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DeepSeek e l’open source: tecnologia, forma di proprietà e sistema sociale nuovi

di Alan Freeman

Freeman immagine articolo.jpgLa tecnologia capitalista ha raggiunto un nuovo punto di svolta. L’era elettronica ha liberato gli oggetti mentali dalla loro dipendenza da ogni specifica base materiale, cioè sono riproducibili a prescindere dal supporto materiale prescelto, sia esso un libro, un Cd, un file digitale, ecc. Questa è una causa della loro rapida espansione nella produzione e nell’uso, al punto che stanno diventando i prodotti primari del lavoro umano. Le nuove tecnologie, mentre rendono possibile la riproduzione degli oggetti mentali a costi irrisori, creando le basi per industrie di massa, abbattono anche i tempi di lavoro e, quindi, i costi della produzione materiale. Pertanto, l’unico modo in cui la produzione può espandersi è nella sfera dell’output immateriale. Questo include sia i servizi (per esempio, sanità, istruzione, tempo libero, ecc.) sia i prodotti mentali, che sono strettamente correlati. L’uscita di DeepSeek annuncia una fase della storia, a cui il capitalismo industriale ha dato vita, radicata nella diffusione generale di un nuovo tipo di valore d’uso, prodotto con una nuova tecnologia. Per questo ha sconvolto i mercati e costituisce una risposta da parte di una start-up cinese al presunto dominio Usa in fatto di intelligenza artificiale. Il suo carattere open source, cioè basato su un nuovo tipo di proprietà, diversa da quella privata, è adatto a questa riproducibilità, prestandosi particolarmente a una diffusione in un sistema socialista in cui l’obiettivo del bene collettivo predomina su quello del massimo profitto. La conoscenza e le idee sono oggetti da condividere, mentre gli Stati Uniti le trattano come qualcosa da proteggere e monopolizzare. Pertanto l’IA open source entra in contraddizione col modo di produzione capitalistico, basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, siano essi anche prodotti mentali.

La creatività è una capacità umana specifica che la meccanizzazione algoritmica non può sostituire e difficilmente riesce a imitare. Ne consegue che le società del futuro avranno bisogno di un atteggiamento nei confronti del lavoro a cui non le prepareranno né la prospettiva macchinocratica, né i modelli di business incentrati sul denaro, prevalenti negli Stati Uniti: un atteggiamento in cui la risorsa primaria è l’uomo.

Molti luoghi comuni sono stati proposti per spiegare come una start-up cinese sia riuscita a sconvolgere i mercati finanziari high-tech statunitensi. Ora che la polvere si è diradata, è il momento di discutere cosa ha ottenuto l’azienda cinese di intelligenza artificiale DeepSeek con il suo rilascio R11, perché lo ha fatto, come lo ha fatto e cosa ci rivelano i suoi successi.

La prima reazione degna di nota è arrivata da Marc Andreesen, investitore istituzionale nel settore Information Technology (It) e pioniere della tecnologia, che l’ha definito un “momento Sputnik”, richiamando la messa in orbita del primo satellite. Tuttavia, al tempo dello Sputnik, gli Stati Uniti non avevano nemmeno un programma spaziale: la Nasa fu creata l’anno successivo. Questa volta gli Stati Uniti perseguono l’IA da un decennio o più, impiegando tutti i trucchi sporchi a loro disposizione per impedire alla Cina di recuperare il ritardo. Pretendevano, e i loro guru high-tech lo credevano fermamente, di essere in vantaggio.

La Cina, dunque, non ha semplicemente inventato una nuova tecnologia trascurata dagli Stati Uniti, come fecero i sovietici: ha superato gli Stati Uniti nel loro stesso terreno di autoproclamata superiorità. È stato un fuoco di paglia, o ha significato un vantaggio tecnologico più profondo? E se è così, quale rapporto esiste tra tale vantaggio e la società cinese in cui è emerso?

Un altro luogo comune offre un indizio. Samir Mitra, pioniere di Java Mobile ed ex consulente It per il governo indiano, ha descritto il lancio come un “momento Linux”. La definizione si riferisce a una caratteristica cruciale di DeepSeek: è un progetto open source. Sosterremo che si tratta di una nuova tecnologia basata su un nuovo tipo di proprietà. Come quella che l’ha preceduta, la proprietà privata, essa può realizzarsi pienamente solo se i diritti e i doveri che definisce prevalgono su tutti i diritti e doveri preesistenti che ne ostacolano l’affermazione. Ciò richiede un sistema sociale diverso da quello in cui prevale la proprietà privata.

In un sistema produttivo l’open source afferma regole di proprietà ad accesso aperto: il codice è disponibile a chiunque, secondo i termini di una licenza non commerciale. La sua caratteristica principale è che l’utente non deve pagare per usarlo. In termini marxisti, non è una merce. Tuttavia, gli oggetti ad accesso aperto sono senza dubbio prodotti; in particolare, sono prodotti del lavoro. Sono cose utili. Il successo di DeepSeek suggerisce che la Cina ne sta facendo un uso migliore rispetto agli Stati Uniti. Perché? E perché proprio ora?

Definire DeepSeek R1 come un “momento” è discutibile: Linux non ha mai avuto un momento. È apparso nel 1991 quando lo studente finlandese Linus Torvalds, insoddisfatto del sistema operativo proprietario Microsoft Dos, pubblicò un nuovo sistema operativo basato sul prestigioso sistema operativo Unix, creato da Ken Thompson e Dennis Ritchie (l’ideatore del linguaggio “C”) nel 1969. Linux non fu mai “lanciato”: semplicemente non scomparve mai. A febbraio 2024 era installato su 3 miliardi di dispositivi, pari alla somma delle quote di Windows (1,4 miliardi) e macOS (1,6 miliardi).

Ciò contrasta con, e mette in luce, il fallimento della forma statunitense di proprietà intellettuale, che ha dominato brevemente durante il “momento unipolare2 degli anni ’90. Il successo della Cina si basa, in termini generali, sul rifiuto di questo modello, ma in modo specifico su un atteggiamento completamente diverso nei confronti della creazione, diffusione e uso delle idee, che costituisce, in ultima analisi, un confronto diretto tra due concetti di proprietà sistematicamente diversi. In sostanza, i policymaker cinesi considerano la conoscenza e le idee come qualcosa da condividere, mentre gli Stati Uniti le trattano come qualcosa da proteggere e monopolizzare.

