primo luogo, l’enorme aumento dell’attività finanziaria, la quale tuttavia, nella misura in cui non si risolve in un gioco a somma zero, drena valore da altri investimenti e altri redditi, avendo carattere di rendita e non di investimento produttivo (di profitto, s’intende). Si tratta dunque di una soluzione illusoria. Essa ha anche qualche effetto reale, come è avvenuto in seguito alla speculazione in settori della produzione quali l’industria elettronica e quella immobiliare; le ‘bolle’, però, prima o poi si sgonfiano, con conseguenze anche catastrofiche sui ‘mercati’ e, quel che più importa, su milioni o miliardi di persone.

La speculazione può avere conseguenze di questo tipo anche in seguito al rialzo speculativo dei prezzi, non al loro crollo. La “crisi del cibo” del 2007-2008 – storicamente non la prima e prevedibilmente non l’ultima – ha compromesso le condizioni di vita e la sopravvivenza stessa delle popolazioni più povere sulla scena globale. Tale crisi ha reso ancora più evidente che la scarsità di cibo dipende soprattutto dall’assetto sociale e politico, in particolare dalla dinamica dello sviluppo capitalistico. Vaste popolazioni sono state espropriate delle loro risorse e rese dipendenti dal mercato mondiale, sia trasformando l’agricoltura locale di sussistenza in monocolture per l’esportazione sia con l’offerta a prezzi competitivi di derrate alimentari prodotte industrialmente in altri paesi, spesso senza riguardo per l’equilibrio ambientale e la preservazione della varietà delle specie, inoltre giovandosi di sussidi governativi, come quelli concessi sia dagli Stati Uniti sia dall’Unione Europea. In seguito, investimenti crescenti di grandi società nell’agricoltura, in particolare in vista della produzione di biocarburanti, hanno provocato l’aumento dei prezzi, specialmente quando la speculazione finanziaria è entrata in giuoco. È diventato allora sempre più difficile, per i più poveri, acquistare il cibo che non erano più in grado di produrre[20]. La ‘finanziarizzazione’ e la ‘de-regolazione’ hanno così dispiegato i loro effetti più crudeli: sulla base, comunque, delle precedenti politiche di ‘sviluppo’.

La ‘Rivoluzione verde’, cioè la politica agricola connessa con la concezione e le pratiche della fase di sviluppo dopo la guerra, fu un’alternativa alla riforma agraria, anzi una contro-riforma agraria. Essa portò alla diffusione di rapporti di produzione capitalistici e quindi a uno sfruttamento delle risorse umane e naturali che mirava essenzialmente all’aumento del rendimento dei terreni in termini quantitativi e di profitto. Ne trassero vantaggio i grandi oligopoli del commercio mondiale di derrate e della produzione di sementi, mangimi e prodotti chimici (fertilizzanti e pesticidi). Contadini rimasti senza terra e senza lavoro affollarono le periferie urbane. Ci fu distruzione di biodiversità naturale e agricola, talvolta della fertilità del suolo e di equilibri idrogeologici; e oltre che di colture, anche di culture che fino ad allora avevano garantito la sussistenza alle popolazioni e un rapporto non distruttivo con l’ambiente naturale[21]. Nuove tecniche, nuova organizzazione e nuovi investimenti avrebbero dovuto portare benessere; in realtà, portarono acqua al mulino dell’accumulazione capitalistica e ricchezza a piccole minoranze locali dei paesi ‘in via di sviluppo’, anche con l’appoggio di prestiti per investimenti infrastrutturali e produttivi.

