Fai una donazione

Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________

Amount
Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Tra delegittimazione e ristrutturazione: la dialettica circolare dell’astensione

di Eros Barone

astensioneiluvby.jpgMotus in fine velocior”

“Il moto è più veloce verso la fine”: la frase latina ben si attaglia alla descrizione di questa tappa del processo che scandisce la crisi organica del parlamentarismo borghese. Queste sono infatti le prime elezioni della storia della Repubblica in cui i votanti sono meno del 50%, per l’esattezza il 49,7%, nonostante la partecipazione diretta di molti leader di partito a questo tipo di campagna elettorale. Prendendo in considerazione i soli votanti e guardando non i voti assoluti ma le percentuali (giacché in termini assoluti ha votato meno della metà del corpo elettorale e lo stesso primato di Fdi è stato conseguito perdendo 600.000 voti rispetto alle elezioni politiche del 2022), i tre partiti di governo (Fdi, Forza Italia e Lega) vedono rafforzati i propri numeri, che insieme li portano a sfiorare il 48%. Nell’altra ala del bipolarismo competitivo avanzano il Pd, che rispetto alle politiche cresce sia in termini di voti assoluti che di percentuali (24%), e Alleanza Verdi Sinistra che, sull’onda della “candidatura-civetta” di Ilaria Salis, raggiunge il 6,6%. “Deludente”, come ha ammesso Giuseppe Conte, è il risultato di M5S, che scende sotto la soglia del 10%. Ancor più deludente il risultato conseguito dalla cosiddetta “area riformista”: né Stati Uniti d'Europa (3,76%) né Azione (3,35%) superano la soglia del 4% necessaria per mandare eletti a Strasburgo. 

Sennonché la discesa in campo di molti leader (Meloni, Tajani, Schlein) e i toni radicali con cui alcuni partiti hanno cercato di vivacizzare una campagna elettorale caratterizzata dal silenzio, in parte indifferente e in gran parte ostile, della maggioranza del corpo elettorale, non sono bastati a convincere la maggioranza dei cittadini a recarsi alle urne. Tanto più sguaiato appare pertanto lo strepitio levato dai leader dei maggiori partiti nel magnificare le vittorie di Pirro conseguite in una campagna elettorale in cui ha votato meno della metà del corpo elettorale.

Infatti, il dato del 49,7% di affluenza alle urne è inferiore tanto al 63,9% delle elezioni politiche del settembre 2022, quanto al 56,09% del 2019. E questo nonostante che il voto in 3.700 comuni e in Piemonte abbia fatto lievitare la partecipazione complessiva. Non a caso, è proprio nella circoscrizione del Nord Ovest che si registra la partecipazione più alta con il 55,09%, mentre la più bassa si registra al Sud (48,32%) e nelle Isole (37,20%), là dove si trova la base elettorale del Movimento 5 Stelle.

 

Due facce della stessa medaglia

Questa tornata delle elezioni europee segna quindi, per tutte le aree politiche, un vero e proprio salto di qualità nella crisi organica che attanaglia da tempo lo Stato e la stessa società italiana. Così è, a tutti gli effetti, e i risultati elettorali, per chi abbia seguìto le tappe successive di tale crisi, solo in apparenza sono sorprendenti. La delegittimazione di massa della rappresentanza politica e la ristrutturazione in senso autoritario dello Stato borghese sono due facce della stessa medaglia: due facce della crisi della formazione socio-economica italiana che vanno continuamente osservate, organicamente inserite nel contesto internazionale e congiuntamente analizzate, poiché costituiscono il problema fondamentale che oggi si pone nel nostro paese, così come in altri paesi europei. Ond’è che, se per un verso l’astensione testimonia il distacco o, più realisticamente, la nausea della maggioranza delle masse nei confronti di quelle maleodoranti stalle di Augìa che costituiscono, ai vari livelli, il parlamentarismo borghese, per un altro verso va posta a tema la modificazione che, nella fase attuale dell’imperialismo, è maturata nel sistema della rappresentanza politica. 

