
Tra delegittimazione e ristrutturazione: la dialettica circolare dell’astensione
di Eros Barone
“Motus in fine velocior”
“Il moto è più veloce verso la fine”: la frase latina ben si attaglia alla descrizione di questa tappa del processo che scandisce la crisi organica del parlamentarismo borghese. Queste sono infatti le prime elezioni della storia della Repubblica in cui i votanti sono meno del 50%, per l’esattezza il 49,7%, nonostante la partecipazione diretta di molti leader di partito a questo tipo di campagna elettorale. Prendendo in considerazione i soli votanti e guardando non i voti assoluti ma le percentuali (giacché in termini assoluti ha votato meno della metà del corpo elettorale e lo stesso primato di Fdi è stato conseguito perdendo 600.000 voti rispetto alle elezioni politiche del 2022), i tre partiti di governo (Fdi, Forza Italia e Lega) vedono rafforzati i propri numeri, che insieme li portano a sfiorare il 48%. Nell’altra ala del bipolarismo competitivo avanzano il Pd, che rispetto alle politiche cresce sia in termini di voti assoluti che di percentuali (24%), e Alleanza Verdi Sinistra che, sull’onda della “candidatura-civetta” di Ilaria Salis, raggiunge il 6,6%. “Deludente”, come ha ammesso Giuseppe Conte, è il risultato di M5S, che scende sotto la soglia del 10%. Ancor più deludente il risultato conseguito dalla cosiddetta “area riformista”: né Stati Uniti d'Europa (3,76%) né Azione (3,35%) superano la soglia del 4% necessaria per mandare eletti a Strasburgo.
Sennonché la discesa in campo di molti leader (Meloni, Tajani, Schlein) e i toni radicali con cui alcuni partiti hanno cercato di vivacizzare una campagna elettorale caratterizzata dal silenzio, in parte indifferente e in gran parte ostile, della maggioranza del corpo elettorale, non sono bastati a convincere la maggioranza dei cittadini a recarsi alle urne. Tanto più sguaiato appare pertanto lo strepitio levato dai leader dei maggiori partiti nel magnificare le vittorie di Pirro conseguite in una campagna elettorale in cui ha votato meno della metà del corpo elettorale.
Infatti, il dato del 49,7% di affluenza alle urne è inferiore tanto al 63,9% delle elezioni politiche del settembre 2022, quanto al 56,09% del 2019. E questo nonostante che il voto in 3.700 comuni e in Piemonte abbia fatto lievitare la partecipazione complessiva. Non a caso, è proprio nella circoscrizione del Nord Ovest che si registra la partecipazione più alta con il 55,09%, mentre la più bassa si registra al Sud (48,32%) e nelle Isole (37,20%), là dove si trova la base elettorale del Movimento 5 Stelle.
Due facce della stessa medaglia
Questa tornata delle elezioni europee segna quindi, per tutte le aree politiche, un vero e proprio salto di qualità nella crisi organica che attanaglia da tempo lo Stato e la stessa società italiana. Così è, a tutti gli effetti, e i risultati elettorali, per chi abbia seguìto le tappe successive di tale crisi, solo in apparenza sono sorprendenti. La delegittimazione di massa della rappresentanza politica e la ristrutturazione in senso autoritario dello Stato borghese sono due facce della stessa medaglia: due facce della crisi della formazione socio-economica italiana che vanno continuamente osservate, organicamente inserite nel contesto internazionale e congiuntamente analizzate, poiché costituiscono il problema fondamentale che oggi si pone nel nostro paese, così come in altri paesi europei. Ond’è che, se per un verso l’astensione testimonia il distacco o, più realisticamente, la nausea della maggioranza delle masse nei confronti di quelle maleodoranti stalle di Augìa che costituiscono, ai vari livelli, il parlamentarismo borghese, per un altro verso va posta a tema la modificazione che, nella fase attuale dell’imperialismo, è maturata nel sistema della rappresentanza politica.
