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sbilanciamoci

La grande incertezza. Una lettura del dopo referendum

Alfio Mastropaolo

Lo scenario politico del dopo referendum ha mostrato un elettorato sempre più instabile e arrabbiato. Tra la scommessa persa del Pd di Renzi e l’avanzata dei populismi di destra, spicca l’assenza della sinistra

Volante 1 1024x5211. Le molte ragioni del no

Le ragioni del successo del no al referendum dello scorso 4 dicembre sono tante. E tanti i suoi significati. La matassa è ardua da dipanare, tenuto conto che coloro che hanno respinto la riforma Renzi/Boschi non avevano tutti le stesse motivazioni. In più, è presumibile che in molti più motivazioni si intreccino.

C’è chi ha votato no perché la riforma era sgrammaticata. Che fosse sgrammaticata l’hanno ampiamente riconosciuto pure parecchi tra quanti hanno dichiarato che avrebbero votato sì. La sua applicazione avrebbe creato parecchi problemi. Altri hanno votato no perché la riforma squassava il vecchio meccanismo di check and balances senza sostituirlo in maniera accettabile. In mano a forze politiche democraticamente inaffidabili, e il cielo sa se in giro ce ne sono, rischiava (specie intrecciata all’Italicum) di diventare un’arma micidiale. Per altri ancora la riforma non solo stravolgeva la lettera della Costituzione, ma ne rinnegava lo spirito. Ovvero sconfessava il compromesso tra forze politiche d’ispirazione cattolica, socialista e liberale stipulato a dicembre del 1947. Tra l’altro, l’iter di approvazione aveva calpestato una fondamentale regola non scritta dei grandi processi costituenti: la ricerca di un accordo il più ampio possibile. Altri ancora hanno votato no in dissenso con specifiche previsioni della riforma.

Che la compressione del regionalismo abbia preoccupato gli elettori delle regioni più fortunate è probabile. Sono tutti motivi, sia chiaro, né convergenti, né tanto meno coerenti. Alla faccia comunque di chi ha detto che la Costituzione è morta!

Un’altra forte motivazione è stato l’astio personale per Renzi. C’è una robusta vena di ipocrisia nelle pie dame che si sono scandalizzate per i toni allarmistici dei sostenitori del no. Forse, prese dalle loro orazioni, non si sono accorte della campagna bulimica e sguaiata condotta da Renzi, seguito dai suoi compari: dei toni beffardi, delle menzogne impudenti, delle minacce apocalittiche. Renzi ha personalizzato la campagna elettorale, confermando uno stile di comunicazione già manifestato ampiamente in quasi tre anni di governo. Pare che il Nostro non riesca a sfuggire al suo difetto fondamentale: l’assoluta mancanza di rispetto nei confronti dei suoi critici, perfino dei più garbati. Se stiamo a J.-W. Müller la delegittimazione dell’avversario è uno dei tratti più tipici del populismo.

La seconda e più sostanziosa componente del no – basti guardare alla sua composizione sociologica – è frutto della condizione di sofferenza in cui versa da almeno un quarto di secolo una parte larghissima della società italiana. È una condizione condivisa anche dalle altre società occidentali. Il successo del no, visto da questo punto di vista, appartiene alla medesima famiglia dell’avanzata del Fn in Francia, del Brexit nel Regno Unito, della vittoria di Donald Trump alle elezioni americane. Le politiche neoliberali hanno provato a curare i malanni manifestatisi negli anni ’70 – l’eccesso d’inflazione, gli sprechi della spesa pubblica, il blocco della crescita, la crisi fiscale – ma la medicina, per giunta somministrata in dosi da cavallo, si è dimostrata parecchio peggiore del male che avrebbe dovuto curare. Le condizioni della gran parte della popolazione sono mediamente deperite dappertutto e il numero dei left behind è andato crescendo, per precipitare in occasione della grande crisi iniziata nel 2008. E i left behind sono molto arrabbiati.

