Liberarsi dal lavoro
Richiamando Rossana Rossanda, femminismo e lotte operaie negli anni ’70 e oggi
di Alisa Dal Re
Pubblichiamo il prezioso intervento che Alisa Dal Re ha svolto durante il seminario (organizzato dalla Cgil, Fondazione Di Vittorio, Comitato per il centenario della nascita di Rossana Rossanda): “Liberare il lavoro. Rossana Rossanda e le questioni del lavoro, ieri e oggi“. L’incontro si è volto all’Università Roma Tre, Scuola di Lettere Filosofia e Lingue, a Roma, il 29 gennaio 2025
Due furono secondo me gli elementi teorico-politici relativi al lavoro che caratterizzarono gli anni ’70 e seguenti in Italia: il rifiuto del lavoro e il riconoscimento della cura domestica gratuita delle donne come lavoro.
Il rifiuto del lavoro va interpretato all’interno delle rivendicazioni operaie di egualitarismo salariale, diffuse soprattutto all’inizio del decennio in questione, in contrapposizione alle posizioni di Lama e Trentin, sfavorevoli agli aumenti egualitari. Si trattava in buona sostanza del rifiuto di una data organizzazione del lavoro salariato a partire dalla forma di remunerazione e strutturazione del lavoro. Queste rivendicazioni infatti hanno segnalato la fine dell’adeguamento giuridico e politico al contratto, a una fantomatica misura del valore incarnato nella merce. Inoltre l’egualitarismo nelle rivendicazioni salariali ha svolto una funzione politica, costituendo un fronte operaio nelle lotte.
L’interpretazione di alcune forme di rifiuto del lavoro (assenteismo, allontanamento dalla disciplina contrattuale e dalla gerarchia di fabbrica, richiesta di aumenti salariali importanti ecc.) è derivata dalla scoperta di una classe operaia che si è posta contro sé stessa, mirando alla propria dissoluzione con il superamento dell’ideologia lavorista. Questa ideologia era stata costruita sulla professionalità e sul legame con il posto di lavoro, elementi resi fragili dalle trasformazioni produttive e dalla forza trasformativa delle lotte operaie. La negazione della primazia del lavoro sulla vita dava il senso al rifiuto dello sfruttamento e questo faceva emergere e valorizzare nuove soggettività.
Negli anni ’70 con il rifiuto del lavoro gli operai mettono in crisi il piano del capitale attraverso una richiesta salariale indipendente e impazzita rispetto al profitto, con la richiesta di servizi, con il rifiuto dell’orario imposto, con le autoriduzioni e la lotta contro la nocività di fabbrica (la nocività del lavoro?). Ricordate Vogliamo tutto, di Nanni Balestrini?[1] Nel territorio si diffondono le richieste di prezzi minimi e prezzi politici, di inserimento del tempo di trasporto nel tempo di lavoro, del costo del trasporto nel salario, creando una disconnessione tra salario e tempo di lavoro. Un inizio di visione del tempo di vita che diventerà il tema centrale, ad esempio, delle recenti lotte francesi contro l’aumento dell’età pensionabile.
Un discorso politico e di lotta riappropriativo e redistributivo della ricchezza tra le classi.
Rossana descrive il rapporto con il lavoro salariato:
Chi entrava nel lavoro negli ultimi cinquant’anni non solo accedeva a un salario, ma al minimo si faceva un mestiere, al massimo si realizzava in una professionalità alta, e su questi fondamentali binari programmava la base materiale della sua vita. [2]
Lo scrive nel 2002, ma erano già decenni che questo avveniva solo per una minima parte dei lavoratori. Era iniziata da tempo la precarietà dei lavori, soprattutto a partire dal lavoro intellettuale, dando per scontato che fosse in via di estinzione il lavoro a tempo indeterminato. Questa prospettiva lei la attribuisce al Libro Bianco di Marco Biagi come adeguamento al Libro Verde del New Labour.
Ma l’intermittenza era già diventata lo stato naturale del lavoro, così che la vita intera si precarizzava.
Nel corso degli anni ’70 ci troviamo sempre di più di fronte alla figura di un operaio espropriato di professionalità – sapere tecnico – oltre che espropriato dei campi o dell’orto (come possibilità di integrare il salario), non più affezionato al prodotto del suo lavoro, ridotto a pura forza-lavoro astratta, totalmente interscambiabile.