E però osservare unicamente la crescente distanza tra le masse e le istituzioni politiche potrebbe indurre a sopravvalutare il fenomeno in misura tale da spingere a ipotizzare persino il delinearsi di una situazione pre-insurrezionale, mentre cogliere unicamente l’aspetto della ridefinizione dei modelli del potere capitalistico significherebbe ignorare l’esperienza che le masse, spontaneamente, hanno fatto. Si tratta allora di cogliere la dialettica circolare che è propria del fenomeno, senza limitare lo sguardo a una sola delle due facce. Fondamentale è quindi la comprensione della causa che ha determinato l’astensione, di cui questa tornata elettorale ha mostrato una dimensione così vistosa. Una dimensione di tipo ‘americano’ che sta costringendo sia il ceto politico che quello giornalistico, a differenza di altre elezioni in cui il fenomeno era stato ignorato o minimizzato, a interrogarsi, con una certa ansia e una crescente preoccupazione, su quale sia, per l’appunto, la causa di un’astensione così imponente da restringere a tal punto la base sociale della rappresentatività delle istituzioni elettive. Orbene, mi sembra difficile negare che tale causa si identifichi con il passaggio, avvenuto dopo il 1989, dal regime socialdemocratico dei partiti di massa, partiti ‘pesanti’, al regime liberaldemocratico dei partiti di opinione, partiti ‘leggeri’. Tralasciando in questa sede la disàmina dei molteplici aspetti ed elementi che un simile passaggio comporta, è possibile individuare la causa, che ora ci interessa, nel mutamento radicale delle relazioni industriali costruite dal movimento operaio nel corso del Novecento e in particolare nel secondo dopoguerra. 

La conseguenza, fortemente avvertibile in un paese come l’Italia, che di quelle relazioni aveva rappresentato un esempio paradigmatico, è stata allora il venir meno di quel controllo e di quel contropotere proletario, rappresentati in qualche misura dalle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio, la cui presenza obbligava le classi dominanti a non prescindere dagli umori delle masse e ad agire al fine di impedirne i sempre possibili esiti rivoluzionari. D’altra parte, i frutti di quello che è stato definito il “compromesso keynesiano” furono indubbiamente significativi: basti pensare alla costituzionalizzazione del lavoro operaio e alla concessione di un numero non irrilevante di diritti sociali. Dal canto suo, il sistema dei partiti di massa traeva la sua legittimazione politica dal sostegno di settori importanti delle masse subalterne, le quali a loro volta ottenevano le conseguenti garanzie di ordine economico e sociale. 

Questo sistema di carattere neo-corporativo oggi non esiste più, in quanto la sempre più aspra competizione inter-imperialista sul mercato mondiale, quindi il vincolo esterno, i corrispettivi flussi migratori, l’assottigliamento dei privilegi dell’aristocrazia operaia, classica ‘frazione-cuscinetto’ tra il proletariato e la borghesia, e il sommarsi degli incalzanti eventi bellici in corso ai precedenti fattori, stanno togliendo al capitalismo italiano le basi e i margini della intermediazione sociale e, nel contempo, accorciano i tempi di una grande rottura sociale. Sullo sfondo si intravede l’ombra cupa e minacciosa del convitato di pietra di queste tornate elettorali: nell’area dell’astensione occupa infatti un vasto spazio il proletariato, la classe sfruttata e oppressa. Ma che cosa spinge nel senso della progressiva delegittimazione del ceto politico e della conseguente ristrutturazione autoritaria dello Stato? Per capire quali siano i fattori che spingono verso questo esito occorre scendere dal cielo della politica sulla terra dei rapporti sociali di produzione.

 

La sovrastruttura dipende dalla base

La fine dei partiti di massa è strettamente connessa alla obsolescenza di una determinata organizzazione del lavoro e, insieme con questa, di un modello di rappresentanza politica che estendeva la sua intermediazione a gran parte dei settori sociali. Sennonché il mutamento di quella organizzazione del lavoro e del sistema di relazioni industriali costruito su di essa conduce inevitabilmente al crollo dell’intero sistema politico che di esse costituiva, nel contempo, il prodotto e la garanzia. L’organizzazione attuale del lavoro ha modificato, per usare una categorizzazione marxiana, il rapporto tra cooperazione, associazione e sussunzione, laddove la schiacciante prevalenza di quest’ultima – la sussunzione reale al capitale – ha spazzato via quel patrimonio di certezze e di garanzie che le lotte operaie e popolari, con le loro relative conquiste, avevano creato. Oggi dobbiamo realisticamente riconoscere che non vi è più nulla di consolidato e di irrevocabile, tranne la dura legge dei rapporti di forza tra le classi.