Finita l’epoca dello sviluppo, i paesi che avrebbero dovuto giovarsene si ritrovarono con vecchi problemi, nuovi guasti e debiti crescenti. L’aumento neoliberista del tasso d’interesse deciso dalla Federal Reserve e la conseguente rivalutazione del dollaro scatenarono nei paesi indebitati e specialmente in America Latina la “crisi del debito” degli anni 1980, occasione a sua volta per costringere ad adottare politiche neoliberiste. Una specie di tutela economica fu imposta a una novantina di paesi da parte dei creditori internazionali, attraverso il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. I governi dovevano applicare gli Structural Adjustment Programs, cioè conseguire bilanci in pareggio, liberalizzare commercio e investimenti esteri, e privatizzare sia aziende statali sia public utilities e servizi sanitari, scolastici e sociali. Il ‘Washington Consensus’ – inteso come l’insieme delle “strategie di sviluppo associate con istituzioni che hanno base a Washington: FMI, Banca Mondiale e Tesoro Usa”[22] – diede un contributo fondamentale alla diffusione del ‘fondamentalismo di mercato’, cioè dell’idea (antica) che la maggior parte dei problemi si risolvono lasciando fare ai mercati. Il risultato è stato una “globalizzazione della povertà nel tardo XX secolo […] senza precedenti nella storia mondiale”[23].

Nel decennio 1990-2000 una serie di riforme hanno portato a buon punto la trasformazione neoliberista, preludendo, d’altronde, a ulteriori sviluppi. La corrente è partita dagli Stati Uniti d’America, come di solito accade da almeno un secolo, e in particolare da quando quel paese, con la Seconda guerra mondiale, ha consapevolmente assunto un ruolo egemonico non solo nel ‘cortile di casa’, ma nel mondo intero. Ancora prima della fine della guerra, Karl Polanyi osserva che, mentre il Commonwealth britannico e l’Unione Sovietica costituiscono sistemi regionali, “gli Stati Uniti insistono su una concezione universalistica della politica mondiale che corrisponde alla loro antiquata economia liberale”. Gli americani, in effetti, “identificano il loro modo di vivere con l’impresa privata e la concorrenza negli affari, benché non proprio con il classico laissez faire. Questo è per loro il significato della democrazia”[24].

Riforme significative sono state, con Bill Clinton presidente, quella del Welfare del 1996 e il compimento della liberalizzazione dell’attività finanziaria, in particolare con l’eliminazione della separazione fra banche commerciali e banche d’investimento, avvenuta nel 1999 con l’abrogazione del Glass-Steagall Act del 1933. Da notare inoltre, in riferimento alla ‘crisi del cibo’ sopra ricordata, l’approvazione da parte del Congresso degli Stati Uniti, nel dicembre 2000, del Commodity Futures Modernization Act, che ha abolito limitazioni e controlli stabiliti durante il New Deal riguardo alla speculazione sui prodotti agricoli.

Un modo meno aleatorio, rispetto alla finanza, di sostenere il processo di accumulazione è consistito nell’ampliamento del mercato mondiale e nell’apertura all’investimento di ulteriori aspetti della vita sociale e individuale. Il capitale e la speculazione hanno invaso nuovi campi, quali merci e servizi per il cosiddetto tempo libero, la proprietà immobiliare, i beni comuni, le cure mediche, l’istruzione, i servizi sociali e la ricerca scientifica. Questo tipo d’investimenti comporta in genere posizioni di rendita e di monopolio, e svalutazione della forza lavoro, la quale tende a perdere difese e diritti che ne limitavano la mercificazione. L’erosione del principio dell’universalismo, a causa della progressiva privatizzazione del servizio sanitario e di quello scolastico, contribuisce ad aumentare la disuguaglianza.

La competizione riguardo alle risorse naturali si è intensificata. L’accaparramento di intere regioni (‘land grabbing’) e lo sfruttamento delle loro risorse da parte di compagnie multinazionali e fondi d’investimento (anche ‘sovrani’) al solo fine di ricavarne profitti e rendite (chiamato ‘extractivismo’ in America Latina) hanno trasformato in povertà la sussistenza frugale di milioni di persone[25], hanno provocato danni irreversibili all’ambiente naturale, alimentato la corruzione e aumentato spese militari e conflitti armati.