Tanto più che i left behind sono tali non solo socialmente e economicamente. Lo sono anche perché politicamente abbandonati e zittiti. I regimi democratici si sono immunizzati dal malessere suscitato dalle loro politiche tramite una contrazione delle opportunità di rappresentanza, se non addirittura attraverso una revoca silenziosa del suffragio universale: è stata la grande svolta manageriale ed efficientista dei regimi democratici, che in Italia si seguita a prescrivere dai primi anni ’80 e che la riforma Renzi/Boschi intendeva perfezionare. Semplificando: 1) i partiti di sinistra hanno tutti dismesso la loro missione originaria di protezione dei ceti deboli: i loro ceti dirigenti si sono integrati nell’establishment a pieno titolo; 2) le riorganizzazioni produttive, la deindustrializzazione, le delocalizzazioni, ecc. hanno abbattuto la capacità del mondo del lavoro di farsi ascoltare tramite l’azione collettiva; 3) la riscrittura in chiave dualistica del copione della competizione elettorale, compiuta col concorso dei media, ha ridotto le possibilità di scelta degli elettori (solo in Italia sono state riviste le regole elettorali); 4) una mole consistente di decisioni è stata delocalizzata a istituzioni “tecniche”, spesso sovranazionali, sottraendola alle istituzioni elettive. Si potrebbe continuare, ma la revoca del suffragio universale è nell’insieme avvenuta abbattendo il valore del voto.

 

2. Un voto arrabbiato, tra “exit” e “voice”

Come hanno reagito gli elettori? Essenzialmente in due modi. Il primo è l’exit. Cioè la crescita dell’astensione. Gli sciocchi e i superficiali, il mondo ne è pieno, replicano che l’astensione è un fenomeno condiviso da tutti i regimi democratici e non c’è da preoccuparsene. Non si accorgono che l’astensione è una forma di dissociazione silenziosa, è il segno che i cittadini non collaborano. Sono tempi difficili, in cui si assumono scelte difficili. La dissociazione, benché silenziosa, è grave danno. Che i governi democratici mediamente contino sul consenso di un quarto dell’elettorato non è salutare. Tanto più che il passo tra l’exit e forme scomposte di voice è molto breve.

L’altra reazione è per l’appunto la voice, cioè la protesta. Vettori della protesta sono una schiera di nuovi partiti che i loro concorrenti mainstream, col soccorso dell’accademia e dei media, hanno denominato populisti, con l’illusione di esorcizzarli esiliandoli in un altrove tenebroso, di dubbia – a loro dire – legittimità democratica. In realtà, l’etichetta populista è affibbiata a partiti molto diversi. A formazioni di sinistra, di destra e di ambigua ascendenza, come il Movimento 5 Stelle. È vero che il loro seguito sta prevalentemente tra i left behind, ma pure i left behind non sono tutti uguali. Vi sono le classi popolari e il mondo del lavoro, ma tra essi si annovera una quota sempre più ampia dei ceti intermedi, dipendenti e indipendenti, che, se non sono ancora left behind, rischiano di diventarlo: magari non lo sono di loro, ma vedono comunque appassire tra i left behind i loro figli, al cui futuro hanno dedicato spesso ingenti sacrifici.

I left behind tra i ceti intermedi sono stati anzi i primi ad accogliere l’offerta politica dei partiti populisti di destra. La radicalizzazione a destra di questi ceti, specie i ceti medi indipendenti, che in precedenza votavano per i partiti moderati e conservatori, è tra le novità più inquietanti dell’ultimo quarto di secolo. La novità nella novità è che i partiti populisti di destra – che hanno iscritto la xenofobia e l’intolleranza sulle loro insegne – sono riusciti ad attrarre, in misura crescente, elettori provenienti dalla sinistra o, nel caso dei giovani, da famiglie di sinistra. L’hanno fatto per loro merito, o per demerito dei partiti di sinistra? In ogni caso una delle tecniche con cui i populisti di estrema destra governano i left behind, attuali e potenziali, consiste nell’aizzarli gli uni contro gli altri: i bianchi contro i neri o gli ispanici; i settentrionali contro i meridionali; gli ex-minatori del nord-est francese contro le banlieues; gli autoctoni contro gli immigrati.

