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Il nuovo Papa: perché chiamarsi Leone?

di Marino Ruzzenenti

leonemagno.jpgSon stati scritti fiumi di parole sull’esito inatteso del conclave e anche sulla ripresa di un nome desueto da oltre un secolo Leone, dicendo troppe banalità. Cerchiamo di decifrare il significato di questa scelta.

 

Vediamo i Papi Leone più illustri citati dalla stampa in questi giorni: dai primi secoli della Chiesa fino al XVI secolo.

Leone I, detto Magno, fu eletto nel 441 e nei suoi 21 anni di regno fu un instancabile combattente per affermare e consolidare il primato del vescovo di Roma, la rigida ortodossia, sconfiggendo le numerose eresie del tempo in particolare sulla natura della figura di Cristo e sulla Trinità.

Leone III, Papa dal 795 all’816, incoronò Carlo Magno imperatore del Sacro Romano Impero e stabilì il precedente storico dell’assoluta supremazia del papa sui poteri terreni.

Leone IV, Papa dal 847 al 855, fortificò Roma costruendo le Mura Leonine e promuovendo diverse spedizioni armate per sconfiggere i saraceni e impedirne le scorribande; il giorno di Pasqua dell’850 Leone incoronò imperatore Ludovico, figlio di Lotario, riaffermando il prestigio e il privilegio pontificio di compiere un tale atto.

Leone X, Papa dal 1513 al 1521, nato Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, fu particolarmente impegnato sul fronte dell’ortodossia, in un momento di particolari tensioni nel mondo della cristianità, evitando il pericolo di uno scisma, ribadendo il dogma dell’immortalità dell’anima, contro le teorie filosofiche degli averroisti e la sottomissione della verità filosofica a quella teologica. Fu il protagonista intransigente della diatriba sulle indulgenze, da lui stesso concesse, sollevata da Martin Lutero, con conclusiva scomunica di quest’ultimo e inizio della Riforma protestante.

In generale sono Papi coerenti con il significato allegorico del leone: personalità forti, impegnate nel potenziare l’autorità e l’unità della Chiesa, custodi dell’ortodossia contro le eresie, tendenzialmente teocratici nel ribadire la supremazia del potere spirituale su quello temporale, ovvero sull’allora Sacro romano impero d’Occidente.

Il leone era anche il simbolo della Repubblica di Venezia, cattolica, dopo l’anno mille protagonista di un’espansione imperiale e di un’accresciuta potenza economica e politica di prim’ordine. Così il leone di San Marco simboleggiò i caratteri con cui Venezia amava pensare e descrivere sé stessa: maestà, potenza, sapienza, forza militare e pietà religiosa.

 

Papa Leone XIII fu davvero un “Papa sociale”?

Ma in tutti i commenti, anche di intellettuali laici e di “sinistra”, si è voluto enfatizzare il probabile richiamo da parte del nuovo Leone XIV all’ultimo Leone, quello comunemente definito con malcelata ammirazione il “papa sociale”, per confermare la continuità con Papa Francesco.

Ma quello fu davvero un papa “sociale e progressista” come lo si vuole rappresentare?

Di Leone XIII mi sono occupato a lungo in una delle mie più impegnative ricerche storiche: «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma 2018 (pp. 8-44).

La favola di Leone XIII “papa sociale” resiste, nonostante Giovanni Miccoli (G. Miccoli, Antisemitismo e cattolicesimo, Morcelliana, Brescia 2013), il più importante storico cattolico italiano, negli ultimi anni della sua vita, abbia approfondito proprio quel periodo cruciale dell’antisemitismo cattolico che si dispiega a cavallo tra Ottocento e Novecento, il periodo in cui l’antisemitismo divenne in Europa un tema costitutivo delle ideologie reazionarie, appunto su impulso proprio del lungo Pontificato di Leone XIII (1878-1903) e dell’iniziativa insistente, quasi ossessiva, della rivista da lui promossa a partire dal 1881, «La Civiltà cattolica», impegnata allo stremo nel combattere l’ebraismo e le ideologie anticristiane dallo stesso derivate, la massoneria, il liberalismo e il socialismo.