Bisognava prevedere adeguate forme di lotta e obiettivi consoni al coinvolgimento di queste nuove soggettività. Aveva ragione Guido Bianchini quando già allora teorizzava gli studenti come nuova forza lavoro e l’Università come la fabbrica di produzione di beni immateriali. Penso anche ai contributi di Romano Alquati sulla scuola.[3]
Il femminismo degli anni 70 e il lavoro domestico
Si diventa femministe sfuggendo all’ideologia e partendo dalle proprie personali condizioni materiali. E le condizioni materiali delle donne degli anni 70 (e in gran parte anche oggi) vedevano l’erogazione di un lavoro riproduttivo esteso e gratuito, non contabilizzato e accettato come “lavoro d’amore e di dedizione”.
Il lavoro domestico gratuito, a dispetto della marginalizzazione operata anche dai partiti di sinistra come “contraddizione secondaria del capitalismo”, è definito dalle femministe materialiste come fondamento basico per l’accumulazione e il profitto (rimando per l’analisi ai numerosi scritti di Maria Rosa Dalla Costa, Silvia Federici, Leopolda Fortunati e miei).
Di fatto, anche se l’insieme delle organizzazioni politiche tradizionali ha sempre considerato lo spazio riproduttivo come “un luogo di arretratezza politica”, anch’esse hanno dovuto accorgersi, con colpevole ritardo, che questo era diventato il cuore pulsante a livello sociale e politico dell’intero sistema capitalista.
Questo lavoro costituisce la base materiale della forma attuale neoliberista della produzione e la relativa possibilità di accumulazione e di profitto, permettendo anche il contenimento dei salari.
Uno sviluppo successivo dell’analisi ha poi messo sullo stesso piano l’attività sociale riproduttiva gratuita e quella immessa nel mercato: infatti entrambe formano i soggetti umani del capitalismo, li sostengono come esseri umani incarnati e li costituiscono come esseri sociali, prendendosi cura degli anziani, socializzando i giovani, mantenendo la sfera famigliare, costruendo disposizioni affettive e orizzontali che sono alla base della cooperazione. Tutto ciò non avviene solo nel privato delle famiglie ma viene anche socializzato in istituzioni come ad esempio la scuola o il comparto socio-sanitario, o in tutti quei lavori che tengono in piedi una parvenza di Stato sociale.
Tornando alle analisi femministe degli anni ’70, definendo il ruolo della donna nella famiglia un “lavoro”, viene richiesto (da parte di un gruppo femminista molto forte internazionalmente all’epoca: Lotta femminista) attraverso le lotte un salario al lavoro domestico. Questo però produce un paradosso: si rifiuta il lavoro domestico per ottenere un salario.
Personalmente ho sempre considerato questo obiettivo inadeguato e insufficiente rispetto al mutamento delle trasformazioni sociali e produttive, all’apparire di soggettività sganciate dalla professionalità e dal lavoro, alla richiesta di socializzazione della riproduzione e di responsabilità sociale delle vite individuali. L’individualizzazione della riproduzione (del lavoro riproduttivo domestico) diventa una sconfitta come il salario differenziato.
Il lavoro riproduttivo domestico e sociale viene comunque considerato la piattaforma di base del lavoro produttivo, in quanto riproduce la forza lavoro incarnata. Ma nelle lotte presenta molte particolarità rispetto al lavoro produttivo di merci, soprattutto negli ultimi dieci anni quando queste lotte si articoleranno, per opera di NUDM, sotto forma di scioperi. Infatti diventa difficile rifiutare un lavoro che non si può cancellare, e spesso non si può sostituire con macchine (corpo e affetti – o forse si?). Ma si può ridurne la pervasività della fatica con dei servizi sociali di qualità, in un sistema di socializzazione della riproduzione. A tutt’oggi, se non si scioglie il nodo della sfera della riproduzione, in termini di riconoscimento del valore che essa produce, e in termini di possibilità di una socializzazione di qualità, essa continuerà a funzionare contro tutti i lavoratori in un gioco perverso al ribasso.
In un articolo nel Manifesto del maggio 2010[4], Rossana Rossanda risponde al numero unico di Sottosopra[5] Immagina che il lavoro, che proponeva per le donne “il doppio sì, maternità-domesticità e lavoro salariato”.
