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Israele: quei 700.000 coloni che impediscono la pace

di Giulio Bellotto

Radiografia degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est

Banksy in Bethlehem doveIl documentario «The Settlers», mandato in onda dalla Bbc il 27 aprile, ha acceso i riflettori sul fenomeno delle colonie israeliane. A partire dalla Guerra dei sei giorni del 1967, Israele ha costruito un sistema di dominio fondato sulla colonizzazione, alimentata da motivazioni religiose, interessi strategici e sostegni internazionali. Gli insediamenti sono oggi il fulcro materiale e simbolico dell’occupazione, che il governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu continua ad alimentare. E che mina ogni prospettiva di soluzione del conflitto israelo-palestinese.

* * * *

«La gente viene qui perché crede che sia una mitzvah, un comandamento religioso, insediarsi su questa terra». Con queste parole, pronunciate da un’abitante di una colonia israeliana nei territori occupati, il documentario The Settlers della Bbc accende i riflettori su una delle questioni più controverse del conflitto israelo-palestinese: quella degli insediamenti in Cisgiordania.

La dichiarazione rilasciata a Louis Theroux sintetizza una visione che fonde religione, identità e potere. Offrendo una giustificazione religiosa alla colonizzazione, mostra come per molti coloni la fede rappresenti un motore ideologico in grado di trasformare la geografia politica in territorio sacro. In altre parole, rivela come anche in Israele la religione venga sfruttata a fini politici. Non a caso, i padri fondatori di Israele, gran parte dei quali atei, amavano ripetere: «Dio non esiste, ma ci ha dato uno Stato».

Il documentario ha offerto lo spunto a Krisis per realizzare una radiografia del fenomeno. Chi sono i coloni? Cosa li spinge a vivere in territori riconosciuti dalla comunità internazionale come illegali? Quali motivazioni ideologiche, religiose o politiche li animano? E soprattutto, quale ruolo giocano nella perpetuazione dell’occupazione?

Domande più che mai attuali, alla luce delle indiscrezioni secondo cui il presidente Donald Trump, in rotta con Benjamin Netanyahu, potrebbe riconoscere lo Stato palestinese.

 

Tanti quanti gli abitanti di Francoforte

Gli insediamenti sono comunità civili costruite da Israele in aree conquistate nel 1967, in particolare in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Mentre l’Onu e gran parte della comunità internazionale ritengono questi insediamenti contrari al diritto internazionale, parte dei Territori palestinesi occupati, Israele li giustifica sulla base di considerazioni storiche, religiose e di sicurezza. Si tratta di una logica di frontiera che sconfessa le attuali leggi internazionali.

Secondo quanto stabilito dall’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra, una potenza occupante non può trasferire la propria popolazione civile nei territori che occupa militarmente. La Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (2016) ribadisce questa posizione, definendo gli insediamenti «privi di validità giuridica» e una «flagrante violazione del diritto internazionale». Israele, tuttavia, contesta questa interpretazione, sostenendo che la Cisgiordania non sia propriamente «occupata», ma piuttosto un territorio conteso, poiché non apparteneva a uno Stato sovrano prima del 1967.

A oggi, secondo dati forniti dal think tank israeliano «Yesha Council» e ripresi anche dal Times of Israel a febbraio 2024, vivono in Cisgiordania oltre 517.000 coloni israeliani, mentre a Gerusalemme Est se ne contano circa 220.000. In tutto, parliamo almeno di 737.000 persone: più o meno quanto gli abitanti di Francoforte. Gli insediamenti sono distribuiti in modo capillare, con concentrazioni significative attorno a Gerusalemme (ad esempio Ma’ale Adumim), nel centro della Cisgiordania (Ariel) e a Sud (Gush Etzion, Kiryat Arba). Alcuni sono vere e proprie città, con scuole, centri commerciali, ospedali e infrastrutture collegate a Israele tramite una rete stradale riservata, mentre altri consistono in piccoli avamposti, talvolta costruiti senza autorizzazione ufficiale ma successivamente «regolarizzati».

 

Insediamenti come mandato divino

La composizione della popolazione degli insediamenti è quanto mai variegata. Molti coloni sono mossi da motivazioni economiche: vivere nei territori occupati può risultare più accessibile rispetto ai centri urbani israeliani, grazie a incentivi fiscali, prezzi più bassi e servizi pubblici potenziati offerti dal governo. In città come Ariel o Ma’ale Adumim vivono prevalentemente famiglie laiche e professionisti. Solo in alcune, come Beitar Illit, prevalgono comunità religiose chiuse e strutturate.

La religione gioca comunque un ruolo centrale nella questione, con approcci distinti che riflettono differenze ideologiche e politiche. Gli ultraortodossi (Haredim) vedono la religione come un impegno separato dalla politica e dalla modernità, rifiutando in gran parte la società laica israeliana e concentrandosi sulla vita religiosa in comunità isolate. Sebbene alcuni gruppi ultraortodossi sostengano la costruzione di insediamenti per motivi pratici o di protezione della loro comunità, la loro visione della terra promessa e la politica sionista in generale è più distaccata e non necessariamente espansionista.

Al contrario, gli ortodossi nazionalisti (Dati Leumi) sono profondamente impegnati nel progetto sionista, vedendo la creazione e l’espansione di Israele come un dovere religioso legato alla realizzazione delle profezie bibliche. Per questo gruppo, gli insediamenti in Cisgiordania sono visti come un mandato divino, e la presenza nelle terre occupate è giustificata come parte di un ritorno biblico e della protezione di Israele. In questo contesto, gli ortodossi nazionalisti sono anche tra i principali sostenitori politici degli insediamenti, partecipando attivamente alla vita politica e difendendo l’espansione israeliana nei territori contesi.

Di matrice religiosa sionista è anche uno dei movimenti più influenti nel promuovere la cultura degli insediamenti all’interno di Israele, Gush Emunim. Fondato nel 1974, unisce la fede ebraica con l’ideologia sionista, sostenendo l’idea che la Cisgiordania e Gaza siano terre bibliche destinate al popolo ebraico. La creazione di insediamenti in Cisgiordania sarebbe quindi non solo un dovere religioso, ma anche una necessità strategica e politica per Israele.

 

Negazione dell’identità palestinese

Un altro gruppo influente è il movimento dei «giovani dei colli», radicato nei territori occupati a partire dagli anni Novanta. Questo movimento è composto principalmente da giovani ebrei ortodossi nazionalisti che, spesso motivati da convinzioni religiose e ideologiche, hanno preso il controllo di colline e terreni espropriati in Cisgiordania per costruire insediamenti non autorizzati. I «giovani dei colli» si vedono come i custodi della terra di Israele e sono spesso contrari ai compromessi politici, come la creazione di uno Stato palestinese, ritenendoli inaccettabili secondo una visione religiosa che giustifica la sovranità israeliana su tutta la terra dell’Israele biblico. Il movimento è stato associato a pratiche di resistenza contro le forze israeliane che cercavano di smantellare gli insediamenti illegali e ha contribuito a una crescente radicalizzazione della comunità dei coloni.

 

Sostegno dagli evangelici d’Oltreoceano

Il documentario della Bbc ha presentato tra le diverse figure chiave del movimento dei coloni israeliani alcuni protagonisti pubblici come Daniella Weiss. Leader del Movimento di Insediamento Nachala, è nota come la «madrina» del progetto dei coloni. Fra gli intervistati da Louis Theroux c’è anche Ari Abramowitz, un colono di origine texana. Co-fondatore di Arugot Farm, un avamposto turistico nel cuore della Cisgiordania occupata, nega in modo veemente l’esistenza dell’identità nazionale dei palestinesi: «Rifiuto completamente l’idea che siano davvero una nazione».

Un caso non isolato, quello di Abramowitz: circa il 15% dei coloni israeliani che vivono in Cisgiordania sono cittadini statunitensi. Secondo la studiosa Sara Yael Hirschhorn dell’Università di Oxford, ciò corrisponde a circa 60.000 persone.

A proposito di Stati Uniti: i coloni godono anche del sostegno degli evangelici cristiani statunitensi. Molti di essi aderiscono a una visione apocalittica e millenaristica, considerando la protezione e il rafforzamento di Israele come una parte fondamentale della realizzazione delle profezie bibliche. Secondo questa visione, la restaurazione del popolo ebraico nella sua terra promessa è un passo necessario per il compimento delle profezie sulla fine dei tempi. Di conseguenza, molti evangelici sono fortemente favorevoli agli insediamenti in Cisgiordania e finanziano attivamente progetti legati alla costruzione di tali insediamenti. Sebbene il loro sostegno non sia direttamente connesso alla politica sionista, esso è comunque strettamente legato a motivazioni religiose che vedono nella permanenza degli ebrei nelle terre bibliche una condizione indispensabile per la realizzazione del piano divino.

 

L’inizio con la Guerra dei sei giorni

Storicamente, il fenomeno degli insediamenti prende forma subito dopo la Guerra dei sei giorni nel 1967, quando Israele conquista militarmente la Cisgiordania, Gerusalemme Est, la Striscia di Gaza, il Golan e il Sinai. Successivamente, sotto governi di orientamento nazional-religioso, prende avvio un’espansione sistematica degli insediamenti, spesso motivata da convinzioni ideologiche legate al concetto biblico di «Giudea e Samaria» (il nome biblico della Cisgiordania usato spesso in Israele in riferimento alla West Bank). Con gli Accordi di Oslo (1993-1995), la Cisgiordania viene divisa in tre aree (A, B e C), ma è nell’Area C, sotto pieno controllo israeliano, che si concentra la maggioranza degli insediamenti.

Nel 2005, Israele si ritira dalla Striscia di Gaza, evacuando circa 8.000 coloni, ma ciò non comporta un’inversione di tendenza in Cisgiordania, dove l’espansione continua, anche con la costruzione di nuovi avamposti. Secondo Peace Now, tra il 2009 e il 2020 sono stati costruiti oltre 20.000 nuovi edifici nei territori occupati, spesso su terre rivendicate da comunità palestinesi.

Negli ultimi anni la questione è diventata ancora più delicata. Il governo in carica dal 2022, una coalizione di destra guidata da Benjamin Netanyahu e sostenuta da partiti religiosi-nazionalisti, ha accelerato l’approvazione di nuovi piani edilizi e promosso la regolarizzazione di insediamenti considerati finora illegali secondo la stessa normativa israeliana. Tra i politici che risiedono negli insediamenti vi sono figure di spicco come Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale, e Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e leader del partito sionista religioso.

 

Tensioni post 7 ottobre

La situazione era dunque già abbastanza complessa prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e la conseguente guerra a Gaza. Alcuni osservatori affermano addirittura che lo sviluppo degli insediamenti in Cisgiordania sia stata una delle concause dell’esplosione di violenza del 7 ottobre. Quello che è certo è che, oltre al rischio di scenari genocidiari a Gaza sancito l’anno scorso dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, la tensione in Cisgiordania è cresciuta drasticamente. Secondo l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), nel 2024 si sono registrati oltre 1.580 episodi di violenza da parte di coloni contro palestinesi, in netta crescita rispetto agli anni precedenti. In diversi casi, si è trattato di attacchi a villaggi, danneggiamento di colture, incendi dolosi e violenze fisiche, spesso senza un intervento immediato da parte delle forze di sicurezza.

Un rapporto pubblicato da Peace Now evidenzia inoltre che nello stesso 2023 il governo Netanyahu ha promosso piani per la costruzione di 12.349 unità abitative negli insediamenti della Cisgiordania, un record annuale dall’Accordo di Oslo.

 

Infrastrutture alla base dell’espansione

Uno degli strumenti più incisivi dell’espansione è rappresentato dalle infrastrutture: reti stradali riservate, tunnel, raccordi e sistemi elettrici che collegano gli insediamenti a Israele, creando una continuità materiale e funzionale che rafforza la loro presenza sul territorio. Le conseguenze di questa espansione non sono soltanto politiche, ma anche geografiche e sociali, e rendono ancora più complessa una possibile soluzione che tenga conto delle esigenze e dei diritti di entrambe le popolazioni coinvolte.

Ma oltre alle nuove abitazioni, molti avamposti nati inizialmente in modo informale vengono successivamente riconosciuti dallo Stato e integrati nel sistema ufficiale. Questo processo, noto come «legalizzazione retroattiva», è aumentato sensibilmente sotto l’attuale governo Netanyahu.

Le strade ad accesso controllato che bypassano i centri abitati palestinesi restringono ulteriormente la continuità territoriale della Cisgiordania, rendendo difficile immaginare uno Stato palestinese contiguo. Proprio per questo motivo, molti osservatori internazionali ritengono che la proliferazione degli insediamenti sia uno dei principali ostacoli alla cosiddetta soluzione «a due Stati», che appare oggi del tutto impraticabile alla luce della presenza di oltre 700.000 coloni in Cisgiordania.

 

Città nella terra contesa

Uno degli insediamenti più noti e discussi è Ma’ale Adumim, fondato nel 1975 e situato a neanche 15 chilometri da Gerusalemme. Con i suoi circa 33.000 abitanti, è oggi uno degli insediamenti più grandi della Cisgiordania. La sua posizione geografica, ai margini del deserto della Giudea, lo rende particolarmente strategico. La sua espansione verso l’area nota come E1 è oggetto di forte attenzione da parte della comunità internazionale, in quanto potrebbe compromettere la continuità territoriale tra la parte nord e sud della Cisgiordania.

Più a Nord si trova Ariel, fondata nel 1978 nel cuore della Cisgiordania. La città conta oggi circa 20.000 abitanti e ospita una delle principali università israeliane, l’Ariel University. La sua popolazione è composta in larga parte da immigrati, soprattutto provenienti dall’ex Unione Sovietica, ma anche da ebrei religiosi nazionalisti. Ariel è collegata a Israele da un sistema stradale che bypassa le comunità palestinesi circostanti, garantendo accesso diretto e rapido al territorio israeliano.

A Sud di Gerusalemme si estende il blocco di Gush Etzion, un’area composta da vari insediamenti e villaggi. Le sue origini risalgono agli anni Venti del Novecento, ma la zona fu distrutta durante la guerra del 1948 e poi ricostruita dopo il 1967. Oggi la popolazione complessiva del blocco supera le 70.000 persone. Gush Etzion è spesso citato dai leader israeliani come parte di quei «blocchi di insediamenti» che, secondo la loro visione, dovrebbero essere annessi a Israele in qualsiasi futuro accordo.

Un fenomeno interessante riguarda gli insediamenti ultra-ortodossi, come Modi’in Illit e Beitar Illit, situati rispettivamente tra Tel Aviv e Gerusalemme e a ovest di Betlemme. Entrambi sono stati fondati negli anni Novanta e hanno registrato una crescita demografica molto rapida. Modi’in Illit, ad esempio, ospita oggi oltre 70.000 abitanti, la maggior parte dei quali appartenenti alla comunità Haredi (ultra-ortodossa). Si tratta di città molto giovani, con un tasso di natalità elevato e una domanda costante di nuove abitazioni.

 

Lessico della colonizzazione

Il modo stesso in cui vengono definiti gli insediamenti israeliani nei territori occupati è ben lungi dall’essere soltanto una questione terminologica. Rappresenta anzi un vero e proprio campo di battaglia semantico e politico. Ogni parola scelta per descrivere questi luoghi riflette un diverso punto di vista sul conflitto israelo-palestinese e l’uso di uno o dell’altro termine può implicare un giudizio, un riconoscimento o una condanna, anche quando non viene espresso in modo esplicito. Il vocabolario del conflitto, come spesso accade nelle zone di tensione geopolitica, è esso stesso parte del conflitto.

Nel contesto italiano e europeo, il termine più diffuso è colonie. Questa parola richiama immediatamente un immaginario storico ben preciso: quello del colonialismo europeo, dell’occupazione e dello sfruttamento di terre da parte di potenze straniere. Utilizzare colonie per riferirsi agli insediamenti israeliani suggerisce quindi che questi siano frutto di una logica espansionista e coercitiva, in violazione del diritto internazionale. È un termine fortemente critico, impiegato da chi considera l’occupazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est come una forma di colonizzazione moderna, ai danni della popolazione palestinese autoctona, anche in riferimento al già citato articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra.

Diverso è il caso del termine inglese settlements, largamente usato nei media internazionali, nelle Nazioni Unite e nella diplomazia. Letteralmente significa insediamenti, una parola che può apparire neutra, tecnica, persino generica. Tuttavia, anche settlements ha finito per caricarsi di significati specifici: nel linguaggio delle ong, delle risoluzioni Onu e dei rapporti dei diritti umani, il termine rimanda ormai a una realtà giuridicamente controversa e politicamente divisiva. The settlers è, non a caso, il titolo del documentario prodotto dalla Bbc. L’ambiguità del termine ha probabilmente contribuito alla sua diffusione, rendendolo accettabile anche in contesti diplomatici dove altri termini più espliciti sarebbero stati respinti.

 

Ambiguità dei termini

In ebraico, invece, i termini usati sono due, con sfumature molto diverse. Hitnakhluyot (התנחלויות) è il termine tecnico per insediamenti utilizzato nei documenti ufficiali e nei media israeliani. Deriva dal verbo lehitnakhel, che significa insediarsi, ma il suo uso è tutt’altro che neutrale. Negli anni Settanta e Ottanta, è stato adottato con orgoglio dal movimento dei coloni religiosi e nazionalisti, per descrivere il ritorno degli ebrei in quelle che considerano le terre bibliche della Giudea e della Samaria. Oggi, tuttavia, hitnakhluyot può essere percepito come un termine connotato ideologicamente, e non tutti in Israele lo utilizzano senza riserve.

Per indicare in modo più neutro queste comunità abitative, alcuni preferiscono il termine yishuvim (יישובים), che in ebraico significa semplicemente comunità, senza implicazioni politiche dirette. È lo stesso termine usato per città, villaggi o kibbutzim all’interno di Israele. Il suo impiego nel contesto dei territori occupati riflette spesso il desiderio di evitare il carico simbolico e polemico legato ad altri termini. Tuttavia in ebraico si parla spesso di avamposti (mitzpim, מצפים) per indicare gli insediamenti costruiti senza autorizzazione ufficiale del governo israeliano, ma spesso con il suo sostegno implicito, per poi essere regolarizzati retroattivamente. Seguendo quest’uso, anche l’espressione «blocco di insediamenti» ha assunto un significato specifico nel lessico politico e diplomatico: designa gruppi di insediamenti che Israele considera strategici e che intende mantenere in eventuali accordi futuri, come nel caso di Ma’ale Adumim o Gush Etzion.

 

Gaza nel mirino

Sul versante arabo, invece, la parola impiegata comunemente è mustaʿmarāt (مستعمرات), il cui significato letterale è colonie. È un termine inequivocabile, che colloca gli insediamenti israeliani nel paradigma del colonialismo, dell’occupazione e dell’imposizione. La sua radice si è nel tempo legata all’idea di conquista e di spoliazione. Nella narrazione palestinese, questa parola è carica di memoria storica e politica: rimanda alla perdita della terra, allo sradicamento e alla resistenza.

Anche l’aspetto linguistico testimonia che l’evoluzione del movimento dei coloni, a distanza di 14 anni da un precedente lavoro di Theroux sullo stesso tema (The Ultra Zionists, prodotto dalla Bbc nel 2011) ha visto un’espansione significativa e un rafforzamento delle sue posizioni ideologiche, da un lato e dall’altro.

Non a caso, un’altra delle persone intervistate oggi da Theroux afferma: «Gaza è nostra. E dobbiamo vivere lì». Per ora l’attenzione resta concentrata sulla Cisgiordania. Ma all’orizzonte, il prossimo passo sembra essere Gaza.


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Comments

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Alfred
Wednesday, 21 May 2025 07:26
Un mandato divino molto interessato, molto terra terra, molto interessato alla terra e allo sterminio di chi la abita con il diritto ad abitarla.
Questi sono solo rapaci che si coprono con un libro che ordina loro anche di non uccidere e non rubare.
Bella copertura per una banda di pirati esaltati, ma molto interessati a cose terrene e di valore.
Spero che nel mondo ci siano tribunali per criminali incalliti come questi e contenzione sufficiente per renderli inoffensivi, uno per uno e Tutti. I sionisti sono solo dei colonizzatori espropriatori, genocidi, altro che balle del libro e delle chiamate divine. Si immolassero loro in nome di un qualsiasi dio e la smettessero di massacrare per occupare, per possedere, per dominare.
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