Quello leonino fu un pontificato straordinariamente forte, come poteva lasciar presagire il nome che scelse il cardinal Pecci al suo insediamento e come riconoscono tutti gli studiosi di storia della Chiesa. Un pontificato molto politico, convintamente interventista nelle vicende terrene contemporanee. Fu questo il vero tratto innovatore rispetto al predecessore Pio IX, il quale di fronte alla modernità, da un canto ne ribadì l’assoluta e totale condanna con il Sillabo, dall’altro condusse la Chiesa a ritrarsi nelle proprie casematte, in una posizione difensiva che poteva risultare alla lunga sterile. Questo indebolimento della Chiesa venne percepito fin da subito da Leone XIII che quindi si impegnò per ricollocarla al centro della scena internazionale: dunque la guerra contro la modernità, perché fosse efficace e vincente per la Chiesa, doveva essere ingaggiata in campo aperto, sul terreno dei grandi cambiamenti economici e sociali in corso, in una contesa aspra, militante, con le società liberali. Leone XIII comprese che, dentro la modernità, la civiltà industriale e tecnologica, che si stava convulsamente sviluppando con la scoperta dei combustibili fossili, irrompeva come un fiume in piena che era impossibile sbarrare. La Chiesa rischiava l’irrilevanza se avesse mantenuto un atteggiamento di totale rifiuto del nuovo, espresso icasticamente da Gregorio XVI, quando bollò come un «satana su rotaia» il primo treno in Italia che il 13 ottobre 1839 ansimò sbuffando sui sette chilometri da Napoli a Portici.

Leone XIII, invece, comprese che quei processi tecnologici, economici e sociali, a dispetto della «scomunica» pontificia, si stavano affermando, e che andavano coinvolgendo sempre più estese masse di popolazione, le quali rischiavano di essere scristianizzate dalle ideologie che quel processo assecondavano, liberalismo e socialismo innanzitutto, diffusi dall’ebraismo anticristiano. Ebbene, in quell’agone la Chiesa doveva scendere in campo, accettando la sfida della modernità proprio sul terreno economico e sociale, con l’obiettivo di cristianizzare la modernità stessa, sconfiggendo le ideologie razionaliste e laiciste che si erano affermate con l’Ottantanove. L’obiettivo, apparentemente paradossale, era quello di affermare una sorta di «teocrazia della modernità», ovvero ripristinare il primato assoluto della Chiesa, di impronta medievale, nel mondo nuovo delle innovazioni tecnologiche, della produzione industriale e delle conseguenti trasformazioni sociali: la Cristianità che tornava a governare anche il mondo moderno, reinserendolo in quella civiltà cristiana e in quella visione del mondo che il Medioevo aveva cristallizzato come ordine naturale delle cose modellato dal disegno soprannaturale divino. Cosicché, l’anno dopo della sua elezione, Leone XIII si preoccupò di stabilire, in una delle prime encicliche del suo lungo papato, Aeterni Patris, una salda base teologica, unica per tutta la Chiesa e, in qualche modo, indiscutibile e immodificabile, fondata sulla Somma teologica e l’opera di San Tommaso d’Aquino, un’imperiosa restaurazione di una rigidità teologica, che peraltro durerà a lungo, praticamente fino al Concilio Vaticano II.

Si tratta di «una visione teocratica dei rapporti tra la Chiesa e la società civile» in Leone XIII che così lo stesso sintetizzò: «Siccome il fine al quale tende la Chiesa è nobilissimo sopra ogni altro, così la potestà di essa va sopra tutte le altre, e non deve essere, né riputata inferiore ai poteri dello Stato, né a lui in qualche modo sottoposta».