Il Grafico 1 mostra la quota di mercato globale dei sistemi operativi per Pc desktop. I desktop sono la chiave del mercato “cattivo” per i sistemi operativi proprietari, cioè di proprietà e commercializzati da aziende; sono la gallina dalle uova d’oro di Microsoft. Inoltre, sia Microsoft che Apple – il suo unico concorrente proprietario – sfruttano il loro dominio sul mercato desktop costringendo gli utenti ad acquistare i loro principali prodotti aziendali, in particolare i “quattro grandi” prodotti per ufficio: elaboratori di testo, fogli di calcolo, programmi per presentazioni e database. Tentano anche, con meno successo, di legare gli utenti ai loro browser (Edge, Safari), tanto da essere rimproverati dai legislatori antitrust europei per questa pratica. In breve, il mercato desktop è il classico mercato monopolistico per i sistemi operativi. Eppure, anche in questo mercato, la quota di Microsoft è diminuita costantemente, scendendo a poco più del 70% nel 2024.

Grafico 1: quota di mercato globale dei sistemi operativi per Pc

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Fonte: Statista

Ma i desktop sono solo parte della storia. Unix domina il mercato dei server con il 90% delle installazioni ed è la pietra angolare del vasto mercato Android, nonostante la feroce campagna statunitense contro Huawei nel settore della telefonia mobile.

Detto questo, l’open source non è limitato all’IA o ai sistemi operativi: è una tecnologia ben consolidata. La maggior parte degli strumenti chiave del settore It – non ultimi i suoi linguaggi e il World Wide Web stesso – sono utilizzati in modo completamente, o quasi, gratuito da miliardi di persone. Allora, cos’è l’open source? Sebbene le discussioni al riguardo siano ampie, rimando i lettori a due importanti ricerche all’avanguardia in materia: il campo emergente della Noonomia (Bodrunov 2023, 2025) e lo studio delle industrie creative (Bakhshi et al. 2013, Cunningham e Flew 2019). Entrambi trattano i programmi informatici come esempi di una categoria più ampia di oggetti utili che noi (Freeman 2022) chiamiamo oggetti mentali. Questi comprendono non solo il principale output dell’industria del software, ma anche i suoi input primari.

In Freeman (2020) ho definito un oggetto mentale – talvolta chiamato “contenuto” – come un’entità non materiale che esiste in una varietà di forme materiali e può essere tradotta da una all’altra senza perdere la sua identità e, quando utilizzata, cambia lo stato di un pensatore.

Tali oggetti non sono nuovi e, anzi, sono entrati nell’esistenza umana con l’emergere del linguaggio. Tuttavia, nell’era elettronica, la digitalizzazione ha trasformato una massa disparata di cose simili in un tipo unificato di valore d’uso. Forse il più iconico è il libro; da un punto di vista materiale, è una massa di fogli stampati, ma questa è solo la sua forma di apparizione. La sua essenza è ciò che è “nel” libro e che persiste sia che lo recepiamo da una raccolta di pagine, che una recitazione o un documento elettronico. Né la Bibbia, né la Teoria della Relatività, né Fahrenheit 451 di Ray Bradbury possono essere compresi come semplici prodotti stampati. Possiamo bruciare ogni foglio di carta al mondo, ma ciò che è in essi sopravvivrà finché rimarrà nella mente degli esseri pensanti.

Termini come “conoscenza” e “informazione” non colgono l’essenza di questo valore d’uso perché sono passivi: non esprimono il ruolo degli esseri pensanti. La verità risiederebbe così in oggetti estranei alla mente, piuttosto che nella mente stessa. Tali termini trascurano anche oggetti come film, musica o post sui social media, che sono centrali nelle rivoluzioni dei consumi supportate da questa nuova tecnologia produttiva. Queste illusioni portano a false analogie dannose come il “capitale cognitivo” (Freeman 2018), che implicano che la conoscenza o l’informazione possano essere sommate tra di loro come pezzi di carbone. Non funziona così: Copernico e Galileo non “aggiunsero” qualcosa all’idea che il sole gira intorno alla terra, la distrussero.

Sosterrò che il mondo della tecnologia capitalista ha raggiunto un nuovo punto di svolta, perché l’era elettronica ha liberato gli oggetti mentali dalla loro dipendenza materiale. Questa è la causa principale della loro rapida espansione nella produzione e nell’uso, al punto che, come vedremo, sono sulla buona strada per diventare i prodotti primari del lavoro umano. Ciò ha dato vita a tutti i fenomeni tipici dell’era digitale: streaming, download, vlogging e la distribuzione generalizzata di tutto ciò che non dipende dal substrato materiale in cui è incorporato: libri, teorie, film, poesie, immagini, trasmissioni, trattati religiosi, progetti architettonici, coreografie, esibizioni musicali, codici legali o, per quel che vale, stupidità politiche2. Il risultato decisivo è l’apertura della strada a forme di società in cui gli oggetti mentali sono prodotti da oggetti mentali. Questa è una mutazione fondamentale in quelle che i marxisti chiamano “forze produttive” e che gli economisti ortodossi chiamano tecnologia.

DeepSeek non è, quindi, un “momento” ma l’annuncio di una fase della storia, a cui il capitalismo industriale ha dato vita, radicata nella diffusione generale di un nuovo tipo di valore d’uso, prodotto con una nuova tecnologia. Sorge una triplice domanda: il capitalismo può sostenere e sviluppare questa nuova tecnologia, che esso stesso ha generato? Altre società esistenti, come quella cinese, possono fare meglio? E in quale direzione dovrebbe andare la società, se questo modo di produzione vi dovesse trovare la sua dimora naturale?

Tutte e tre le domande hanno assunto la forma di una competizione perché i leader statunitensi le hanno trattate come una sola. Nel suo primo giorno in piena carica, il presidente Trump ha annunciato il lancio del progetto Stargate da 500 miliardi di dollari per l’infrastruttura IA, coinvolgendo OpenAI, Oracle e Softbank3. Con i Ceo delle tre società al suo fianco, ha proclamato l’obiettivo di preservare e far avanzare la leadership statunitense nel campo dell’“intelligenza artificiale”, incluso il permesso di generare l’energia fossile per questo progetto affamato di energia. Appena annunciato, il progetto è stato “sconvolto” da DeepSeek R1.