Il quadro del conflitto sociale è cambiato e ha ben pochi rapporti con la storia precedente. Per le masse, il sistema della rappresentanza politica che ha dettato a lungo, almeno in parte, i tempi della politica appare del tutto estraneo e lontano. Dal canto suo, il mondo della politica istituzionale polarizza la sua attenzione soltanto verso quei blocchi sociali che sono direttamente legati agli interessi del capitalismo, dei suoi circoli e dei suoi circuiti. Nella loro pochezza e nel loro squallore, che è proprio di una classe servente (non dirigente), gli stessi uomini politici dei partiti borghesi confermano l’esistenza di questo legame di ferro con il profitto e con la rendita. Dunque la stessa democrazia delineata nella Costituzione ha cambiato pelle. La ‘governance’ è assicurata da un ristretto numero di consorterie collegate agli organismi politici, economici e militari sovrannazionali e protese a soddisfare gli appetiti e le volontà delle loro ristrette clientele. L’unico conflitto possibile in un simile contesto è dato allora dagli attriti momentanei che, volta per volta, sorgono tra le suddette clientele per la spartizione del plusvalore operaio. Si tratta, però, di attriti radenti, per usare il linguaggio della fisica, che non incidono in alcun modo sugli assetti strategici del blocco dominante, il quale, al contrario, sulle scelte di fondo manifesta una compattezza monolitica. Sicché il fatto che possa prodursi un momentaneo conflitto tra una frazione della borghesia e un’altra frazione è, in genere, del tutto inessenziale.

 

Dalla democrazia alla oligarchia: il ruolo della massoneria 

L’attuale regime è, sì, formalmente democratico, ma è privo di sostanza vitale, in altri termini è un mero guscio vuoto. Espropriazione della sovranità nazionale e della sovranità popolare, concentrazione del potere verso l’alto in ristretti gruppi oligarchici, partecipazione sempre più limitata e flebile alla vita pubblica, una diffusa corruzione, un’astensione elettorale che coinvolge oltre la metà dei cittadini aventi diritto al voto, emarginazione e discredito delle strutture intermedie (partiti, sindacati, Regioni ecc.): questi alcuni tratti salienti della democrazia borghese, i cui capisaldi, sempre più logori, restano a ogni modo, sia per le forze di governo che per quelle di opposizione, l’atlantismo, l’europeismo e il neoliberismo. 

Sennonché è evidente che un regime di questo tipo provoca necessariamente una traslazione di poteri in vari luoghi, molti dei quali opachi, per non dire impenetrabili. La crescente diffusione e penetrazione della massoneria nei gangli vitali dello Stato e di altre istituzioni collaterali è allora causa ed effetto di quel fenomeno che viene rubricato correntemente, con un sintagma peraltro fuorviante, come ‘crisi della politica’ o anche ‘crisi della democrazia’. Oggi la massoneria è una vera potenza, anche se è difficile, per definizione, valutare il peso effettivo di una organizzazione attraverso cui determinate frazioni della classe dominante, facendo leva su rapporti assai stretti con analoghe organizzazioni straniere, controllano alcune delle istituzioni culturali più prestigiose del nostro paese, diverse università tra le più importanti, interi settori degli apparati strategici dello Stato, nonché centri vitali dell’economia capitalistica pubblica e privata. È peraltro noto che esiste una distinzione fra la massoneria ‘buona’ e la massoneria ‘cattiva’ (si pensi alla loggia P2 di Licio Gelli e alle trame eversive che questa cricca borghese ha posto in essere, conseguendo, uno dopo l’altro, gli obiettivi prefissati nell’ossimorico “Piano di rinascita democratica” elaborato e puntualmente applicato dalla loggia P2).

Senza escludere che siano possibili conflitti tra l’una e l’altra componente della massoneria su questioni decisive, è tuttavia doveroso osservare che là dove non esistono né trasparenza degli atti e delle decisioni né visibilità degli associati è estremamente difficile individuare la linea di demarcazione tra l’una e l’altra massoneria. Soltanto l’obbligo generale, sancito per legge, di rendere pubblici gli elenchi degli iscritti consentirebbe di separare il grano dal loglio, ammesso e non concesso che, così come accade per la distinzione tra ‘denaro sporco’ e denaro ‘pulito’, sia possibile evocare un’analoga distinzione riguardo alla massoneria. 