David Harvey[26] osserva, in riferimento a tutto questo, che il successo principale del neoliberismo è consistito nel “ridistribuire, piuttosto che generare, ricchezza e reddito”: una “accumulazione mediante espropriazione”. Contribuisce a ciò anche il trasferimento di costi dal sistema economico all’ambiente umano e naturale. La teoria di tali costi, i “costi sociali”, è stata sviluppata da Karl William Kapp[27], il quale si riallaccia in particolare alla corrente istituzionalista del pensiero economico e, più in generale, alla critica del mercato in quanto sistematicamente inefficiente e comunque irreversibilmente lontano dal modello concorrenziale.

La teoria di Kapp, che mette in luce le implicazioni negative della produzione capitalistica per il benessere e la sopravvivenza stessa del genere umano, trova una conferma e uno sviluppo nell’ecologia politica di O’Connor[28]. Quest’ultimo, con la sua tesi della “seconda contraddizione del capitalismo”[29], sottolinea un aspetto particolare, ma essenziale, della contraddizione inerente all’accumulazione capitalistica. Egli rileva che il tentativo di mantenere elevato il saggio di profitto per rimediare alla “prima contraddizione” (cioè alla tendenza alla sovraccumulazione) porta a sostenere la crescita economica impoverendo e danneggiando l’ambiente umano e naturale del sistema economico, senza riconoscere e tanto meno pagare i relativi costi. Una ‘chiusura’ di questo tipo, ovvero lo scambio a senso unico del sistema economico con l’ambiente, produce, almeno a medio-lungo termine, conseguenze negative per il sistema economico stesso, poiché i suoi costi tendono ad aumentare in conseguenza del degrado ambientale. Aumenta così anche l’esigenza di scaricare costi sull’ambiente, alimentando un processo cumulativo potenzialmente catastrofico.

I tentativi di superare le contraddizioni insite nella produzione capitalistica con metodi corrispondenti alla sua organizzazione, al suo ‘programma’, non possono, in effetti, che rivelarsi vani, anzi controproducenti, come mostrano le politiche neoliberiste.

La qualità contro-adattiva del rapporto dell’economia capitalistica con l’ambiente si è rivelata chiaramente con lo sviluppo dopo la guerra e ancora di più nell’epoca neoliberale, anche in conseguenza della cosiddetta ‘deregolamentazione’. Quest’ultima, insieme alle privatizzazioni, ha minato le difese sociali predisposte, grazie soprattutto a lotte secolari delle classi lavoratrici, contro la mercificazione del lavoro, della natura e del denaro. La mercificazione, anzi, ha invaso altri campi, come sopra accennato, compreso quello della conoscenza. La legislazione sui brevetti e sulla proprietà intellettuale – a partire dal 1980 e, naturalmente, dagli Stati Uniti – è diventata, da una parte, più permissiva, concedendo più facilmente il privilegio di sfruttare invenzioni anche solo presunte, cioè scarsamente originali. D’altra parte, la brevettabilità – prima limitata alle invenzioni, cioè ad applicazioni tecniche delle conoscenze scientifiche – è stata estesa alle scoperte scientifiche e alla natura vivente[30].

 

3. Come uscirne?

Le politiche neoliberiste si proponevano di superare la crisi degli anni Settanta. Hanno fallito, ma continuano a imperversare, nonostante i loro effetti controproducenti. La svalutazione ‘globalizzata’ della forza lavoro consente immediatamente l’aumento dei profitti, ma alimenta la tendenza depressiva. Il massiccio ricorso all’indebitamento si rivela una trappola, a tutto e solo vantaggio dei cacciatori di rendita finanziaria. L’aumento della disuguaglianza stimola se stesso più che l’accumulazione. Le ricette degli Structural Adjustment Programs vengono ora prescritte nell’Unione Europea, dopo i danni provocati nei paesi ‘in via di sviluppo’, ormai ben noti e largamente riconosciuti. Per esempio, le regole dettate o almeno approvate dal FMI mandarono in rovina il sistema bancario dell’Indonesia nel 1998 e in seguito provocarono la depressione in Argentina, ricorda Joseph Stiglitz[31], commentando il “Terzo memorandum” imposto alla Grecia da FMI, Banca Centrale Europea e Commissione Europea (la cosiddetta troika). Le riforme previste – riguardanti il bilancio pubblico e la regolamentazione dei mercati, quello del lavoro anzitutto, con la tendenziale eliminazione della contrattazione collettiva – sono “insensate, sia per la Grecia sia per i creditori”, egli afferma. Tanto è vero che, ora, anche il FMI raccomanda la “ristrutturazione del debito”, cioè, sia pure non esplicitamente, la sua riduzione.