E però osservare unicamente la crescente distanza tra le masse e le istituzioni politiche potrebbe indurre a sopravvalutare il fenomeno in misura tale da spingere a ipotizzare persino il delinearsi di una situazione pre-insurrezionale, mentre cogliere unicamente l’aspetto della ridefinizione dei modelli del potere capitalistico significherebbe ignorare l’esperienza che le masse, spontaneamente, hanno fatto. Si tratta allora di cogliere la dialettica circolare che è propria del fenomeno, senza limitare lo sguardo a una sola delle due facce. Fondamentale è quindi la comprensione della causa che ha determinato l’astensione, di cui questa tornata elettorale ha mostrato una dimensione così vistosa. Una dimensione di tipo ‘americano’ che sta costringendo sia il ceto politico che quello giornalistico, a differenza di altre elezioni in cui il fenomeno era stato ignorato o minimizzato, a interrogarsi, con una certa ansia e una crescente preoccupazione, su quale sia, per l’appunto, la causa di un’astensione così imponente da restringere a tal punto la base sociale della rappresentatività delle istituzioni elettive. Orbene, mi sembra difficile negare che tale causa si identifichi con il passaggio, avvenuto dopo il 1989, dal regime socialdemocratico dei partiti di massa, partiti ‘pesanti’, al regime liberaldemocratico dei partiti di opinione, partiti ‘leggeri’. Tralasciando in questa sede la disàmina dei molteplici aspetti ed elementi che un simile passaggio comporta, è possibile individuare la causa, che ora ci interessa, nel mutamento radicale delle relazioni industriali costruite dal movimento operaio nel corso del Novecento e in particolare nel secondo dopoguerra.
La conseguenza, fortemente avvertibile in un paese come l’Italia, che di quelle relazioni aveva rappresentato un esempio paradigmatico, è stata allora il venir meno di quel controllo e di quel contropotere proletario, rappresentati in qualche misura dalle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio, la cui presenza obbligava le classi dominanti a non prescindere dagli umori delle masse e ad agire al fine di impedirne i sempre possibili esiti rivoluzionari. D’altra parte, i frutti di quello che è stato definito il “compromesso keynesiano” furono indubbiamente significativi: basti pensare alla costituzionalizzazione del lavoro operaio e alla concessione di un numero non irrilevante di diritti sociali. Dal canto suo, il sistema dei partiti di massa traeva la sua legittimazione politica dal sostegno di settori importanti delle masse subalterne, le quali a loro volta ottenevano le conseguenti garanzie di ordine economico e sociale.
Questo sistema di carattere neo-corporativo oggi non esiste più, in quanto la sempre più aspra competizione inter-imperialista sul mercato mondiale, quindi il vincolo esterno, i corrispettivi flussi migratori, l’assottigliamento dei privilegi dell’aristocrazia operaia, classica ‘frazione-cuscinetto’ tra il proletariato e la borghesia, e il sommarsi degli incalzanti eventi bellici in corso ai precedenti fattori, stanno togliendo al capitalismo italiano le basi e i margini della intermediazione sociale e, nel contempo, accorciano i tempi di una grande rottura sociale. Sullo sfondo si intravede l’ombra cupa e minacciosa del convitato di pietra di queste tornate elettorali: nell’area dell’astensione occupa infatti un vasto spazio il proletariato, la classe sfruttata e oppressa. Ma che cosa spinge nel senso della progressiva delegittimazione del ceto politico e della conseguente ristrutturazione autoritaria dello Stato? Per capire quali siano i fattori che spingono verso questo esito occorre scendere dal cielo della politica sulla terra dei rapporti sociali di produzione.
La sovrastruttura dipende dalla base
La fine dei partiti di massa è strettamente connessa alla obsolescenza di una determinata organizzazione del lavoro e, insieme con questa, di un modello di rappresentanza politica che estendeva la sua intermediazione a gran parte dei settori sociali. Sennonché il mutamento di quella organizzazione del lavoro e del sistema di relazioni industriali costruito su di essa conduce inevitabilmente al crollo dell’intero sistema politico che di esse costituiva, nel contempo, il prodotto e la garanzia. L’organizzazione attuale del lavoro ha modificato, per usare una categorizzazione marxiana, il rapporto tra cooperazione, associazione e sussunzione, laddove la schiacciante prevalenza di quest’ultima – la sussunzione reale al capitale – ha spazzato via quel patrimonio di certezze e di garanzie che le lotte operaie e popolari, con le loro relative conquiste, avevano creato. Oggi dobbiamo realisticamente riconoscere che non vi è più nulla di consolidato e di irrevocabile, tranne la dura legge dei rapporti di forza tra le classi.
Il quadro del conflitto sociale è cambiato e ha ben pochi rapporti con la storia precedente. Per le masse, il sistema della rappresentanza politica che ha dettato a lungo, almeno in parte, i tempi della politica appare del tutto estraneo e lontano. Dal canto suo, il mondo della politica istituzionale polarizza la sua attenzione soltanto verso quei blocchi sociali che sono direttamente legati agli interessi del capitalismo, dei suoi circoli e dei suoi circuiti. Nella loro pochezza e nel loro squallore, che è proprio di una classe servente (non dirigente), gli stessi uomini politici dei partiti borghesi confermano l’esistenza di questo legame di ferro con il profitto e con la rendita. Dunque la stessa democrazia delineata nella Costituzione ha cambiato pelle. La ‘governance’ è assicurata da un ristretto numero di consorterie collegate agli organismi politici, economici e militari sovrannazionali e protese a soddisfare gli appetiti e le volontà delle loro ristrette clientele. L’unico conflitto possibile in un simile contesto è dato allora dagli attriti momentanei che, volta per volta, sorgono tra le suddette clientele per la spartizione del plusvalore operaio. Si tratta, però, di attriti radenti, per usare il linguaggio della fisica, che non incidono in alcun modo sugli assetti strategici del blocco dominante, il quale, al contrario, sulle scelte di fondo manifesta una compattezza monolitica. Sicché il fatto che possa prodursi un momentaneo conflitto tra una frazione della borghesia e un’altra frazione è, in genere, del tutto inessenziale.
Dalla democrazia alla oligarchia: il ruolo della massoneria
L’attuale regime è, sì, formalmente democratico, ma è privo di sostanza vitale, in altri termini è un mero guscio vuoto. Espropriazione della sovranità nazionale e della sovranità popolare, concentrazione del potere verso l’alto in ristretti gruppi oligarchici, partecipazione sempre più limitata e flebile alla vita pubblica, una diffusa corruzione, un’astensione elettorale che coinvolge oltre la metà dei cittadini aventi diritto al voto, emarginazione e discredito delle strutture intermedie (partiti, sindacati, Regioni ecc.): questi alcuni tratti salienti della democrazia borghese, i cui capisaldi, sempre più logori, restano a ogni modo, sia per le forze di governo che per quelle di opposizione, l’atlantismo, l’europeismo e il neoliberismo.
Sennonché è evidente che un regime di questo tipo provoca necessariamente una traslazione di poteri in vari luoghi, molti dei quali opachi, per non dire impenetrabili. La crescente diffusione e penetrazione della massoneria nei gangli vitali dello Stato e di altre istituzioni collaterali è allora causa ed effetto di quel fenomeno che viene rubricato correntemente, con un sintagma peraltro fuorviante, come ‘crisi della politica’ o anche ‘crisi della democrazia’. Oggi la massoneria è una vera potenza, anche se è difficile, per definizione, valutare il peso effettivo di una organizzazione attraverso cui determinate frazioni della classe dominante, facendo leva su rapporti assai stretti con analoghe organizzazioni straniere, controllano alcune delle istituzioni culturali più prestigiose del nostro paese, diverse università tra le più importanti, interi settori degli apparati strategici dello Stato, nonché centri vitali dell’economia capitalistica pubblica e privata. È peraltro noto che esiste una distinzione fra la massoneria ‘buona’ e la massoneria ‘cattiva’ (si pensi alla loggia P2 di Licio Gelli e alle trame eversive che questa cricca borghese ha posto in essere, conseguendo, uno dopo l’altro, gli obiettivi prefissati nell’ossimorico “Piano di rinascita democratica” elaborato e puntualmente applicato dalla loggia P2).
Senza escludere che siano possibili conflitti tra l’una e l’altra componente della massoneria su questioni decisive, è tuttavia doveroso osservare che là dove non esistono né trasparenza degli atti e delle decisioni né visibilità degli associati è estremamente difficile individuare la linea di demarcazione tra l’una e l’altra massoneria. Soltanto l’obbligo generale, sancito per legge, di rendere pubblici gli elenchi degli iscritti consentirebbe di separare il grano dal loglio, ammesso e non concesso che, così come accade per la distinzione tra ‘denaro sporco’ e denaro ‘pulito’, sia possibile evocare un’analoga distinzione riguardo alla massoneria.
In realtà, la tendenza che si è affermata nei regimi borghesi del nostro tempo è strutturalmente di tipo massonico, poiché occulta, sia a livello interno che a livello internazionale, l’esistenza, le procedure e il ‘modus operandi’ del potere del grande capitale monopolistico sotto una cappa impenetrabile di segretezza, come accade, in modo sostanzialmente affine, con le istituzioni dell’Unione Europea e con centri di potere informali, quali il Gruppo Bilderberg e la potente banca d’affari Goldman Sachs (dei quali faceva parte, come è noto, Romano Prodi). Tanto per dare una plastica idea della composizione di queste organizzazioni, basti pensare che a una delle ultime riunioni del Gruppo Bilderberg hanno preso parte, in ordine alfabetico, il manager Franco Bernabè, il presidente di Fca John Elkann, la giornalista Lilli Gruber, l’ex commissario UE ed ex premier Mario Monti e il numero uno di Techint, Gianfelice Rocca.
Un esperimento ideale: come avrebbe reagito il sistema politico italiano se l’astensione attuale si fosse verificata nel 1978?
Questa progressiva crisi di rappresentanza mostrata dalle elezioni che si svolgono nel nostro paese non è quindi il semplice specchio di una crisi del sistema politico, bensì il risultato di una trasformazione radicale della nostra società.
Per comprenderla poniamo per ipotesi che un dato simile a quello prodotto dalle recenti elezioni fosse uscito dalle urne nel 1978. Indubbiamente le reazioni del mondo politico sarebbero state di ben altro tenore e la scollatura tra mondo della politica e paese reale sarebbe stata osservata con occhi ben diversi. Nessuno, dotato di un minimo di buon senso, avrebbe potuto tirare dritto o addirittura cantare vittoria. Il problema, assolutamente reale, di una complessiva riconquista del consenso in gran parte degli ambiti sociali sfuggiti al sistema della rappresentanza sarebbe stato l’obiettivo strategico di tutte le forze politiche. Perché?
Perché in quel contesto era impensabile pensare di poter governare avendo dalla propria parte soltanto un terzo della società. Le retoriche dell’epoca intorno alla “società dei due terzi” contenevano pure un qualche grano di verità. Con ogni probabilità, soprattutto in virtù della presenza di organizzazioni comuniste saldamente radicate e attive nel paese, l’astensione sarebbe stata letta come possibile spostamento di masse rilevanti di popolazione verso ipotesi e indicazioni politiche decisamente antagoniste al sistema rappresentativo della democrazia borghese. Un risultato elettorale simile sarebbe stato percepito dal sistema politico di allora, più che come un campanello d’allarme, come una vera e propria campana a morto. Certo, con ogni probabilità, l’astensione di massa, in quel contesto, si sarebbe sommata ad altrettante mobilitazioni e insorgenze di massa, generando una situazione in cui la maggioranza dei cittadini avrebbe mostrato di non essere più disposta a essere governata da quel ceto politico. Un dato astensionista delle dimensioni attuali sarebbe stato percepito come delegittimazione politica di massa del sistema politico, con tutte le conseguenze del caso, mentre ora è facile prevedere che la delegittimazione, più o meno mascherata e imbellettata, spingerà sempre di più, alimentandosi con esse, la ristrutturazione autoritaria dello Stato e l’azione di un ceto politico screditato.






































Grazie mille Eros! La tua analisi non fa una piega e questa conclusione riassume con poche parole quanto tempo abbiamo perso e quanta strada abbiamo ancora da fare.
Un abbraccio
Paolo