In realtà, la tendenza che si è affermata nei regimi borghesi del nostro tempo è strutturalmente di tipo massonico, poiché occulta, sia a livello interno che a livello internazionale, l’esistenza, le procedure e il ‘modus operandi’ del potere del grande capitale monopolistico sotto una cappa impenetrabile di segretezza, come accade, in modo sostanzialmente affine, con le istituzioni dell’Unione Europea e con centri di potere informali, quali il Gruppo Bilderberg e la potente banca d’affari Goldman Sachs (dei quali faceva parte, come è noto, Romano Prodi). Tanto per dare una plastica idea della composizione di queste organizzazioni, basti pensare che a una delle ultime riunioni del Gruppo Bilderberg hanno preso parte, in ordine alfabetico, il manager Franco Bernabè, il presidente di Fca John Elkann, la giornalista Lilli Gruber, l’ex commissario UE ed ex premier Mario Monti e il numero uno di Techint, Gianfelice Rocca.

 

Un esperimento ideale: come avrebbe reagito il sistema politico italiano se l’astensione attuale si fosse verificata nel 1978?

Questa progressiva crisi di rappresentanza mostrata dalle elezioni che si svolgono nel nostro paese non è quindi il semplice specchio di una crisi del sistema politico, bensì il risultato di una trasformazione radicale della nostra società.

Per comprenderla poniamo per ipotesi che un dato simile a quello prodotto dalle recenti elezioni fosse uscito dalle urne nel 1978. Indubbiamente le reazioni del mondo politico sarebbero state di ben altro tenore e la scollatura tra mondo della politica e paese reale sarebbe stata osservata con occhi ben diversi. Nessuno, dotato di un minimo di buon senso, avrebbe potuto tirare dritto o addirittura cantare vittoria. Il problema, assolutamente reale, di una complessiva riconquista del consenso in gran parte degli ambiti sociali sfuggiti al sistema della rappresentanza sarebbe stato l’obiettivo strategico di tutte le forze politiche. Perché? 

Perché in quel contesto era impensabile pensare di poter governare avendo dalla propria parte soltanto un terzo della società. Le retoriche dell’epoca intorno alla “società dei due terzi” contenevano pure un qualche grano di verità. Con ogni probabilità, soprattutto in virtù della presenza di organizzazioni comuniste saldamente radicate e attive nel paese, l’astensione sarebbe stata letta come possibile spostamento di masse rilevanti di popolazione verso ipotesi e indicazioni politiche decisamente antagoniste al sistema rappresentativo della democrazia borghese. Un risultato elettorale simile sarebbe stato percepito dal sistema politico di allora, più che come un campanello d’allarme, come una vera e propria campana a morto. Certo, con ogni probabilità, l’astensione di massa, in quel contesto, si sarebbe sommata ad altrettante mobilitazioni e insorgenze di massa, generando una situazione in cui la maggioranza dei cittadini avrebbe mostrato di non essere più disposta a essere governata da quel ceto politico. Un dato astensionista delle dimensioni attuali sarebbe stato percepito come delegittimazione politica di massa del sistema politico, con tutte le conseguenze del caso, mentre ora è facile prevedere che la delegittimazione, più o meno mascherata e imbellettata, spingerà sempre di più, alimentandosi con esse, la ristrutturazione autoritaria dello Stato e l’azione di un ceto politico screditato. 