Dunque, se da un canto Leone XIII gettò la Chiesa e i cattolici nell’agone politico e sociale, dall’altro si preoccupò con grande energia di restaurare una rigida ortodossia teologica, il tomismo, e di ribadire la più ferma condanna delle ideologie che avevano ispirato la modernità: «Non si trattava di una resa davanti alla modernità. Né si trattava di contrapporsi semplicemente alla modernità. Cominciava un confronto, non certo ancora un dialogo, per di più talvolta ancora molto aspro». Il suo programma che è quello di ricostruire e restaurare una nuova Civiltà dandole come tessuto principale e come anima i valori e la filosofia del Vangelo poiché la Società moderna «è caratterizzata da un universale sovvertimento dei principi dai quali, come da fondamento, è sorretto l’ordine sociale». Come si vede, papa Leone non aveva assolutamente in mente la riconciliazione con la modernità, ma la sua sconfitta tramite la confutazione dei falsi principi sui quali essa si fondava per potere restaurare la Cristianità avversata dalla modernità e dalle sette dirette dal giudaismo talmudico. A questo proposito, Leone XIII gestì direttamente i tre casi critici dell’antisemitismo cattolico dell’epoca: la vicenda del partito cristiano sociale austriaco, la posizione dei cattolici francesi rispetto all’affaire Dreyfuss e infine la credenza del rito del sangue nella Pasqua ebraica.

La prima vicenda riguarda il primo esperimento, vincente, di discesa in campo in Europa di un partito cattolico, il Partito cristiano sociale austriaco, che partecipò e vinse le elezioni per il comune di Vienna. L’esperimento austriaco fu in sostanza il primo banco di prova dell’enciclica di Leone XIII Immortale Dei del 1º novembre 1885, sulla costituzione cristiana degli Stati, che per permetteva finalmente ai cattolici di intervenire nell’agone politico (non ancora a quelli italiani per il trauma della breccia di Porta Pia). Il leader, Karl Lueger, ispirandosi alla Rerum novarum, elaborò un programma che, riprendendo la critica pontificia al capitalismo ed al marxismo, rappresentava questi fenomeni della modernità come prodotti, in certo modo complementari, della mente ebraica, fondendo questi nuovi temi con il secolare odio per gli ebrei della tradizione cattolica. Karl Lueger, leader carismatico e autoritario di un partito che si presentò come antisemita, fu borgomastro ininterrottamente dal 1895 al 1910, benedetto da Leone XIII e considerato dal giovane Adolf Hitler il modello su cui costruire il suo progetto politico e la sua figura di Führer.

La seconda è quella dell’altro tentativo del partito cristiano francese di sfruttare il caso Dreyfuss per conquistare un ruolo di governo nello schieramento reazionario e antisemita. In questo caso, come sappiamo, il progetto di Leone XIII incontrò una bruciante sconfitta. Prima però ebbe modo di lasciare una eredità gravida di calamità per gli ebrei europei, alla luce degli eventi futuri. Il 25 e 26 novembre 1896, nel periodo infuocato dell’affaire Dreyfus, si tenne a Lione il primo congresso nazionale di questo partito voluto da Leone XIII, la Democrazia cristiana, articolato in tre sessioni, la prima antimassonica, la seconda antisemita e la terza sociale. Ebbene questo congresso, benedetto in apertura con una missiva dal Papa, elaborò la prima proposta in Europa di una legislazione antisemita, debitamente articolata e dettagliata, che avrebbe rappresentato il modello per le leggi di Norimberga del nazismo del 1935.

Il terzo caso è quello della credenza cattolica nell’omicidio rituale da parte degli ebrei: si riteneva che gli ebrei in occasione della loro Pasqua uccidessero un bambino cristiano per prelevargli del sangue con cui condire il pane azimo rituale. Ebbene, verso la fine del 1899, dopo un ventennio di accuse processi e tumulti in diversi Paesi d’Europa, un gruppo influente di cattolici inglesi, tra cui Lord Russell e lo stesso cardinale di Westminster, presentarono a Leone XIII un’istanza perché questa credenza, ritenuta del tutto infondata, venisse condannata dalla Santa Sede. Il Sant’Uffizio, investito della questione, il 25 luglio 1900 statuiva che la dichiarazione richiesta non poteva essere data, cui seguiva l’approvazione il 27 di Leone XIII: nella sostanza il Papa rigettava l’istanza dei cattolici inglesi con la sottintesa motivazione, «perché gli omicidi rituali che si vorrebbero negare sono invece realmente accaduti», peraltro esplicitata in un manoscritto che accompagnava la risoluzione. Il tema, anzi, divenne ricorrente nella campagna denigratoria nei confronti degli ebrei de «La Civiltà cattolica», tema ripreso come è noto dalla campagna dei nazisti e del fascismo di Salò per sostenere la necessità della Shoah.

Dunque, paradossalmente, l’antisemitismo ridiventava un cardine della politica e del magistero della Chiesa, proprio quando la stessa in qualche modo «si apriva» alla modernità, superava il puro e semplice atteggiamento di rifiuto, scendeva sul terreno della nuova società per combattere una battaglia campale per la riaffermazione del primato della cristianità sulla modernità stessa, contro le ideologie scristianizzanti, dal razionalismo al liberalismo, al socialismo. Ed era su questo terreno che la Chiesa riscopriva negli ebrei uno degli ostacoli maggiori al compimento della sua missione. Del resto l’antisemitismo era un pilastro fondamentale del pensiero reazionario di fine Ottocento: il rifiuto del liberalismo, della laicità dello Stato, dei principi dell’Ottantanove, del socialismo si associava all’individuazione degli ebrei come principali ispiratori di questi movimenti ed ideologie, ebrei per di più emancipati dal ghetto proprio grazie alla Rivoluzione francese, in grado così di dispiegare finalmente tutta la loro «nefasta» volontà di rivalsa nei confronti della civiltà cristiana.

Fino a qui la coerenza del pensiero e dell’azione di Leone XIII può apparire persino scontata. Ciò che può sorprendere è il lato sociale, presente nella Rerum Novarum. Ma anche questo è un dato in verità ricorrente nel pensiero politico reazionario tra Ottocento e Novecento. Lo si è visto per i cristiano sociali austriaci; lo si vedrà con il fascismo italiano, nel programma del 1919 ripreso poi con la Carta di Verona della Repubblica sociale; lo si vedrà nel movimento politico costruito da Hitler, non incidentalmente chiamato Partito nazionalsocialista dei lavoratori, con la bandiera su fondo rosso, colore intenzionalmente mutuato dai vessilli del movimento operaio e socialista. Almeno nei programmi, il pensiero reazionario e antimoderno spesso adottò accenti anticapitalisti, essendo anche il capitalismo in certo modo filiazione del liberalismo, e si cimentò sul piano sociale proprio con l’obiettivo di sottrarre le masse operaie all’influenza del socialismo, divenuto ormai più pericoloso e temibile dello stesso liberalismo. Dunque antisemitismo e Rerum Novarum non solo non confliggevano, ma facevano parte di una visione coerente che Leone XIII aveva sistematizzato in una strategia di lungo periodo di scardinamento delle ideologie della modernità.

Del resto, occorre ricordarlo, i pontefici che seguirono nel corso della prima metà del secolo scorso, Pio X, Benedetto XV, Pio XI e Pio XII, si mossero sostanzialmente all’interno del solco teologico, ideologico e politico tracciato in profondità dal papato leonino. Si dovranno attendere papa Giovanni XXIII e il concilio Vaticano II, agli inizi degli anni Sessanta, perché la Chiesa cattolica uscisse da quel solco profondo e angusto, riconoscesse «i segni dei tempi» e aprisse un dialogo vero con le culture laiche della modernità, con le confessioni non cattoliche e con le religioni non cristiane, quindi anche con l’ebraismo.

Infine, Se poi qualcuno vuole conoscere più a fondo la figura di Leone XIII consiglio la piacevolissima lettura del folgorante romanzo-inchiesta di Émile Zola, Roma, Paris 1896, ed. it. Bordeaux, Roma 2014.

 

Conclusioni

In conclusione, Robert Francis Prevost tutto quanto detto sopra a proposito di Leone XIII e degli altri Papi Leone lo conosce bene, essendo un plurilaureato e un profondo studioso della Chiesa. E la scelta di Leone ha ragioni profonde che non hanno nulla a che vedere con la presunta “sensibilità sociale” e quindi con la continuità con Papa Francesco. E la novità va ben oltre il pur simbolico ripristino dei paramenti e della Croce che rappresentano il potere papale.