L’‘austerità’, provocando depressione, rende definitivamente insolvibile il debitore, come l’imprigionamento per debiti vigente fino al XIX secolo. Ma adesso non si tratta semplicemente di follia; c’è anche del metodo. Stiglitz accenna all’utilità della linea tenuta con la Grecia come monito rivolto a qualsiasi forza politica che osi opporsi alle indicazioni della ‘troika’, grazie all’autorità della quale determinati “interessi particolari” riescono a “ottenere ciò che non sarebbe possibile con procedure più democratiche”. Gli interessi, per esempio, di capitali stranieri che cercano di vendere in Grecia i loro prodotti a scapito di quelli locali e senza vantaggi per i consumatori, di esportare senza scremature fiscali i loro profitti, di acquisire beni e attività a prezzi di saldo. I cosiddetti ‘oligarchi’ locali, inoltre, pretendono di mantenere i loro privilegi, e le banche greche di essere rifinanziate con risorse pubbliche, rimanendo tuttavia totalmente private e libere di concedere prestiti “di favore” a soggetti particolari invece che a imprese capaci di aumentare l’occupazione.

L’Unione Europea non recede dall’orientamento neoliberista, nonostante gli insuccessi economici. Le sofferenze delle banche continuano a contare più di quelle dei cittadini. Prosegue quasi senza scosse il degrado della democrazia, necessario per salvaguardare gli interessi dell’élite che egemonizza la classe dominante. Al contrario di quanto accadde con il New Deal, non sono in vista riforme dell’attività finanziaria per prevenire dissesti come quello con il quale è iniziata la crisi attuale.

Colin Crouch delinea una possibile “socialdemocrazia quale massima forma del liberalismo”, mediante la quale il capitalismo verrebbe reso “adatto alla società”[32]. Quel che accade, in realtà, è che il capitalismo non sopporta più nemmeno le riforme che lo renderebbero più adatto alla propria buona salute. A esse si oppone la piccola minoranza che, sulla base della generale e irriformabile difficoltà in cui si trova il processo di accumulazione, riesce comunque a trarre vantaggio dalla situazione presente. Tale minoranza ha il potere di indirizzare l’economia e la politica nel verso opposto a quello auspicato da Crouch, sia pure con le cautele e le furbizie consigliate ai propri “Committenti” dall’immaginaria Commissione di studio del libro di Susan George significativamente intitolato “Come vincere la lotta di classe”[33].

Tanto più che le illusioni sull’‘economia mista’ o la ‘terza via’ sono cadute, e questo spiega anche la consunzione politica dei partiti socialdemocratici. Lo riconosce Wolfgang Streek, più radicale di Crouch nel mostrare fino a qual punto le politiche neoliberiste abbiano generato circoli viziosi che minacciano l’esistenza stessa del capitalismo. Perseguendo la mercificazione del lavoro, delle risorse naturali e del denaro come mezzo per affrontare la stagnazione, il capitalismo si priva, secondo Streek, di indispensabili istituzioni regolative, senza nemmeno ottenere una ripresa adeguata dell’accumulazione. Risultato di ciò sono piuttosto “cinque disordini sistematici”: “la stagnazione, la redistribuzione oligarchica, il saccheggio del dominio pubblico, la corruzione e l’anarchia globale”[34].