La prima vittima è stato il “modello di business” (Desai e al. 2025) che ha portato all’annuncio di Trump; ma questo modello stesso poggia su un fallimento più profondo: quello dell’approccio statunitense alla proprietà intellettuale (Freeman 2025), uno dei punti chiave dell’attacco di Trump alla Cina, secondo cui gli oggetti mentali dovrebbero essere soggetti alle stesse leggi di proprietà privata degli oggetti materiali. Questo approccio nasce da una campagna concertata per “privatizzare la conoscenza” e consolidare così il suo status come monopolio di una cricca di oligarchi high-tech. Si è cristallizzato nella trasformazione, nel 1995, dell’Organizzazione Mondiale del Commercio in un organismo multilaterale “basato su regole” armato di poteri punitivi per penalizzare qualsiasi nazione che si ritenga abbia violato le regole del libero scambio.

La bolla della politica di “globalizzazione” è ormai lontana, abbandonata quando la Cina ha iniziato a superare gli Stati Uniti nonostante i diritti limitati offerti dal Wto. Non così l’“Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale” (Wipo) che ha convertito una legislazione puramente nazionale per conferire ai proprietari statunitensi il diritto di “bloccare” le minacce ai loro monopolistici brevetti e copyright trasferendo, di fatto, il diritto d’uso da coloro che hanno creato, inventato o scoperto nuove idee a coloro che hanno i soldi per acquistarne i risultati.

Fin dall’inizio, come dimostrato dal motivo dichiarato da Torvalds per creare Linux, la tecnologia open source è entrata in diretta contraddizione con gli imperi proprietari di Bill Gates, Steve Jobs e simili, che hanno mobilitato ingenti forze luddiste per limitarne la diffusione, sperimentando cooptazione e repressione in egual misura per difendere i loro brand dalle violazioni del loro dominio industriale.

Hanno tenuto la linea ma, come abbiamo visto, solo nel mercato dell’informatica personale e d’ufficio che è il più vulnerabile alla manipolazione aziendale. Questa linea è stata violata prima nei mercati dei sistemi operativi e dei linguaggi, e poi nel campo tecnologicamente più significativo dei modelli linguistici di grandi dimensioni, per una semplice ragione: la produzione open source è migliore, secondo tutti gli standard riconosciuti. È un modo più efficiente per portare nuove idee all’applicazione; massimizza la diversità e incoraggia la sperimentazione; e soprattutto, come mostra DeepSeek, supera i rivali proprietari.

Ciò mette in luce la vera affinità tra DeepSeek e Linux. DeepSeek non è un segreto e i suoi metodi non sono particolarmente high-tech: non richiedono un dottorato in calcolo tensoriale, una profonda familiarità con l’equazione d’onda di Schrödinger o una carriera nella teoria delle stringhe. Come si suol dire, l’IA non è una scienza missilistica. Chiunque abbia una conoscenza di base della programmazione può capire di cosa si tratta. Chiunque può visitare il sito Github di DeepSeek, dove vedrà la comunità di 67.000 sviluppatori coinvolti in questo progetto collaborativo dal 2023 o prima. Chiunque può leggere le chiare spiegazioni che ora proliferano su Internet, il paper di DeepSeek sul sito Github stesso, i paper che hanno preceduto il rilascio R1 o l’articolo accademico (DeepSeek-AI 2025), opportunamente pubblicato su un sito ad accesso aperto, che descrive la metodologia. L’articolo elenca centonovantacinque autori e, come autore corrispondente, indica “DeepSeek-AI”. Questa non è una lista di dipendenti: è un catalogo di risorse umane.

Come Unix, i metodi di IA esistono da tempo. Io stesso ho iniziato a lavorarci nell’Unità di Intelligenza Artificiale dell’Università di Edimburgo nel 1969, lo stesso anno in cui è apparso Unix. I principi logici fondamentali che governano la relazione tra pensiero e metodi algoritmici, che sono al cuore della tecnologia IA, furono stabiliti da Turing e altri autori come Alonzo Church alla fine degli anni ’40 e all’inizio degli anni ’50.

La differenza, come apprezzeranno gli studiosi di Hegel, consiste nella trasformazione della quantità in qualità. Nel 1969, l’applicazione più avanzata a cui un ricercatore di IA poteva aspirare era sconfiggere un grande maestro di scacchi. Per farlo, dovevamo riconoscere che era impossibile anticipare ogni singola partita di scacchi, di cui ce ne sono più possibili che atomi nell’universo. Invece, dovevamo riconoscere ciò che faceva la rete neurale del cervello umano, che un automa non poteva fare, cioè valutare una posizione degli scacchi senza conoscerne tutte le possibilità future. Per farlo, assegnavamo “parametri” allo stato della scacchiera – come erano posizionati i pedoni, come erano sviluppati i pezzi, quanto erano vulnerabili ad attacchi a sorpresa, e così via.

Questi parametri, all’epoca, erano un migliaio circa. DeepSeek gestisce 671 miliardi di parametri. Questo numero di parametri non può essere valutato da un umano. L’applicazione di IA deve “addestrarsi da sola”; ciò equivarrebbe, come facevamo con le partite di scacchi, a presentare all’applicazione una posizione nel gioco, guardare avanti per vedere chi potrebbe vincere e, su quella base, ricalcolare i parametri.

Ci sono due modi per affrontare questa fenomenale moltiplicazione della capacità. Uno è il modo statunitense, che consiste nel trattare il problema come un semplice acquisto di grandi quantità di hardware. L’altro è il modo cinese, che consiste nel concentrarsi sull’input umano alla produzione creativa. Il motivo per cui il modo cinese funziona è che la tecnologia della produzione mentale è profondamente umana nel carattere; in fin dei conti, deriva da quella risorsa profondamente e specificamente umana che è la creatività (Freeman 2008). L’IA porta a compimento il progetto contraddittorio di imitare la creatività attraverso macchinari. Il focus di questa tecnologia deve, quindi, essere la cosa che viene imitata, non la macchina che la imita.

L’open source non si riduce all’open access: è un mezzo per fornire oggetti in una forma ad accesso aperto. È una tecnologia di produzione che non solo fornisce a utenti e lettori l’accesso al prodotto, ma evita loro di limitarne l’accesso e li agevola a svilupparlo. Così, per esempio, è discutibile se la licenza iOS di Apple sia genuinamente open source, poiché, sebbene fornisca agli sviluppatori il diritto illimitato di accedere e modificare il codice, esso funziona solo su hardware Apple. Il codice gira solo su una piattaforma proprietaria – il Mac Apple e i dispositivi correlati – che sono a loro volta soggetti a molte restrizioni di brevetto e copyright (a differenza del Pc, che è esso stesso un prodotto open source nel senso che chiunque è autorizzato a produrre un Pc). Apple, de facto, mantiene il controllo monopolistico sull’ambiente in cui il codice può effettivamente funzionare. Un prodotto “genuinamente” open source è uno i cui proprietari non possono impedirti di usarlo.

Detto questo, i prodotti open source non sono privi di restrizioni. Il fatto stesso che un utente non possa negarlo a un altro utente è di per sé una restrizione. Le licenze open source gettano luce sul modo in cui i cambiamenti nella forma di proprietà si sono intrecciati con la tecnologia. Già negli anni ’70, gli sviluppatori iniziarono a formalizzare i diritti open source con tipi speciali di licenza come Creative Commons, Mit, Apache, Json e altre ben consolidate alternative alle restrizioni IP tradizionali, originate dal movimento “copyleft”4. Il copyleft specifica che chiunque può usare il codice purché non impedisca ad altri di usarlo. Sono “virali”. Qualsiasi opera derivata deve preservare i permessi copyleft quando distribuita.

Queste licenze possono includere altre disposizioni come l’attribuzione all’originatore, dichiarazioni di non responsabilità e così via. La licenza DeepSeek, per esempio, stabilisce che il titolare accetti di non usarla per scopi militari, per generare o diffondere contenuti falsi verificabili con lo scopo di danneggiare altri, per discriminare o danneggiare individui basandosi sul comportamento sociale, e così via. Ciò fornisce alla società una nuova opzione per proteggere i suoi membri dall’uso dannoso dell’IA: invece di usare organi regolatori, i produttori possono scrivere le restrizioni nella forma di proprietà stessa. Questo è l’opposto diametrale del sistema US-Wipo, in cui i doveri del proprietario sono specificati e imposti esternamente dallo Stato.

Tutto ciò porta alla seguente domanda: quale tipo di società è più adatto a sviluppare questa nuova tecnologia? Più specificamente, perché DeepSeek ha avuto successo in Cina? La politica cinese affronta questo problema nel classico quadro marxista delle forze e dei rapporti di produzione. Ciò non è irrilevante, ma possiamo restringere il focus. Esaminerò la relazione tripartita tra le forme di proprietà, che definiscono i diritti di varie classi di persone sugli oggetti utilizzabili, la tecnologia, che definisce come una società produce questi oggetti, e la distribuzione, che definisce come li usa.

L’open source è una tecnologia: è un modo di produrre cose. L’open access è un metodo di distribuzione: è un modo di permettere alle persone di usarne i risultati. Insieme, de facto, presuppongono una forma di proprietà, proprio come lo scambio di merci nel mercato presuppone la proprietà privata, o il sistema politico aristocratico della società medievale europea presupponeva la proprietà feudale. Esternamente, una forma di proprietà specifica chi può usare cosa e per quale scopo. Marx, tuttavia, sosteneva che l’essenza di una forma di proprietà è il modo in cui organizza il lavoro all’interno di una data società o “modo di produzione”. Cosa, allora, attrezza una società a gestire e beneficiare di questa nuova forma di proprietà? Costituisce, in un certo senso, la “base naturale” di un modo di produzione socialista?

Certamente, il modo in cui gli sviluppatori collaborano assomiglia molto all’ideale socialista di una “libera associazione di produttori”, approvato sia dagli anarchici che dai comunisti5. Tuttavia, è utopico proiettare speranze e desideri su qualcosa che non esiste ancora. Facciamo, quindi, una domanda più pratica: in che misura la Cina realmente esistente prepara le condizioni per realizzare i potenziali benefici di questa nuova forma di proprietà, e in che misura gli Stati Uniti le ostacolano?

Partiamo da ciò che sappiamo. Perché e come la proprietà privata è così adatta al capitalismo? Perché assolve alla doppia funzione di garantire, da un lato, che i capitalisti possano produrre e vendere merci, e dall’altro che le persone possano acquistarle e consumarle? L’economia ortodossa ama presentare la proprietà privata come qualcosa di naturale ed eterno, da cui segue che il capitalismo è chiaramente il modo più razionale ed efficiente di organizzare la vita. Ma, in realtà, la proprietà privata non è un modo astratto e a-storico di gestire cose utili che i capitalisti hanno trovato per caso: al contrario, i capitalisti hanno creato società che hanno portato all’esistenza la proprietà privata. Hanno preso oggetti ereditati sia dalla natura che dalla storia e li hanno costretti a conformarsi ai loro bisogni.

Allo stesso modo, la società feudale ha portato all’esistenza la proprietà feudale: il diritto alla terra e al lavoro di chi vi abitava era trasmesso da una generazione all’altra per eredità, e ciò a sua volta sorreggeva l’aristocrazia, una classe di proprietari terrieri che ereditavano i loro diritti dai genitori. Ma questo non era (come sostenevano notoriamente i re d’Inghilterra e di Francia a costo della loro vita) perché Dio aveva ordinato un tale ordine, ma perché i re feudali, baroni, duchi, conti e persino imperatori lo imposero con determinazione e violenza, per sostenere il loro genere.

Allora, cosa rende la proprietà privata così adatta alla società capitalistica? In parole povere, è la base dello scambio. Una merce, come nota Marx nella prima pagina del volume 1 del Capitale, è una cosa utilizzabile che può essere scambiata con un’altra. Di conseguenza, può essere comprata e venduta. Ciò presuppone che sia alienabile; può essere interamente posseduta da una singola persona giuridica e trasferita da quella persona giuridica a un’altra. Altrimenti, lo scambio non ha significato.

L’alienabilità6, in questo senso legale, è così universale che è considerata naturale. Eppure non lo è. È stata ottenuta in una lotta contro la forma “naturale” di molti oggetti utili e ha avuto origine nella forma naturale degli oggetti mobili. Questo è il motivo per cui le prime merci sono tutte oggetti mobili, portando a conflitti secolari tra proprietari terrieri, coltivatori e pastori. Un cappotto, un pasto o un animale sono per loro natura “escludibili”, come dicono gli economisti: quando una persona li usa, diventa difficile o impossibile per altri farlo.

Ma non tutti gli oggetti materiali soddisfano naturalmente questi criteri. La terra è dimostrabilmente immobile e diventa escludibile solo quando recintata, densamente occupata, o entrambe le cose. Anzi, non c’è nulla di intrinsecamente privato in un’abitazione; il semplice fatto che vi vivono famiglie dimostra che il loro uso è condiviso. Altrettanto significativo, lo stesso capitale fisso, nella sua forma industriale classica della fabbrica, mal si presta a essere spostato e non è affatto escludibile. Anzi, la sua stessa funzione come centro di cooperazione tra centinaia, persino migliaia di lavoratori, è ciò che lo rende così adatto a takeover socialisti o cooperativi.

Le società capitaliste, quindi, adattano le proprietà naturali di tutti gli oggetti imponendo leggi che li rendono escludibili. Partono da oggetti escludibili trovati in natura – in particolare animali e prodotti agricoli – perché è abbastanza facile affermare un monopolio su tali oggetti con mezzi minimi come tenerli vicini o uccidere chi cerca di usarli. Anzi, il semplice atto di limitare chi può usare una cosa è forse la caratteristica più primitiva del comportamento predatorio del branco, che ha a lungo plasmato l’evoluzione delle società umane. Tutte le lingue distinguono il possesso dalla proprietà, con la distinzione germanica tra Besitzung ed Eigentum particolarmente espressiva, ma tutti i sistemi legali la riconoscono come antecedente.

La società capitalistica è emersa attraverso un processo lungo e lento in cui ha convertito le proprietà naturali di un oggetto possedibile in una forma universale di proprietà: prima che “tutto ciò che è solido” potesse dissolversi nell’aria, doveva prima essere solidificato. Ogni cosa materiale è stata trasformata in un mero esemplare di merce. Così è nata la proprietà terriera capitalistica, subito dopo le linee di navigazione mercantili, presto seguite da fabbriche, reti ferroviarie e stradali, reti energetiche e linee di comunicazione che abbracciano il mondo. Ridotto all’essenziale, il capitalismo ha reso ogni cosa utilizzabile in una risorsa spremibile, una specie di capra.

Questi elementi non si adattavano sempre facilmente al letto di Procuste in cui il capitale prometeico cercava di incatenarli. Karl Polanyi (Desai 2025) individua terra, denaro e lavoro come merci “fittizie”, proprio perché non si comportano come merci “normali”. Certo, ma cos’è una merce “normale”? Queste merci apparentemente anomale differiscono da, diciamo, stoffa o cibo, in più di un modo; per citarne tre, come sono prodotte, come sono scambiate e quali diritti conferiscono al proprietario. Quale merce è veramente non fittizia? Dovremmo limitarci, nella nostra discussione sulla forma di merce, agli esempi classici di stoffa, grano e bestiame?7. Il punto è che, per quanto discutiamo su queste differenze specifiche, in ogni caso la forma di una merce appropriata privatamente è stata imposta dalla società e, con l’evoluzione della società, è sempre più flebilmente connessa alla sua forma naturale originaria.

Questa trasformazione è stata ottenuta in battaglie che hanno definito, politicamente e militarmente, cosa costituisce una nazione capitalistica. Così, prima che la terra potesse essere comprata e venduta, doveva essere recintata, e prima che i suoi proprietari aristocratici potessero essere privati dei loro diritti storici, dovevano essere indotti o costretti a vendere i loro prodotti sul mercato. Prima che il lavoro potesse essere comprato e venduto all’ora, doveva essere “liberato” dalle forme servili e schiavistiche di acquisto a vita. Il denaro creditizio moderno ha sostituito i metalli preziosi coloniali solo attraverso una lotta secolare tra mercanti, produttori e usurai che ha convertito il credito in un flusso che alimenta il profitto capitalistico.

Alla fine del XX secolo, di conseguenza, si poteva dire che la proprietà non era più un risultato della natura; al contrario, la natura era diventata un risultato della proprietà. Tuttavia, ciò non ha impedito alla natura di dire la sua più della sconfitta di Poseidone per mano di Zeus. Nella loro “forma naturale”, gli oggetti mentali non soddisfano i requisiti di base per funzionare come merci; non sono più escludibili. La loro natura creata dall’uomo li ha liberati dall’imprigionamento nella mera materia. Una volta che è stato fissato in una forma riproducibile, chiunque lo comprenda può usare un teorema matematico o scientifico. Se recito una poesia, ascolto una canzone o condivido un programma per computer, non impedisco a nessun altro di fare lo stesso. Nel mercificare tali oggetti, le società capitaliste affrontano la difficoltà opposta al problema che avevano con la terra. È facile recintare la terra ma difficile alienarla. Un’idea è molto facile da alienare – ma molto più difficile da recintare.

Ciò ha portato Buzgalin e Kolganov (2013, vedi anche Buzgalin 2017) a proporre di dividere il mondo dell’attività umana in due “sfere”: oggetti materiali comandati dal capitale e una “creatosfera” di oggetti non materiali liberamente disponibili a tutti e quindi, in linea di principio, aperti alla liberazione dal capitale.

Questa idea è attraente; ma dietro di essa (Freeman 2020) si nasconde la questione scomoda del costo. Non è una questione di denaro ma di lavoro. Gli oggetti mentali sono creati da persone reali che fanno un lavoro reale: le teorie sono create da scienziati, i progetti da architetti, le innovazioni da ingegneri, i libri da scrittori e la musica da compositori, tutti con cast di supporto lunghi come i crediti nei titoli di coda di un film. DeepSeek è stato creato dai suoi 60.000 co-produttori. Siamo così riportati all’“essenza” di tutte le forme di proprietà, che è il modo in cui è consentito alla società di usare il lavoro.

Il nocciolo razionale della nozione di creatosfera è che il divario tra il costo della creazione e della riproduzione è cresciuto con ogni progresso tecnologico. Nel 1840, una lettera costava notoriamente un penny, in denaro odierno poco più di mezza sterlina britannica. Un’email oggi è oltre cento volte più economica. E le email sono all’estremità più costosa dello spettro elettronico; quando ho chiesto a DeepSeek di dirmi quanto costerebbe suonare la sinfonia Corale di Beethoven a casa, ha stimato che sarebbe circa due penny. Un vittoriano della classe media avrebbe dovuto andare a un concerto, spendendo 150 sterline attuali, tenuto conto dell’inflazione.

Il risultato è una divisione del lavoro mentale in ciò che crea oggetti genuinamente nuovi, che possiamo chiamare i mezzi di creazione, e ciò che mette questi oggetti a disposizione dei consumatori – siano questi consumatori persone o altri produttori – che possiamo chiamare i mezzi di riproduzione.