Con una posizione consapevole del lavoro – domestico e salariato -delle donne, dice:
In verità, entrare nel lavoro voleva dire diventare salariate, perché lavorare, avevano lavorato sempre. …Sempre, oltre che in casa, in qualche lembo della produzione agricola o dei servizi. Quando entrarono in fabbrica diventarono operaie… Uscivano di casa prestissimo, rifatti i letti e avviata la minestra, correvano al lavoro, risalivano le scale la sera dopo frettolosi acquisti a preparare la cena. Dopo cena lavavano e stiravano, la domenica mattina lustravano. In busta paga avevano di regola meno degli uomini, oltre che inquadrate ai livelli inferiori.
Quelle che possono si fanno aiutare in casa con i bambini da altre donne; specie migranti che possono pagare poco e stentano a mettere in regola, per cui la concorrenza ai minimi è sfrenata. Il migrante è nell’edilizia, la migrante è nel lavoro domestico.
Ma poi riduce la fatica del lavoro riproduttivo alla maternità:
Il lavoro femminile di cura nella maternità solo chi non lo ha mai fatto può ritenerlo tutto gioia e piacevolezza.
E la lotta si declina nel decidere di non fare figli, cosa pur vera a tutt’oggi, ma limitante:
È proprio vero che è iscritto nel nostro Dna il bisogno di maternità? È un fatto che le donne di tutti i paesi e religioni, se appena possono mettere il dito sul grilletto genetico, riducono drasticamente il numero dei figli: negli scricchiolii del patriarcato questo è il più vistoso. È un fatto che le politiche demografiche per la natalità non portano da nessuna parte.
In questo caso definisce il rifiuto del lavoro di riproduzione della specie come lotta delle donne nel mondo contro il patriarcato.
Il lavoro oggi
Parto da alcune riflessioni sul lavoro fatte da Giorgio Agamben che segnala la sua assunzione a insegna dei campi di concentramento («Il lavoro rende liberi» era scritto sul cancello di Auschwitz): essa avrebbe dovuto mettere in guardia contro una sua accezione, così incautamente positiva, come quella della Costituzione italiana. Ricorda, inoltre, che nelle pagine della Genesi il lavoro viene presentato come una punizione per il peccato di Adamo.
Una società sana dovrebbe piuttosto riflettere non solo sui modi in cui gli uomini lavorano e producono entropia, ma anche su quello in cui essi sono inoperosi e contemplano, producendo quella negentropia, senza la quale la vita non sarebbe possibile. [6]
É evidente che Agamben parla del lavoro salariato e comandato dall’organizzazione produttiva del capitale.
Andrea Fumagalli aggiunge a commento: in teoria accettiamo e pratichiamo una separazione tra lavoro e vita e tra lavoro astratto e lavoro concreto (che produce valore d’uso), una separazione tra produzione e cura, tra produzione e riproduzione. E Cristina Morini argomenta, in molti suoi scritti, che lavoro e vita tendono sempre più a convergere nella produzione di valore di scambio[7].
Secondo queste analisi, che condivido, la nostra stessa vita è messa a valore (di scambio) senza l’intermediazione del “lavoro produttivo” salariato. C’è sempre meno legame tra lavoro e salario, tra lavoro e vita. In termini non astratti: i lavoratori poveri sono in Italia l’11% (i lavoratori poveri sono coloro che risultano occupati per un periodo superiore a sei mesi all’anno e il cui reddito disponibile li espone al rischio di povertà). Secondo le ultime tabelle Eurostat la povertà lavorativa sale in Italia soprattutto per i lavoratori indipendenti, tra i quali il 17,2% ha redditi inferiori al 60% di quello mediano nazionale (era il 15,8% nel 2023) mentre per i dipendenti la quota sale nel 2024 al netto dei trasferimenti sociali al 9%, in aumento dall’8,7% registrato nel 2023.[8]
Persino il Presidente della Repubblica esplicita gravi preoccupazioni citando l’OIL sui bassi salari e il lavoro povero.[9]
E allora mi domando: che senso ha contrattare posti di lavoro quando il lavoro non si scambia nemmeno con un salario che permetta di vivere? E spesso non si scambia nemmeno con un salario, ma viene estratto direttamente dalla vita?
Il rifiuto del lavoro oggi si manifesta in molti modi, al di fuori delle fabbriche e delle cucine. Dove è possibile si fugge materialmente dal lavoro che si sta facendo e per cui si è salariati (la grande diserzione dal lavoro salariato nei paesi a capitalismo maturo). I giovani Hikikomori in Giappone rifiutano studio e lavoro (segnalo che è un paese in cui l’ideologia del lavoro è rigida e pervasiva). Le donne nel mondo hanno smesso di fare figli. Nei grandi scioperi francesi contro l’aumento dell’età pensionabile (ricordo il cartello: la rétraite avant l’arthrite) si pensa complessivamente alla vita, una vita decente come obiettivo.
In Italia il tasso di Neet, cioè la quota di giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano né studiano né sono inseriti in percorsi formativi è tra i più alti di Europa[10].
Siamo di fronte a quella che Bifo (Franco Berardi) chiama la diserzione da tutto.[11]
Dalle lotte e dalle resistenze viene disegnato o almeno auspicato un futuro in cui vi sia come obiettivo politico la preminenza della vita, del benessere, la preoccupazione per i corpi fragili.
Resta un lavoro da cui non si può fuggire e che ha qualità proprie e cogenze imperative: il lavoro riproduttivo. Oltre a quello gratuito, fatto “per amore” (o per forza), troviamo nelle nostre case anche un lavoro salariato. Possiamo considerare le case il più grande luogo di lavoro riproduttivo, assieme ai comparti per la salute (cliniche e ospedali) e la scuola di ogni ordine e grado. Secondo l’ultimo rapporto Domina (2023)[12] tra colf, badanti e famiglie, le persone coinvolte più o meno regolarmente in Italia sono 3,3 milioni. Ma in questo luogo di lavoro, che andrà estendendosi nel futuro[13], il tasso di irregolarità è stimato dall’Inps nel 47,1 per cento (contro il 9,7 medio dell’economia). E quindi stiamo parlando di un lavoro necessario, poco pagato e privo di tutele.
Dallo stesso rapporto si può rilevare che il 68,9 per cento di colf e badanti regolari è costituto da immigrati. Come aveva rilevato Rossana Rossanda nell’articolo citato del 2010.
Vorrei che si avesse una visione di un convincente futuro
Assumendo questa analisi, non per questo si tratta di dire che non vale più la pena di combattere per un nuovo e più ricco contratto dei metalmeccanici o dei ferrotranvieri, o contro il Jobs Act, o per l’imposizione di un salario minimo, ma si tratta di avere una visione dei cambiamenti strutturali e delle nuove soggettività che li producono e che ne sono di converso il prodotto. Si tratta di uscire da una sottomissione alle strutture consolidate di sfruttamento e acquisire spazi di libertà. Bisogna ricordare che, anche all’interno dei vecchi lavori, vi è necessariamente un cambiamento della composizione tecnica della forza lavoro, che modifica le soggettività.
E poi vi sono lavori ineliminabili con qualità impagabili: il lavoro riproduttivo: il meno valorizzato dei lavori, il meno pagato, il più diffuso oggi e in prospettiva. Segnalo che si prevede ormai che il 40% delle professioni del futuro ruoterà attorno all’economia della cura. Sappiamo però che per uscire dallo sfruttamento di questo particolare lavoro non bastano aggiustamenti salariali e contrattuali: è necessario organizzare una socializzazione e un cambiamento strutturale dei rapporti sociali.
Diventa importante riconoscere le lotte aggregandole in un obiettivo unificante. Riprendendo Rossana Rossanda in un articolo del 2002:
“Gli scioperi sono stati un grande successo. La domanda è semmai sul come la battaglia proseguirà dopo, nelle sedi istituzionali, nei luoghi di lavoro e nei luoghi di aggregazione dove la società riflette su sé stessa” [14]
Se il salario non è più in grado di misurare e compensare il lavoro, se la produttività è diventata produttività sociale, e se lo sfruttamento si articola sulla vita di ciascuno di noi, possiamo pensare in prospettiva a un reddito di base che permetta di vivere e a una socializzazione del lavoro riproduttivo che permetta un ozio produttivo? Già ci sono state e ci sono sperimentazioni con un reddito di base. In Germania, per esempio, sono state selezionate centosette persone per percepire 1.200 euro al mese per tre anni senza condizioni. I ricercatori hanno potuto osservare il loro comportamento sociale: poche spese voluttuarie e investimenti in maggiore produttività e minor faticosità del lavoro.[15]
Da questa ricerca sono emerse indicazioni utili per il mondo politico e sindacale nella lotta contro le disuguaglianze e per l’aumento della libertà e della forza invenzione nel lavoro.
Quindi non si tratta di reddito contro il lavoro, ma di reddito per la vita, vita che può essere riccamente produttiva allontanandosi dallo sfruttamento dei bassi salari. Sottolineo che sono temi (per esempio il reddito di autodeterminazione) che sono stati – e sono – portati avanti dagli scioperi transnazionali di NUDM nei vari 8 marzo, sottoscritti anche da Rossana Rossanda nel 2019.[16]
In particolare per NUDM, a partire dalla necessità di valorizzazione del lavoro riproduttivo, si tratta di lottare per costituire concretamente un reddito per vivere, un reddito individuale (non famigliare) incondizionato, che organizzi una vita libera sia dalla gratuità della fatica sia dalla prestazione salariale insufficiente. É evidente che per attuare questo obiettivo, affinché abbia un senso concreto di liberazione, sia necessario provvedere contemporaneamente all’ampliamento delle pratiche sociali di cura tornando al lavoro riproduttivo come centrale fondamento imprescindibile della vita individuale e sociale, senza il quale non ci sarebbe sviluppo o produzione economica.
Comments
Infatti non è probabilmente trascurabile il contributo che direttamente o indirettamente entrambi hanno dato alla “liberazione dal lavoro”: i primi sono finiti con l'essere una efficace cinghia di trasmissione delle politiche neoliberali di neoschiavizzazione e la seconda, nonostante la presunzione personale, per questione di paraocchi e pregiudizi, si adeguò spesso e confusamente alle convenzioni dominanti.
La relazione di A. Dal Re, per il taglio del discorso e organizzazione tematica, trasmette di primo acchitto una impressione di microsettorialità e minimalista. Ciò a prescindere dalla puntualità delle riflessioni e dalla bontà della proposta di uscita “da una sottomissione alle strutture consolidate di sfruttamento” e del suggerimento di un reddito per la vita. La citata C. Morini, a suo tempo, era invece partita dalla percezione che nel capitalismo finanziario e neoliberalismo il “capitale [ha approfondito] i meccanismi di estrazione del plusvalore attraverso un allargamento dei campi cui applicare il proprio dominio”, cioè, per usare una terminologia marxiana, un buon numero di schiavi liberi spinti nell’informalità, per ragioni di sopravvivenza, si trasforma nella conveniente statistica di schiavi liberi “imprenditori”, ma sulla nozione di conflitto di classe e classe, che assumerebbe una connotazione sessuata, per il contesto di moltiplicazione tipologica degli schiavi liberi, mantenne dubbi e limitò lo sguardo macroeconomico e macrofinanziario alla semplificata elaborazione della convinzione della necessità di una nuova descrizione del welfare.
La rivoluzione colorata del 1992 o colpo di stato giudiziario, secondo alcuni, attuato da potentati prevalentemente parassitari, ha avuto lo scopo di abrogare il modello di accumulazione capitalistico nazionale, basato sulle partecipazioni statali e sulla domanda interna: la riduzione della spesa privata, la diminuzione degli investimenti pubblici e le politiche deflattive per gestire il nuovo quadro economico di macroeconomia finanziaria e di moneta sostanzialmente straniera hanno prevedibilmente portato a un sensibile calo del tasso di crescita del pil e del reddito dei più.
Tali nefaste politiche sono state rafforzate dallo sfrenato neoliberalismo della sinistra e, più recentemente, dalle degenerazioni nazifasciste e guerrafondaie dell’Unione, la cui dichiarazione di guerra economica alla Russia, ha minato il modello di accumulazione capitalistico europeo, basato su prezzi energetici contenuti e mercantilismo.
Pertanto, senza nulla togliere alla consistenza ideale e politica delle rivendicazioni puntualistiche avanzate, davanti al quadro macroeconomico neoliberale recessivo ultradecennale e alla inesistente organizzazione e rappresentanza delle classi inferiori in vista di un cambiamento dei rapporti di forza, risulterebbe, in primo luogo, essenziale modulare una realistica difesa dell’accumulazione e un tentativo di recupero di domanda interna.