La comparsa di partiti di protesta alternativi, che credibilmente si richiamano alla tradizione della sinistra, come in Spagna, in Portogallo e, forse, in Grecia, è stata finora l’unico antidoto a simili degenerazioni. Dove quest’alternativa non sussiste, cosa resta ai left behind per comunicare la loro sofferenza e il loro malcontento? Si astengono, oppure profittano delle opportunità che offre loro il mercato politico. Sarebbe comunque grave errore sottovalutare la capacità dei populisti di destra – è il caso del Front national – di radicarsi, offrendo, quando dispongono di risorse di governo, qualche servizio protettivo.

Revocando il suffragio universale, i regimi democratici si sono illusi di aver sterilizzato il voto per i partiti di protesta. La sterilizzazione si sta rivelando molto imperfetta. Il Brexit è stato un modo per ricongiungere ogni sorta di left behind d’oltre Manica in un’impresa di sabotaggio estremo. E un sabotaggio è stato pure il successo del no al referendum del 4 dicembre scorso. Chi si sarebbe opposto a un aggiustamento della Costituzione ben fatto e fatto nelle forme appropriate? Le vittime protestano, per come possono, contro i loro carnefici. Fermo resta che i carnefici sono ben attrezzati per difendersi. Come ha appena ricordato Loris Caruso, i Repubblicani che si sono dissociati da Trump sono stati molto pochi. La vittoria di Trump è stata pertanto una colossale speculazione condotta da una fazione di carnefici a danno delle vittime, per giunta promuovendone l’imbarbarimento.

 

3. La scommessa persa di Renzi

Tutto questo non significa che la ribellione dei popoli debba necessariamente assumere tinte reazionarie o razziste. Dipende da chi la orienta. In America, oltre a Trump, c’era Sanders. In Italia l’inatteso afflusso alle urne che si è registrato il 4 dicembre lascia qualche speranza. Se tale afflusso si spiega col malcontento dei left behind, e con quello suscitato da Renzi e dal suo governo, ultimi anelli di una catena di governi uno più disastroso dell’altro, almeno in parte lo si può pure attribuire a una sincera attenzione per la Costituzione e per il modo d’intendere la democrazia che essa incarna.

Che gli umori dell’elettorato fossero infausti lo si poteva del resto immaginare. I sondaggi avevano annunciato il vantaggio del no. C’è da domandarsi perché mai Renzi abbia deciso di correre l’azzardo e pure in questo modo. Una risposta sta nel suo temperamento, nel suo eccesso di stima di sé, nella sua inclinazione a circondarsi di fedelissimi, incapaci di contraddirlo. Ma non gli mancava neppure una strategia, piuttosto lucida, in ragione delle circostanze. Renzi era arrivato al governo non solo col singolare avallo di Napolitano (di cui è difficile intendere fino in fondo le ragioni: che hanno indotto l’ex-presidente pure ad altre forzature politiche e istituzionali), ma anche suscitando e sfruttando una possente ondata anti-establishment in seno al suo stesso partito. La mossa di Renzi, fin dall’inizio, è stata quella di fare il Grillo dentro al Pd. Godendo di parecchi consensi nel mondo imprenditoriale e in quello dei media, si è fatto l’alfiere del “nuovismo” in seno a un partito balcanizzato e senza idee.

La balcanizzazione del Pd data da lungo tempo. È perfino genetica. Risale all’arrangiato matrimonio tra ex Dc ed ex Pci, fondato né su un reciproco legame di fiducia tra promessi sposi, pure divisi al loro interno, né su un progetto o programma politico. Il Pd è stato per lungo tempo tenuto assieme unicamente dall’avversione per Berlusconi. Fare storia controfattuale è un azzardo. Ma proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto se nel 2013 il Pd fosse riuscito a ottenere la maggioranza anche al Senato. Qual era il suo programma di governo, al di là delle capacità amministrative di cui Bersani ha dato prova nella sua carriera politica? Cosa l’avrebbe tenuto assieme, di fronte al disfacimento del berlusconismo, nel lungo periodo di una legislatura?