Questi ultimi non solo non sono privi di costi, ma sono una fonte vitale di occupazione. Le teorie sono applicate, i libri stampati, la musica eseguita. Questo è fondamentalmente come il capitalismo ha guadagnato dagli oggetti mentali per oltre due secoli: senza preoccuparsi troppo delle idee stesse, ha mercificato i mezzi di riproduzione. Questi erano vasti come fabbriche: pensate a cinema, teatri, tipografie, cattedrali e server farm. Industrie di massa sono cresciute e cadute su queste realizzazioni. Inoltre, un’importante sottocategoria di questa “forza lavoro noonomica” è costituita dai mezzi di applicazione, come l’industria farmaceutica, che essenzialmente impiega scoperte scientifiche per creare nuovi prodotti.

Entrambi i lati della discussione Freeman-Buzgalin-Kolganov concordano sul fatto che, una volta creati, tali prodotti possono essere usati da molte persone. Tuttavia, la loro creazione richiede risorse considerevoli, e questa è l’origine della proprietà intellettuale capitalistica: una risposta al problema di garantire un reddito ai creatori, attraverso il copyright per gli autori e i brevetti per gli inventori. Ciò ha un duplice effetto, e in ultima analisi contraddittorio: da un lato, fornisce un incentivo a creare e scoprire; ma allo stesso tempo, costituisce un ostacolo all’uso e al godimento dei risultati, affermando il diritto del proprietario di impedirlo. Pertanto, la mercificazione delle idee promuove e, simultaneamente, frena lo sviluppo delle forze produttive. Questa è una delle molte contraddizioni dei rapporti di proprietà capitalistici, che tuttavia viene ora portata alla luce dagli effetti cumulativi della rivoluzione elettronica.

Questo fenomeno è in atto da più tempo di quanto molti credano: è iniziato forse con il telegrafo, databile al codice Morse, la prima rappresentazione digitale di un oggetto mentale, nel 1830. Ci sono voluti 48 anni prima che venisse installata la prima linea telefonica. La prima trasmissione radiofonica risale al 1920; la prima trasmissione televisiva commerciale al 1941; il primo registratore a nastro fu esposto nel 1935, ma la registrazione su filo esisteva già nel 1899, appena vent’anni dopo il fonografo di Edison. I primi computer elettronici commerciali furono venduti nel 1951. Ampex introdusse il primo registratore video nel 1956, e nel 1980 Sony e Philips crearono l’industria di massa della registrazione video.

Tutte queste tappe hanno segnato un lungo percorso; ma quando la quantità si è trasformata in qualità? Non ho dubbi nel datare questa svolta a Internet (1983) e al World Wide Web (1992). Questi passaggi hanno trasformato la potenza computazionale localizzata in una risorsa sociale. È emersa una nuova fase della tecnologia: gli oggetti mentali potevano essere prodotti da altri oggetti mentali. Possiamo paragonare questo punto di svolta al plusvalore relativo nell’era industriale, quando le macchine iniziarono a produrre altre macchine. Con ciò, la produzione mentale potrebbe “reggersi sulle proprie gambe”. Non può farlo finché rimane in ginocchio. Richiede una società che le permetta di alzarsi; e la Cina, a quanto pare, ha raccolto questa sfida. Gli Stati Uniti, finora, non l’hanno fatto.

Ma perché? La proprietà intellettuale nella sua forma originaria non era un ostacolo alla crescita; al contrario, il profitto derivante dall’essere i primi a portare un’idea sul mercato (C. Freeman e Soete 1997) è la fonte primaria del “plusvalore”, come lo chiama Marx, e la forza trainante che sta dietro la straordinaria capacità del capitalismo di sviluppare le forze produttive, anche se solo nei suoi periodi di boom storici (Freeman 2014). Inoltre, il principale motore della crescita della produzione mentale è stato ciò che Walter Benjamin definì “riproduzione meccanica”, che ci ha dato il telegrafo, il telefono, la radio, la Tv, il cinema, l’industria musicale e molto altro.

Il punto è che, durante questi sviluppi, la produzione mentale è sempre stata vincolata alle forme materiali in cui era confinata. L’industria discografica prosperò solo finché la musica doveva essere fruita su bakelite, nastro, vinile o plastica. Quando divenne possibile scaricarla da Internet, l’intera struttura dell’industria cambiò: divenne un’industria basata sui “contenuti”, cioè prodotti mentali generati da altri oggetti mentali. Oggi, le prime due aziende al mondo per capitalizzazione sono i fornitori di contenuti Apple e Microsoft. Subito dopo seguono le “piattaforme” Google (quarto posto) e Meta al settimo.

Grafico 2: occupazione industriale e nei servizi nei cinque principali Paesi del G7

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Fonte: International Labour Organisation, calcoli dell’autore

Un ulteriore fenomeno è la produzione di oggetti materiali attraverso oggetti mentali. Le aziende di logistica come Amazon (quinto posto) gestiscono un sistema di consegna e magazzinaggio che non è semplicemente “accompagnato” da un sistema software, ma è guidato da esso. Insieme, contenuti, piattaforme e logistica occupano sei dei primi dieci posti. Due sono aziende di semiconduttori, una è Saudi-Aramco, e l’altra è Tesla, dove la ricerca e lo sviluppo rappresentano il quaranta per cento degli investimenti annuali.

In breve, l’era meccanica del capitalismo è finita.

Il mancato riconoscimento di ciò costituisce una delle due principali cause del fallimento del modello economico statunitense – l’altra è la sua convinzione correlata che la finanza costituisca un’attività produttiva. Io e Radhika Desai lo definiamo “l’illusione macchinocratica” (Freeman 2014a); la credenza che la fonte fondamentale del valore sia la macchina. Questo termine traccia un parallelo con l’idea “fisiocratica” (Meek 2013) che il valore derivi dalla terra; ciò portò a una mancata comprensione del ruolo delle città e conseguentemente a trascurare l’industria, che si supponeva si limitasse a rielaborare prodotti agricoli senza aggiungere nuovo valore. Allo stesso modo, la politica economica moderna, compresi i critici progressisti del neoliberismo come Atkinson ed Elliot (2007), presume che la macchina sia l’unica fonte “reale” di valore e considera la produzione mentale creativa come un semplice abbellimento superficiale, una ciliegina sulla torta industriale.