Aumenta, fra i critici radicali delle politiche correnti, il numero di coloro che scorgono una crisi del capitalismo come tale, causata dalle contraddizioni insite nell’accumulazione, di là dalla ‘finanziarizzazione’ e dalla crisi finanziaria. Ovviamente, è alla teoria di Marx che ci si torna a rivolgere. Secondo Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, la crescita patologica della finanza e l’aumento esponenziale dell’indebitamento privato e pubblico sono sintomi più che cause della crisi, la quale rivela l’obsolescenza del capitalismo come forma storica della produzione. L’astratta produzione, fine a se stessa, di denaro per mezzo di denaro implica un rovesciamento paradossale fra fini e mezzi. Ciò si fa evidente quando lo scopo dell’investimento finanziario cessa di essere la produzione di ricchezza reale, per diventare l’aumento del capitale fittizio. Questo sembra ora “il motore dell’accumulazione”; ma la posta di tale scommessa sul valore da produrre in futuro non può crescere indefinitamente. Prima o poi, secondo Lohoff e Trenkle[35], “deve verificarsi una gigantesca svalutazione del capitale fittizio.”

Anche Wolfram Elsner[36] solleva il problema della sovra-accumulazione e della caduta del saggio di profitto, che egli riesce a dimostrare in una recente ricerca. Egli osserva, poi, che la disuguaglianza crescente e il saccheggio delle risorse naturali, sociali e umane, necessari per ristabilire (almeno per una parte del capitale) un saggio di profitto accettabile, implicano l’esigenza di smantellare progressivamente le procedure democratiche di decisione.

Harry Magdoff e Paul Sweezy[37] avevano spiegato la finanziarizzazione come conseguenza della tendenza alla stagnazione del capitalismo monopolistico. John Bellamy Foster e Fred Magdoff continuano la strada tracciata da questa teoria, confermandola con nuovi dati e ulteriori considerazioni. Ci troviamo, essi sostengono, “a un punto di svolta globale”; essendo impossibile, almeno in pratica, realizzare riforme davvero efficaci, a “un ordine sociale più razionale” si potrebbe arrivare soltanto con “una vera democrazia politica ed economica: che è ciò che gli attuali dominatori del mondo temono e denigrano di più – chiamandolo ‘socialismo’”[38]. Si può aggiungere che questa conclusione trova conferma nel fatto che, pur essendo vero che la finanziarizzazione vada spiegata in rapporto con le dinamiche più profonde dello sviluppo capitalistico, essa influisce a sua volta sul modo in cui tali dinamiche trovano espressione. Essa ha creato, ad esempio, una dipendenza da aspettative elevate di guadagno, in una situazione in cui esso è diventato più difficile, anche a causa di quelli che, ormai da quarant’anni, vengono analizzati come i “limiti dello sviluppo”[39]. E in questa situazione, osserva James Galbraith[40], la competizione sarà sempre più accanita, sempre più disponibile ad espedienti e truffe, con sempre meno vincitori e perdenti sempre più numerosi.

L’analisi della storia recente, dei limiti del keynesismo e del “fallimento del capitalismo” viene argomentata da Paul Mattick (junior)[41] facendo riferimento a Marx, ma anche a rappresentanti radicali dell’economia istituzionalista quali Thorstein Veblen e Wesley Mitchell, e naturalmente anche a Paul Mattick senior. Quest’ultimo aveva messo in rilievo la differenza fra la spiegazione di Marx della tendenza del capitalismo alla crisi e quella di Keynes, nonostante notevoli punti in comune, come ad esempio la dipendenza dell’investimento dall’aspettativa presente e futura di profitto. Mattick indica precocemente nel suo libro[42] il limite delle politiche keynesiane: a lungo termine, lo sviluppo capitalistico non è compatibile con un intervento pubblico crescente e la ‘socializzazione’ dell’investimento, poiché in tal modo si riducono il saggio di profitto o il campo dell’investimento privato o entrambi. In effetti – finché il vincolo istituzionale essenziale rimane la valorizzazione del capitale – la redistribuzione del reddito, l’investimento pubblico, il pieno impiego, una migliore (se non ottima) allocazione delle risorse e perfino l’espansione fisica della produzione sono possibili solo nella misura in cui non riducono, o non riducono in modo ritenuto eccessivo, quella che Keynes chiama “l’efficienza marginale del capitale”. Sembra dunque contraddittorio che Keynes stesso proponga anche l’immagine di un futuro in cui il capitale cessi di essere “scarso”, una specie di “stato stazionario” felice, in cui il profitto sia semplicemente il salario dell’imprenditore. In effetti, l’unica possibilità per il capitale di cessare di essere “scarso” è di cessare di esistere come capitale. È probabile che Keynes fosse consapevole di questo paradosso. E per una post-keynesiana come Joan Robinson era logico che l’epoca dello sviluppo (e del pluralismo più o meno democratico, del welfare ecc.) del dopoguerra finisse con l’inasprirsi del conflitto di classe[43], così come, per O’Connor, con l’alternativa sopra ricordata (alla fine della prima parte). Una spiegazione della trasformazione neoliberista non può prescindere da quella situazione, e dalla crisi sistemica dell’accumulazione che essa rivelava.


Note
[1] Michel Crozier, Samuel P. Huntington, Joji Watanuki, The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, with an introduction by Z. Brzezinski, New York: New York University Press, 1975.
[2] J.P.Morgan, “The Euro area adjustment: about halfway there”, Europe Economic Research, 28 May, 2013.
[3] Colin Crouch, The Strange Non-Death of Neo-Liberalism, Cambridge: Polity Press, 2011.
[4] Philip Mirowski, Never Let a Serious Crisis Go to Waste: How Neoliberalism Survived the Financial Meltdown, London: Verso, 2013, p. 83.
[5] James K. Galbraith, The Predator State, New York: Free Press, 2008, p. 131.
[6] John K. Galbraith, Economics and the Public Purpose, Boston: Houghton Mifflin, 1973.
[7] James O’Connor, La crisi fiscale dello stato, Torino: Einaudi, 1979, p. 170. (The Fiscal Crisis of the State, New York: St Martin’s Press, 1973).
[8] Paul Mattick, Crisi e teorie della crisi, Bari: Dedalo, 1979. (Krisen und Krisentheorien, Frankfurt a. M.: Fischer Taschenbuch Verlag, 1974).
[9] Karl Marx, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti, a cura di V. Giacché, Roma: DeriveApprodi, 2009, pp. 128-133.
[10] Karl Marx, Il capitale, Libro III, Roma: Editori Riuniti, 1968, pp. 308-309.
[11] Karl Marx, Il capitalismo e la crisi, op. cit., pp. 129 e 130.
[12] Ibid., p. 131.
[13] Ibid., p. 141.
[14] Ibid., p. 164.
[15] Si veda p. es. Harry Magdoff e Paul M. Sweezy, Stagnation and Financial Explosion, New York: Monthly Review Press, 1987, e Luciano Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino: Einaudi, 2011.
[16] Michel Chossudovsky, The Globalisation of Poverty, London: Zed Books, Penang: Third World Network, 1997, p. 17. (Trad. it. La globalizzazione della povertà, Torino: EGA-Edizioni Gruppo Abele, 2003).
[17] James O’Connor, La crisi fiscale dello stato, op. cit., p. 291
[18] Anwar Shaikh, “Who Pays for the ‘Welfare’ in the Welfare State? A Multicountry Study”, Social Research, Vol. 70, 2, 2003, pp. 531-550.
[19] OCDE, Croissance et inégalité. Distribution des revenus et pauvreté dans les Pays de l’Ocde, Paris, 2008, p. 38.
[20] Cfr. Philip McMichael, “The World Food Crisis in Historical Perspective”, Monthly Review, LXI, 3, Jul.-Aug., 2009; Jean Drèze e Amartya Sen, Hunger and Public Action, Oxford: Clarendon Press, 1989.
[21] Cfr. Vandana Shiva, Monocultures of the Mind, London: Zed Books; Penang: Third World Network, 1993 (trad. it. Monoculture della mente, Torino: Bollati Boringhieri, 1995); Walden Bello, Deglobalization, London: Zed Books, 2002, e Walden Bello, The Food Wars, New York: Verso, 2009; Susan George, Whose Crisis, Whose Future?, Cambridge (UK) and Malden (USA): Polity Press, 2010.
[22] Narcis Serra, S. Spiegel e Joseph E. Stiglitz, 2008, “Introduction: From the Washington Consensus Towards a New Global Governance”, in N. Serra and J. E. Stiglitz, eds, The Washington Consensus Reconsidered, Oxford: Oxford University Press., p. 3.
[23] M. Chossudovsky, The Globalisation of Poverty, op. cit., p. 26.
[24] Karl Polanyi, “Capitalismo universale o pianificazione regionale?”, in Id., La libertà in una società complessa, a cura di A. Salsano, Torino: Bollati Boringhieri, 1987, p. 143. (“Universal Capitalism or Regional Planning?”, The London Quarterly of World Affairs, gen. 1945, pp. 1-6.)
[25] Cfr. Wolfgang Sachs, The Archaeology of the Development Idea, Kolkata (India): Earthcare Books, 2008. (Pubblicato in precedenza da Interculture, 1990).
[26] David Harvey, A Brief History of Neoliberalism, Oxford: Oxford University Press., 2005, p. 159.
[27] Karl William Kapp, The Social Costs of Business Enterprise, Nottingham: Spokesman, 1978 [1963] (una prima versione dell’opera è del 1950).
[28] V. p. es. James O’Connor, Natural Causes: Essays in Ecological Marxism, New York: Guilford Press, 1998 (ma anche la rivista Capitalism Nature Socialism). Kapp e O’Connor hanno preso spunto dal metodo di studio dello sviluppo proposto da Gunnar Myrdal, il quale contrappone la causalità circolare cumulativa e la molteplicità delle variabili alla mitica tendenza all’equilibrio.
[29] James O’Connor, “On the Two Contradictions of Capitalism”, Capitalism Nature Socialism, II, 3, 1991, pp. 107-09.
[30] V. p. es. Geneviève Azam, “L’utopie de l’économie de la connaissance”, Sciences de la société, n. 66, 2005, pp. 15-28; Bob Jessop, “Knowledge as a Fictitious Commodity: Insights and Limits of a Polanyian Perspective”, in Reading Karl Polanyi for the Twenty-First Century, ed. by A. Buğra and K. Ağartan, New York & Houndsmills (England): Palgrave Macmillan, 2007, pp. 115-133.
[31] Joseph E. Stiglitz, “Greece, the Sacrificial Lamb”, The New York Times, Jul. 25, 2015.
[32] Colin Crouch, Making Capitalism Fit for Society, Cambridge & Malden, MA: Polity Press, 2013.
[33] Susan George, “Come vincere la lotta di classe”, Milano: Feltrinelli, 2013.
[34] Wolfgang Streeck, “How Will Capitalism End?”, New Left Review, 87, May-June, 2014, pp. 35-64., p. 55.
[35] Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, Die große Entwertung, Münster: UNRAST-Verlag, 2012, p. 19.
[36] Wolfram Elsner, “Financial capitalism trapped in an ‘impossible’ profit rate”, International Journal of Pluralism and Economics Education, Vol. 4, No. 3, 2013, pp. 243-262.
[37] H. Magdoff e P. M. Sweezy, Stagnation and Financial Explosion, op. cit.
[38] John Bellamy Foster e Fred Magdoff, The Great Financial Crisis. Causes and Consequences, New York: Monthly Review Press, 2009.
[39] Cfr. la ricerca commissionata dal Club di Roma, pubblicata nel 1972, e in successive edizioni aggiornate: Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jorgen Randers and William W. Behrens III, Limits to Growth, New York: New American Library.
[40] James K. Galbraith, The End of Normal, NewYork: Simon & Schuster, 2014, p. 242.
[41] Paul Mattick (junior), Business as Usual. The Economic Crisis and the Failure of Capitalism, London: Reaktion Books, 2011.
[42] Paul Mattick (senior), Marx e Keynes. I limiti dell’economia mista, Bari: De Donato, 1972. (Marx and Keynes. The Limits of the Mixed Economy, Boston: Porter Sargent, 1969).
[43] Silverman Bertram, 1980, “The Crisis of the British Welfare State” (Interview to Joan Robinson and Stuart Holland), Challenge, Vol. 23, 4, pp. 28-39.
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