Persa l’occasione delle elezioni anticipate, al momento della caduta del governo Berlusconi, quando avrebbe potuto opporsi alla manovra di Napolitano che volle affidare le redini del paese a Mario Monti, Bersani è giunto esausto all’appuntamento elettorale ed è rimasto intrappolato dall’alchemica spartizione delle candidature. Per Renzi pertanto la personalizzazione è stata quasi un obbligo imposto dalle circostanze. Di suo, lui ci ha messo aggressività e spregiudicatezza senza limiti. Si può anche ben intendere perché mai abbia ammaliato tanti elettori del Pd, e della sinistra, oltre a persuadere una parte così larga della dirigenza nazionale e locale del partito, stremata dalla sua impotenza. Ne abbiamo provati tanti, devono aver pensato, perché non provare anche lui?

L’errore di Renzi, stile a parte, è stato la pretesa di fare del Pd il suo partito privato: un suo privato piedistallo elettorale, senza una vera dirigenza, fuori dei suoi amici stretti, e senz’altro programma che le prescrizioni della Ue e delle agenzie finanziarie internazionali. In assenza di meglio, Bruxelles e Berlino hanno deciso di assecondarlo e di sopportarne perfino alcuni moti – simbolici – di ribellione. Alle elezioni europee del 2014 Renzi si è giovato di alcune misure elettoralistiche che la Ue gli ha permesso. Anche se non ci si fa molto caso, il suo ripiegamento è però iniziato subito dopo, elezione dopo elezione. Solo che, anziché convincersi alla prudenza, lui ha alzato la posta e deciso di puntare tutte le sue carte sulla revisione degli assetti istituzionali e sulla riscrittura della legge elettorale. Non è infondato il sospetto che il suo reale obiettivo fosse proprio il referendum. Occupati armi alla mano tutti i canali di comunicazione (non c’era riuscito nemmeno Berlusconi), Renzi ha cercato attraverso il referendum quell’investitura popolare diretta che gli mancava e che lo spirito del tempo ritiene indispensabile, quantunque non lo sia nella lettera di un regime parlamentare qual è il nostro.

 

4. E ora?

Il plebiscito non c’è stato. Probabilmente perché l’operato del governo Renzi – un mix di pedaggi pagati alla Ue, ai mercati e agli imprenditori e d’improvvisate mance elettorali – ha forse persuaso la Ue, che però già si accinge a chiedere il conto, gli imprenditori e i mercati, ma non ha convinto quanto basta gli elettori. Non ha soprattutto rimosso alcuno dei motivi di malcontento. Che la condizione del paese sia migliorata dacché l’ex-sindaco di Firenze ne ha preso le redini è molto dubbio. Basti considerare le statistiche della povertà e i dati sul mercato del lavoro. Qualcuno dirà che senza di lui sarebbe andata ancora peggio. È possibile. Sta di fatto che a vincere – benché non da solo – è stato il malcontento, il quale adesso va in cerca di un nuovo sfogo politico. Purtroppo all’orizzonte di sfoghi se ne vedono pochi, anche perché il malcontento è politicamente assai complesso: c’è un malcontento dei ceti popolari e quello dei ceti medi; c’è il malcontento di sinistra, ma c’è pure il malcontento di destra: le culture politiche, checché se ne dica, sono piuttosto solide. Purtroppo, per disperazione gli elettori fanno tante cose, quantunque le scelte elettorali compiute per disperazione, o per dispetto, siano fragili, specie se mancano risposte. Dove approderà il malcontento?

Il candidato più credibile, al momento, è il Movimento 5 Stelle. Beppe Grillo aveva intrapreso la sua avventura politica raccogliendo il malcontento di sinistra e si è poi riposizionato per raccogliere la disperazione post-berlusconiana. Ma i 5 Stelle hanno già dimostrato di non avere né gambe, né cervello per andare lontano. A Torino la sindaca Appendino si è messa sulla scia di Fassino, si giova di una tradizione amministrativa solida e si contenta di gesti simbolici tanto timidi quanto vacui. Raggi a Roma è un disastro. Il problema fondamentale di 5 Stelle è la pochezza del suo personale politico e la sua genetica incapacità di cooperare con altri. Oltre alla mancanza di uno straccio di cultura e di progetto di governo. Nessuno ha dato a Raggi una mano, e i 5 Stelle non la vogliono da nessuno. Il Pd – che ha congedato la giunta Marino dal notaio – ha consegnato loro il governo della città per compiacersi adesso del disastro e per gridare allo scandalo (dopo le vergogne di Mafia Capitale). Vedremo cosa accadrà. Intanto, la verità è che il governo non s’improvvisa e neanche s’improvvisano i partiti.

Per parte sua, il centrodestra è non meno balcanizzato del Pd e non serve nemmeno a quest’ultimo per ritrovare un minimo di coesione. Che Renzi pertanto non molli, che rinneghi tutti i suoi impegni a uscire di scena, che s’intesti – illudendosi sulla sua compattezza e lealtà – il 40 per cento dei sì, è pertanto più che comprensibile. Ma resta sempre privo, anche per com’è fatto, di uno straccio di programma di governo. Sembra un film dell’orrore. Dove bisogna stare attenti. La disperazione, il caos politico e il clima d’attesa che in simili circostanze si crea per le soluzioni miracolistiche sono condizioni propizie alle avventure più rischiose.

Quel che risalta è l’assenza della sinistra. È un problema non solo italiano. La socialdemocrazia si è arresa in tutta Europa, strozzata dalle urgenze elettorali e dal decadimento delle sue dirigenze politiche. Se non che, se il Pd è balcanizzato, balcanizzata e preda di mediocri personalismi è pure l’altra sinistra, quella che si vuole alternativa.

I regimi democratici a lungo andare si stanno rivelando una trappola mortale. Sono nati per prevenire il dissenso dei governati e per suscitare il consenso. Una volta incoronato, tuttavia, il popolo sovrano nutre qualche aspettativa. Le attuali classi dirigenti in campagna elettorale farfugliano promesse per esaudirle, ma le disattendono puntualmente una volta elette. E quindi il malcontento cresce e cresce l’inclinazione a sterilizzarlo. Dove sta la via d’uscita? Per la sinistra – con molti forse: ne è ancora capace? – una via d’uscita sarebbe quella di riconciliare le sue diverse anime non attorno a un disegno di potere, ma a un programma politico, onde attrarre gli elettori. Ma tale programma è difficile da scrivere, perché mancano idee condivise e perché i problemi sono gravi e consumano consenso. Tanto più in Italia. Che è stata spietatamente saccheggiata dal berlusconismo, dove la macchina produttiva è devastata, anche per responsabilità della sinistra di governo, mentre, per colpa di tutti, il Mezzogiorno versa in condizioni disperate.

È inutile fingere di non saperlo. I danni di questo disastro non li pagheranno i responsabili, ma gli italiani. È il terribile destino dei popoli. Gli italiani già pagarono i danni del fascismo e della guerra. Un programma di sinistra dovrebbe onestamente partire da una presa d’atto di questa condizione, non rassegnarsi al decadimento, e distribuire per quanto è possibile equamente i costi del riscatto. Gli elettori di sinistra sono forse più maturi e più realisti di quelli di destra e potrebbero agire da leva per avviare lo sforzo collettivo imponente e oneroso che occorre a questo punto. In vista del quale andrebbe tuttavia assunta per cominciare la struttura composita della società italiana. È inutile sforzarsi di semplificarla tramite la legislazione elettorale. Meglio riconoscerla come un dato e pensare a come governarla. Una legge proporzionale ben temperata sarebbe magari un buon inizio. Ovviamente poi viene il resto. 

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