Pin It

Comments

Search Reset
1
Eros Barone
Tuesday, 18 June 2024 18:06
Innanzitutto, mi scuso con Paolo per il ritardo con cui riprendo, condizionato da circostanze e priorità esterne ma stimolato dal suo commento, come sempre ampio, originale, articolato e incisivo, i temi che egli ha, per così dire, ‘estratto’ da questo mio articolo, aggiungendo qualche altro anello alla “catena dei perché”. Per prima cosa, osservo che di fronte alla rottura storica del ‘pactum societatis’, che si è espressa con l’astensione dal voto nelle recenti elezioni, il semplice buon senso dovrebbe suggerire alle classi dirigenti un radicale cambio di marcia con il ritorno a politiche economiche neokeynesiane e con la creazione dei correlativi spazi di agibilità politica e di iniziativa diretta delle masse. Il problema però è che il capitalismo, se vuole sopravvivere, non può invertire la rotta nel momento in cui il processo di globalizzazione mostra la corda, si assiste ad un ritorno massiccio del protezionismo, i conflitti tra nazioni e blocchi regionali per il controllo dei mercati si acuiscono e la crescita della Cina, che per decenni è stata la soluzione al problema delle crisi occidentali, minaccia di trasformarsi in un incubo, a mano a mano che diviene autocentrata. In realtà, in un contesto internazionale come quello in cui ci troviamo attualmente anche le riforme proposte da alcuni populismi di sinistra rappresentano una minaccia mortale per la forma di capitalismo che si è affermata negli ultimi decenni. D’altra parte, l’esperienza storica dimostra che per imporre simili cambiamenti non basta andare al governo, perché si tratta di cambiare le strutture stesse e i meccanismi di funzionamento del potere politico. Ma qual è, in assenza della centralità storica della fabbrica – domanda giustamente Paolo Selmi – l’asse della ricomposizione del proletariato? Senza contare che, di fronte alla minaccia (puramente ipotetica) di un governo democratico, popolare e seriamente riformatore, il sistema reagirebbe con la stessa durezza con cui in passato ha reagito ai tentativi di rivoluzione socialista. Se questo è vero, occorre rispondere ai seguenti interrogativi: perché le “sinistre radicali” non sono in grado (e del resto nemmeno si propongono) di lanciare una simile sfida? perché i movimenti populisti di sinistra hanno perso lo slancio iniziale e hanno accantonato le loro velleità anti-sistema? che composizione di classe dovrebbe avere un blocco sociale capace di sostenere un progetto di cambiamento? che forme politiche e istituzionali dovrebbe darsi? Per avere una prima risposta alle domande or ora formulate è sufficiente rivolgere lo sguardo, da un lato, alla costellazione dei centri sociali e a movimenti come l’ecologismo e il femminismo che possono essere definiti una sorta di residuo politico-culturale dei movimenti di massa degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso; dall’altro, a quanto rimane dei vecchi partiti comunisti. Restano fuori, ovviamente, da questa costellazione forze come il Pd e SI (assimilabile di fatto al Pd) che, data la loro adesione ai principi e ai valori liberali, fanno parte del (per ora dominante) bipolarismo competitivo e minoritario, all’interno del quale rappresentano un’opposizione formale e di facciata. Quella costellazione è caratterizzata da un’ideologia libertaria, antistatalista e sostanzialmente antipolitica, in forza della quale la rinuncia pressoché totale agli obiettivi delle lotte sociali è stata sostituita dalle rivendicazioni dei diritti individuali e civili. Si possono anche definire di ‘sinistra’, purché sia chiaro che si tratta (non della sinistra rossa ma) della “sinistra bianca”. Questi soggetti hanno completamente rinunciato a lottare per la conquista del potere politico e tendono ad agire come gruppi di pressione in grado di limitarlo e controllarlo. Non solo, ma sono duramente critici nei confronti dei regimi che si definiscono comunisti e di qualsiasi idea di socialismo che metta in discussione i principi e le procedure della democrazia liberale. Professano inoltre un’ideologia cosmopolita che non ha nulla a che fare con la tradizione internazionalista del movimento operaio. È poi da notare che tutte queste componenti manifestano un profondo disprezzo per le classi subalterne, che considerano un terreno di caccia delle ideologie conservatrici e di destra. Il secondo gruppo, tanto più variegato quanto più frammentato, è quello dei partiti neocomunisti, che comprende sia posizioni di sostanziale adesione alle ideologie libertarie e politicamente corrette del primo gruppo, sia posizioni di pura difesa identitaria che condannano queste formazioni ad un minoritarismo senza prospettive. In tale gruppo sono però presenti posizioni più avanzate che potrebbero rappresentare un’importante alternativa di classe nel futuro. Infine, occorre fare i conti, come sostiene giustamente Paolo, con il tema della costruzione di un nuovo blocco sociale, sapendo che tale compito si presenta assai diverso nel contesto delle società occidentali rispetto ai contesti asiatici e latino-americani. Se in quei casi il problema era costruire alleanze fra le classi subalterne, da noi il problema prioritario è ricostruire l’unità del proletariato. In altre parole: nei nostri paesi costruire il blocco sociale significa in primo luogo ricostruire l’unità della classe lavoratrice. Occorre dunque un progetto che, facendo passare il proletariato da “classe in sé” a “classe per sé”, lo affranchi dalla condizione gregaria di capitale variabile. E la lotta contro l’opportunismo diventa, come ha insegnato Lenin, il compito fondamentale nel realizzare questo passaggio. Il problema delle alleanze appare pertanto secondario rispetto a questo compito prioritario, e andrà risolto attraverso un’accurata ricognizione delle contraddizioni interne alle classi medie, separando gli strati inferiori, che più hanno subito i contraccolpi della crisi, dagli strati
medio-alti che restano saldamente inseriti nel blocco egemone delle classi dominanti e dei quali fanno parte anche quei “ceti medi riflessivi” che costituiscono la base sociale delle sinistre istituzionali. Come è noto, la dottrina postmoderna della fine della storia non prevedeva per noi un futuro molto diverso dal presente. La sinistra di classe, nell’affrontare i suoi antagonisti politici, ha bisogno, oggi più che mai, di saldi fondamenti etici e anche antropologici, poiché, tra vari altri, un futuro possibile è il fascismo: soltanto da tali fondamenti possiamo attingere le risorse politiche che ci occorrono.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
1
Paolo Selmi
Thursday, 20 June 2024 12:33
“La sinistra di classe, nell’affrontare i suoi antagonisti politici, ha bisogno, oggi più che mai, di saldi fondamenti etici e anche antropologici, poiché, tra vari altri, un futuro possibile è il fascismo: soltanto da tali fondamenti possiamo attingere le risorse politiche che ci occorrono.”