Programmaticamente vorrebbe essere un papato forte, autorevole nella Chiesa, fermo nell’affermare e conservare l’ortodossia, ma anche influente sulle sorti del mondo ricostruendo il primato della Chiesa cattolica, come furono i Leone che lo hanno preceduto.

Chissà, forse per la Chiesa si tratta di una scelta lungimirante come fu quella di Giovanni Paolo II, per l’esito della crisi del bipolarismo (Paolo Mieli è a questo papa che lo paragona, non a Francesco). In questo caso potrebbe essere un tentativo della Chiesa di salvare l’Occidente in crisi, in particolare il paese guida, gli Usa, dilaniato da contrasti interni autodistruttivi. È l’ipotesi di Cosimo Risi, già diplomatico e Ambasciatore d’Italia in Svizzera, ora insegnante di Diritto Internazionale all’Università di Salerno.

E il richiamo nei primi discorsi alla potente tecnologia digitale dei nostri tempi, in particolare all’intelligenza artificiale, che nella versione transumanista dovrebbe generare una sorta di nuova specie umana liberata dai limiti della propria condizione, potrebbe far intendere il senso della scelta del nome, ovvero la volontà di riaffermare i valori eterni del messaggio di Cristo anche su questo terreno particolarmente insidioso, in cui gli umani potrebbero immaginarsi onnipotenti e non più bisognosi del conforto della religione: insomma, si tratterebbe di cristianizzare oggi l’intelligenza artificiale, come ai tempi di Leone XIII la macchina a vapore.

Staremo a vedere. Una cosa è certa: assisteremo a un cambiamento importante rispetto a Papa Francesco.

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Comments

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carmine meoli
Friday, 16 May 2025 10:40
Leone xiii quasi tutto condivisibile ; manca solo ricordare il contesto nel quale finito il potere temporale mancava un modello di relazione che garantisse la indipendenza del papato dall'"Impero" re il ricordo della lotta tra credenti , laici e massoni condotta senza esclusione di colpi dalle due parti.
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Mara
Friday, 16 May 2025 09:35
Ho letto un titolo dai notiziari TV in cui questo papa ha detto che lui sta dalla parte dell'Ucraina. Se la sua posizione è questa si cominciano ad evidenziare le differenze con il precedente papa che aveva una posizione più comprensiva delle ragioni sia dell'una che dell'altra parte delle regioni direttamente coinvolte al conflitto.
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Qui una recensione del volume

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2025 03 05 A.V. Sul compagno Stalin

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Qui un intervento di Gustavo Esteva attinente ai temi del volume

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Qui la premessa e l'indice del volume

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Qui una anteprima del libro

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Qui una recensione di Terry Silvestrini

Qui una recensione di Diego Giachetti

 

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Qui una presentazione del libro

 

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Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto

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Qui una recensione di Ciro Schember

 

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Qui l'introduzione

 

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Qui l'introduzione al volume

 

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Qui una recensione del libro

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Qui una recensione di Luigi Pandolfi

 
Enrico Grazzini è giornalista economico, autore di saggi di economia, già consulente strategico di impresa. Collabora e ha collaborato per molti anni a diverse testate, tra cui il Corriere della Sera, MicroMega, il Fatto Quotidiano, Social Europe, le newsletter del Financial Times sulle comunicazioni, il Mondo, Prima Comunicazione. Come consulente aziendale ha operato con primarie società internazionali e nazionali.
Ha pubblicato con Fazi Editore "Il fallimento della Moneta. Banche, Debito e Crisi. Perché bisogna emettere una Moneta Pubblica libera dal debito" (2023). Ha curato ed è co-autore dell'eBook edito da MicroMega: “Per una moneta fiscale gratuita. Come uscire dall'austerità senza spaccare l'euro" ” , 2015. Ha scritto "Manifesto per la Democrazia Economica", Castelvecchi Editore, 2014; “Il bene di tutti. L'economia della condivisione per uscire dalla crisi”, Editori Riuniti, 2011; e “L'economia della conoscenza oltre il capitalismo". Codice Edizione, 2008

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Ancora leggero

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Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto

La Democrazia sospesa Copertina

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