L’idea di Trump che i cinesi possano essere sconfitti nella corsa all’IA riversando mezzo trilione di dollari in server farm è, in questo senso, solo la manifestazione più eclatante di un male molto più profondo del pensiero economico: l’incapacità di vedere che, nel mondo della produzione mentale, la risorsa chiave non è una cosa materiale, ma il lavoro creativo degli esseri umani. Al contrario, è la capacità della società cinese di investire nelle sue persone e di riconoscere il loro sviluppo intellettuale e materiale come la risorsa primaria da cui dipende la nazione che ha creato le basi per il “momento DeepSeek”.

Grafico 3: il lavoro nel Sud globale

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In un senso soltanto, ma forse il più importante di tutti, questo arrivo è un vero e proprio “momento” e non solo un punto arbitrario in un lungo processo: abbiamo ora raggiunto un “punto di svolta”, in cui la proporzione dell’attività economica che è puramente o principalmente di natura mentale è diventata così grande da sopraffare tutto il resto. Perché questo momento è arrivato ora, e non prima? Il Grafico 2 mostra un cambiamento storico fondamentale e di lungo periodo in ciò che il lavoro fa realmente. In sintesi, la maggior parte del lavoro non produce più “cose” – oggetti materiali. Solo il 16% della forza lavoro statunitense e il 25% di quella tedesca sono impegnati in agricoltura, estrazione, costruzioni o manifattura; il resto produce “servizi”.

Vediamo di evitare rapidamente una serie di reazioni impulsive a questi fatti. In primo luogo, questo fenomeno non è limitato ai Paesi avanzati. Il grafico 3 mostra gli stessi dati per i principali Paesi del Sud globale, con la Corea del Sud come termine di paragone. La crescita dell’occupazione industriale è semplicemente cessata, mentre la crescita dei servizi procede a ritmo sostenuto, in tutti i Paesi, con un “punto di svolta” nel 2012. In Russia e Brasile questa tendenza era già dominante dagli anni ’90 e probabilmente anche prima. Nella media dei Brics, compresi Cina e India, il settore agricolo era meno sviluppato, per cui, fino al 2012, la manodopera si stava ancora spostando dall’agricoltura all’industria, mentre questa transizione era già avvenuta in Russia e Brasile.
In secondo luogo, i dati non mostrano che l’industria è “meno importante” o “più piccola”. Non è questo che ci dicono le statistiche sul lavoro. Esse mostrano che la produttività dell’industria è così elevata che, anche se il mondo produce sempre più prodotti materiali, per produrli è necessaria una percentuale sempre minore di popolazione. Un paragone è dato dall’agricoltura: alla fine del XIX secolo, la forza lavoro agricola dei Paesi coloniali si era ridotta a meno del 10%, ma non perché si rifornisse dall’estero, né perché il cibo fosse poco importante. È successo che, per produrlo, sono necessarie quantità sempre minori di manodopera. Il Regno Unito soddisfa oggi il 60% del suo fabbisogno alimentare con solo 467.000 persone, meno del 2% della forza lavoro. Gli Stati Uniti, con 2,6 milioni di lavoratori agricoli (1,6% della forza lavoro) soddisfano oltre l’80% del proprio fabbisogno calorico e sono esportatori di prodotti agricoli con un surplus commerciale di 21 miliardi di dollari.

Il punto è reso particolarmente chiaro dal Grafico 4, che mostra la quota di valore aggiunto dei settori industriali negli Stati Uniti dal 1947 – un arco di 75 anni che dimostra chiaramente che si tratta di una tendenza storica e non di un’esplosione.

Grafico 4: quota di valore aggiunto dei settori industriali Usa 1947-1923

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Come i nostri lettori marxisti riconosceranno facilmente, il valore aggiunto segue da vicino il contributo del lavoro al prodotto, soprattutto su lunghi periodi storici.

Un altro possibile errore di lettura sarebbe quello di concludere che i dati dimostrano che l’industria “non conta” o che la sovranità industriale non è importante. Non mostrano nulla del genere: la quantità di prodotti industriali non solo è più grande che mai, ma i prodotti industriali sono importanti quanto la sovranità alimentare. Semplicemente, non hanno bisogno di tanta manodopera per essere prodotti. Il moderno settore dei servizi dipende da una base manifatturiera proprio come l’industria dipende dall’agricoltura. In effetti, una ragione fondamentale del successo della Cina nella produzione mentale è proprio la sua base industriale, che ha fornito una capacità produttiva adeguata a proteggere i suoi prodotti informatici dagli attacchi sempre più decisi degli Stati Uniti.

Ora possiamo unire alcuni punti. Possiamo innanzitutto riproporre, con molta più precisione, la domanda da cui siamo partiti: quale tipo di sistema sociale è più adatto alla produzione di oggetti mentali per mezzo di oggetti mentali? Per evitare speculazioni utopiche, chiediamoci semplicemente che cosa differenzia la Cina dagli Stati Uniti in modo tale da contribuire a spiegare il successo di DeepSeek. Due punti spiccano. Si scoprirà che sono strettamente collegati.

Il primo è la diffusione della tecnologia. Ciò può sorprendere, viste le nostre obiezioni a idee come quella di “economia della conoscenza”, poiché la conoscenza è una componente essenziale della tecnologia. Ma, in realtà, il collegamento sottolinea il punto. La tecnologia non è riducibile a pura capacità mentale; consiste in una partnership tra persone competenti e i mezzi di produzione materiali con cui lavorano. Ciò richiede a queste persone un tipo specifico di conoscenza che chiamiamo abilità o, come talvolta viene chiamata, capacità, o “saper usare” i mezzi di produzione, che è ciò che fanno gli ingegneri. Non è riducibile al “sapere perché” questi si comportano come si comportano, cosa che fanno i ricercatori. Ecco perché i dipartimenti di filosofia non costruiscono astronavi.

L’approccio cinese alla tecnologia è incentrato sulla crescita di popolazione qualificata. Pertanto, i contratti di joint venture (in contrasto con il Washington consensus) includono diffuse clausole di “trasferimento tecnologico”; gli investitori stranieri non solo dovevano cedere le conoscenze brevettate e spesso segrete che rendevano la tecnologia funzionante, ma dovevano anche mostrare ai partner come utilizzarla.

Questo atteggiamento verso la condivisione della tecnologia, tuttavia, non è solo una caratteristica delle relazioni della Cina con gli yankee; è trasversale all’intera società cinese, che attribuisce grande importanza alla condivisione di conoscenze e competenze con gli altri. Emerge nel quadro commerciale della Belt and Road Initiative, nell’approccio cinese alla costruzione di partner Brics e, in generale, nel suo atteggiamento verso la via da seguire per l’umanità, caratterizzata da una “prosperità condivisa”.

Per quanto riguarda la tecnologia, la condivisione è l’esatto opposto dell’approccio statunitense e l’epitome della filosofia open source. Dal punto di vista statunitense, come dimostrano le continue accuse di Trump secondo cui la Cina sta “rubando” la conoscenza statunitense, la funzione più importante della proprietà intellettuale è il suo ruolo nella competizione: viene utilizzata per impedire la diffusione della conoscenza. Per la Cina, la sua funzione chiave è il suo ruolo nella collaborazione: viene utilizzata per diffondere la conoscenza il più lontano e il più rapidamente possibile.

Questo atteggiamento nei confronti della tecnologia è intimamente connesso al secondo punto di forza dell’economia cinese, ovvero il modo in cui concepisce il lavoro. Molte critiche disinformate, ignare del ruolo degli investitori stranieri nell’imporre condizioni di lavoro punitive orientate al profitto, si sono concentrate sulle lotte sindacali in Cina, ignorando il punto chiave che la politica governativa è quella di far rispettare i diritti legali dei sindacati. Tuttavia, sebbene sia necessario correggere i preconcetti occidentali, questo è solo un aspetto degli obiettivi generali di sviluppo della Cina, che consistono nel realizzare il potenziale produttivo delle sue industrie per mezzo della qualificazione del suo popolo.

Questo è solo un aspetto di un quadro generale chiaro e coerente per elevare il tenore di vita dell’intera popolazione il più rapidamente e il più possibile, sulla base del principio fondamentale che lo sviluppo umano dovrebbe essere l’obiettivo fondamentale dell’umanità e che i governi dovrebbero, quindi, dargli priorità, anche se non fosse per altro. Ma lo sviluppo umano non si riduce alla semplice “ricerca della felicità” prevista dalla Costituzione statunitense, sebbene taccia sul diritto a raggiungerla. Lo sviluppo implica l’ampliamento delle capacità. Ampliare la semplice gamma di cose che gli esseri umani possono fare.

L’indicazione più chiara dell’impegno della Cina nei confronti delle competenze e delle capacità umane è la crescita del livello di istruzione in generale e dell’istruzione superiore in particolare. Il sistema di istruzione superiore cinese è ora il più grande al mondo, e non solo perché ha una popolazione numerosa. Le iscrizioni della popolazione in età universitaria hanno raggiunto il 59,6% nel 2022 ed erano del 4% nel 1990, un miglioramento sbalorditivo. Se un settore industriale fosse cresciuto a questo ritmo, sarebbe stato giustamente descritto come un miracolo economico.

Se consideriamo la questione solo dal punto di vista dei “benefici per il consumatore” – i vantaggi per gli studenti derivanti dall’accesso all’istruzione – capiamo solo metà della storia, anzi solo un terzo. In primo luogo, una forza lavoro istruita è in ogni caso una risorsa produttiva. Ma in secondo luogo, sta sostituendo i macchinari come risorsa primaria nei settori della produzione intellettuale. Dietro a ciò si cela una caratteristica cruciale delle industrie creative: fanno un uso particolarmente intensivo del lavoro creativo, che i ricercatori (Bakhshi et al. 2013) definiscono come “lavoro che non può essere sostituito da una macchina”.

Questo smentisce il timore diffuso che l’intelligenza artificiale sostituirà gli esseri umani. In realtà, la tendenza generale è che gli esseri umani stiano abbandonando i settori facilmente meccanizzabili e occupando quelli in cui i macchinari non possono prendere il loro posto. Questi settori sono di due tipi: le industrie creative in quanto tali e, più in generale, i settori dei servizi, creativi o meno, in cui il contributo umano è semplicemente preferito dal consumatore, in particolare l’istruzione, ma anche la sanità e, naturalmente, l’intrattenimento, dove le performance dal vivo sono molto più apprezzate. La ragione di questa preferenza è fondamentale (Freeman 2008): la creatività – la produzione di cose nuove – è una capacità umana specifica che la meccanizzazione algoritmica non può sostituire e difficilmente riesce a imitare. Ne consegue che le società del futuro avranno bisogno di un atteggiamento nei confronti del lavoro a cui non le prepareranno né la prospettiva macchinocratica, né i modelli di business incentrati sul denaro, prevalenti negli Stati Uniti: un atteggiamento in cui la risorsa primaria è l’uomo.


Traduzione dall’inglese di Ascanio Bernardeschi

Note:
1 https://arxiv.org/abs/2501.12948. Consultato il 23 aprile 2025.
2 Per tutte queste ragioni sostengo che denominazioni come “economia della conoscenza” o “economia dell’informazione” non descrivono né i prodotti in questione, né la loro tecnologia, né l’attuale fase del loro sviluppo. Se escludiamo una qualsiasi di queste attività dal nostro campo di indagine, la scolleghiamo dalla realtà. Ma se le descriviamo tutte come contenenti conoscenza o trasmettendo informazioni, ci allontaniamo completamente dalla realtà.
3 https://openai.com/index/announcing-the-stargate-project/. Consultato il 23 aprile 2025.
4 Il primo utilizzo documentato del termine “copyleft” sembra essere stato quello di Wang (1976), sebbene la parola fosse di uso comune fin dai primi anni ’70, se non erro. Il codice di Wang inizia con sei righe che terminano con “@Copyleft”.
5 “Al posto della vecchia società borghese, con le sue classi e i suoi antagonismi di classe, avremo un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti” (Marx ed Engels 1848).
6 Da non confondere con il concetto di “alienazione” marxista e hegeliano di sinistra, sebbene strettamente correlato ad esso.
7 Affinché non si pensi che persino la forma “naturale” di un prodotto così innocente come un capo di abbigliamento non presenti problemi, ricorderò il classico problema degli statistici economici: dal 1946 la produzione dell’industria dei costumi da bagno, misurata in unità, è raddoppiata, mentre in termini di stoffa impiegata si è dimezzata. È interessante notare che ciò non è stato causato dal bisogno dissoluto di esporre la pelle, ma dalla carenza postbellica di materiale con cui coprirla.

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