Grazie mille Eros! La tua analisi non fa una piega e questa conclusione riassume con poche parole quanto tempo abbiamo perso e quanta strada abbiamo ancora da fare.

Un abbraccio

Paolo
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
1
PAOLO
Friday, 14 June 2024 10:53
Le cause dell'astensione?
- Circoscrizione Sud: Isole 8 rappresentanti eletti (Malta 5), popolazione Siciliana 4.789.161 al 31 Maggio 2023; popolazione Sarda 1.578.146 al 1 Gennaio 2023: quale capacità elettiva aveva la Sardegna considerando numero di abitanti e influenze mafiose?
- Qual'è stata la posizione dei partiti CONTRO la guerra per procura?
Like Like like 1 Reply | Reply with quote | Quote
1
Paolo Selmi
Thursday, 13 June 2024 18:03
Carissimo Eros,
grazie mille per questo lavoro e in particolare per l'ultimo punto, che mi consente di provare a fare un po' di storia coi se e coi ma. Riappropriandoci di questo diritto non per fantasticare, non per dare ragione ai "maestri di pensiero" borghesi e della reazione, secondo cui è solo utopia, sono solo canzonette, ma perché è davvero un esercizio utile a noi per capire cosa eravamo e cosa siamo, cosa siamo diventati.

Si, sono convintissimo che sarebbe stato un macello un tasso di astensione di questo tipo. Governi e segreterie di partito in piena crisi, ricerca del colpevole ma, SOPRATTUTTO, di NUOVE FORME DI PARTECIPAZIONE, parallele, se non ALTERNATIVE alla forma parlamentare.

Ero troppo piccolo, all'epoca. E tali letture sono state oggetto di studio MOLTO più tardi, TROPPO tardi, ma tramite mio padre mi sono arrivate
Intervista sul sindacato di Lama
Da sfruttati a produttori di Trentin.
da cui emerge questo OGGETTO STRANO, di nome CONSIGLIO DI FABBRICA.

E qui torniamo a quanto scrivevi prima. Semplicemente, PRIMA c'era il LUOGO, che da luogo di sfruttamento e basta era divenuto, grazie a decenni di lotte, anche LUOGO di partecipazione, crescita politica e di coscienza collettiva.

OGGI questo LUOGO non c'è più. I luoghi dello sfruttamento capitalistico sono parcellizzati, disgregati, dematerializzati, esternalizzati... fino a entrare nelle case di ciascuno con il cosiddetto "lavoro agile".

Che per inciso non è nulla di nuovo, visto che dalle nostre parti per tutti gli anni Settanta e Ottanta giravano di casa in casa figure equivoche rotoli e rotoli con pizzi a nastro e patacche varie stampate su tessuti da dare alle casalinghe le quali, tra una spesa e una passata di scopa, "stratagliavano" tali pizzi o patacche con le forbicine curve da unghie, cavandosi la vista per consegnare il tutto due o tre giorni dopo.

Lo facevano già allora lo smart working!!! Solo che non lo chiamavano così... anzi, facevano addirittura fatica a chiamarlo "lavoro"...

Certo, quelle donne, col marito che lavorava in fabbrica, o col figlio che lavorava in fabbrica, facevano fatica a chiamarlo lavoro.

Oggi NO. E che CONSIGLIO DI FABBRICA facciamo... se non esiste più nemmeno la FABBRICA?
Come ci troviamo? Su Zum? O su qualche altra diavoleria?

Ma torniamo a quel CONSIGLIO DI FABBRICA, con la macchina del tempo, io che peraltro non l'ho neppure vissuto è macchina del tempo doppia.

Si parlava - correggimi se sbaglio! - non solo di difesa dei diritti dei lavoratori, ma anche di GESTIONE DELLA FABBRICA stessa, ragionando su questioni complesse relative alla produzione e non solo. DALLA FABBRICA AL TERRITORIO IL PASSO ERA BREVE! A questo punto GESTIONE DEL TERRITORIO poteva voler dire URBANISTICA, ma anche GESTIONE DEI SERVIZI PUBBLICI COLLEGATI ALLA FABBRICA STESSA.

Altro che azionariato diffuso... l'esatto contrario! LA SOCIALIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE, LA SOCIALIZZAZIONE DELLA GESTIONE DELLA PRODUZIONE, LA SOCIALIZZAZIONE DELLA RIDEFINIZIONE CONTINUA DI CIO' CHE SONO I NOSTRI BISOGNI, LE NOSTRE NECESSITA', rivisti non più secondo la formula "ognuno per sé e dio per tutti", ma "tutti per uno, uno per tutti".

Quest'ultimo punto poi avrebbe consentito di ragionare, PER ESEMPIO MA NON SOLO, sulla definizione stessa di CONSUMO, e quindi di CONSUMISMO.

E qui altro che PARTECIPAZIONE, altro che Bersani che, nella sua emilianità colorita, dice "bisogna andar nel bosco a prenderli (i non votanti)", sarebbero stati loro a uscire dal bosco! A frotte!

Torniamo all'oggi. La fabbrica non c'è più. O se c'è non può esser da sola un punto di riferimento. QUALE LUOGO POSSIAMO COSTRUIRE PER CREARE UNA STRUTTURA ANALOGA IN GRADO DI ESPRIMERE QUELLA POTENZIALITA'? QUELLA CAPACITA' ATTRATTIVA ED ESPANSIVA ALLO STESSO TEMPO?

IL PARTITO? LA SEZIONE? Poi però, a parte i quattro gatti che siam rimasti, rimarrebbe connotato e rischierebbe di restare nicchia.

Persino in URSS I SOVIET inizialmente non erano le sedi del Partito socialista e basta...

Torniamo ancora ai Consigli, che con tutto rispetto per i centri sociali, non erano centri sociali. Non erano luoghi, aperti a tutti, ma anche qui di nicchia.

Cosa ha da insegnarci allora l'esperienza dei consigli? SOPRATTUTTO, HA QUALCOSA ANCORA DA INSEGNARCI RISPETTO QUANTO GIA' DETTO E SCRITTO?
PER L'OGGI? PER L'ORA?

Mi spiace chiudere questo commento con una domanda... ma ultimamente ho più domande che risposte!

Un abbraccio
Paolo
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
1
Paolo Selmi
Thursday, 13 June 2024 18:09
PS prima che Vladimir Ilich da dove si trova adesso mi raggiunga con uno strale, per "partito socialista" intendevo PSDR! Dixi et salvavi animam meam... o quantomeno la pelata.
Like Like like 1 Reply | Reply with quote | Quote
0
FABERESTSUAE
Friday, 14 June 2024 02:27
Grazie Paolo è sempre un piacere leggere le tue riflessioni così centrate, e grazie Eros, per l'articolo puntuale, la comparazione funziona e spiazza nella sua verità materiale.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit