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sinistra

Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet

di Paolo Selmi

Quarta parte. Dal 1905 al 1917

Škola kommunizma i sindacati nel Paese dei Soviet parte 1 html 98bc8d74546bea8fTorniamo ai nostri sindacati russi di inizio Novecento. Alla luce di quanto esposto, è ora più chiaro il passaggio dei profsojuz verso la partijnost’ in favore dei rivoluzionari russi, pur mantenendo una neutralità operativa, ovvero non perdendo mai di vista i loro riferimenti primari e principali, i lavoratori, fossero o meno iscritti al partito.

Sin da subito fra sindacalisti e rivoluzionari fu alleanza vera e propria contro lo zarismo. Dichiarando lo sciopero generale durante l’insurrezione del 1905, i sindacati misero in crisi l’intero apparato statale, ivi compresa la repressione e la propaganda: anzi, non solo non uscivano i giornali di regime, ma erano gli stessi tipografici a stampare i fogli rivoluzionari. Non da ultimo, i sindacati parteciparono attivamente alla vita dei primi Soviet1.

In questo rapporto di reciproca intesa e scambio, anche altri partiti provarono a inserirsi: le altre formazioni di sinistra, per esempio, piuttosto che lo stesso partito cadetto. Tuttavia, i tentativi dei primi di creare “doppioni” del rapporto allora in essere, così come quelli dei secondi di portare la dialettica politica-sindacato al di fuori della lotta di classe, in un momento come quello di fortissimo inasprimento del conflitto, erano entrambi destinati a non incidere minimamente sul corso generale degli eventi. Eventi che, per l’appunto, dopo e nonostante la fallita rivoluzione del 1905, vedevano sempre più uniti nella lotta socialdemocratici e sindacati.

Anni difficili, quelli che seguirono, anzi tragici per il movimento sindacale russo: la reazione segnò significativi successi, con centinaia di sedi sindacali chiuse e sgomberate, scioperi sconfitti dalle serrate padronali e dispersione di iscritti e militanti.

Il POSDR reagì a quella formidabile ondata repressiva accettando frontalmente lo scontro. In una circolare del CC datata 11 febbraio 1908 e indirizzata ai propri iscritti sindacalisti con delle linee guida per l’azione, invocava maggiori antagonismo, rafforzamento e radicamento sul territorio, nonché la sostituzione il più possibile immediata delle posizioni lasciate vacanti dai compagni arrestati o dalle chiusure forzate delle sedi.

Purtroppo, anche questa serrata di fila non impedì l’ennesima liquidazione di gran parte delle organizzazioni sindacali nel 1911. Tuttavia, il radicamento sul territorio ormai raggiunto era tale che gli organigrammi si ricostituirono in breve tempo, riallacciarono fra di loro le comunicazioni e, progressivamente, tornarono al livello di operatività antecedente l’ondata repressiva. La tabella che segue lo mostra abbastanza chiaramente, riportando i dati degli aderenti agli scioperi di quegli anni:

Anno

1910

1911

1912

1913

1914

N° scioperanti

42.000

96.000

725.000

887.000

1.337.000

Prima dello scoppio della I guerra mondiale, il numero di scioperi aveva raggiunto i livelli del 1905, con agitazioni che duravano anche due o tre mesi.

I menscevichi, all’interno del partito, erano ormai chiamati likvidatory, nel senso che avrebbero volentieri liquidato l’esperienza rivoluzionaria del POSDR e annacquato il tutto all’interno di un’accettazione passiva dello status quo. Tuttavia, equilibri interni e margini di manovra erano ormai ad appannaggio dei bolscevichi che riuscirono, nella calda estate del 1914, a portare la rivolta a Pietrogrado (aveva appena cambiato nome…) fino alle barricate.

A gettare acqua sul fuoco rivoluzionario, questa volta, intervenne lo scoppio della guerra. Fra arruolamento coatto e serrate di fila nazionalistiche, l’azione rivoluzionaria del movimento operaio russo inizialmente subì una brusca frenata. Ma se nel 1915 i partecipanti agli scioperi erano stati 539.000, nel 1916 erano già saliti a 1.159.000.

Nel frattempo, il POSDR era sempre spaccato fra bolscevichi e menscevichi, soltanto che ora lo era sulla guerra: i bolscevichi erano internacionalisty, ovvero propugnavano la linea rivoluzionaria mondiale contro i governi borghesi e contro la guerra, i menscevichi erano invece oboroncy (“difensori”), ovvero sostenitori del sì alla guerra per difendere il suolo patrio... e quello non era certo il momento per rovesciare il governo! Già dal Congresso del 27/09/15, che pur vide la vittoria della linea bolscevica, si assistette, di fatto alla spaccatura: 90 voti contro 81.

Nel frattempo, la repressione zarista non si arrestava e, oltre alle chiusure delle centrali sindacali, nel 1916 l’intero comparto metalmeccanico, insieme ad altri considerati di interesse strategico, vennero militarizzati (militarizovannye), ovvero i lavoratori vennero equiparati a soldati e sottoposti alla stessa, medesima, marziale disciplina.

A poco, tuttavia, servirono questi sforzi e, nel febbraio 1917, la catastrofe militare si accompagnò a quella del regime zarista, che cadde. È da allora, dalla fine dello Stato di polizia zaristico, che si può parlare di movimento sindacale di massa in Russia, del suo sviluppo su ampia scala in quell’immenso Paese.

 

Dai profsojuz ai fabzavkom: cronaca di un cambiamento radicale

Da quel febbraio si può iniziare a parlare anche di rivoluzione socialista. Il malcontento operaio, teso a rivoluzionare le condizioni di lavoro in fabbrica, insieme al malcontento contadino, teso a ottenere le terre che lavorava, nella cornice della disfatta militare, dei morti e delle perdite enormi generate dalla scellerata politica zarista, resero la Rivoluzione di febbraio solo la prima tappa di quello che sarebbe poi sfociato nel Grande Ottobre. Già da marzo ripresero forma e sostanza i consigli, i Soviet, a guida operaia e contadina, che costituirono di fatto la spina nel fianco del potere borghese, della Duma e del governo provvisorio, in termini di esercizio del potere, creando di fatto una diarchia.

Fu in tale clima che i profsojuz, finalmente liberi di esercitare la propria attività sindacale, conobbero una fortissima fase di espansione. Oltre alle sezioni locali, di fabbrica, si riformarono gli uffici di collegamento, analoghi alle nostre Camere del Lavoro. A undici anni di distanza dall’ultima Conferenza nazionale, si riuscì finalmente a realizzarne una nuova, la terza, il 20 giugno a Pietrogrado: 247 delegati in rappresentanza di 51 centrali sindacali e 1.475.000 iscritti di cui 400 mila metalmeccanici, 178 mila tessili, 55 mila tipografi. Durante la Terza Conferenza fu eletto il Soviet Centrale Panrusso delle Unioni Sindacali (Всероссийский Центральный Совет Профессиональных Союзов, VCSPS, SCPUS in italiano), con a capo Grigorij Evseevič Zinov'ev (1883-1936).

Le rivendicazioni sindacali all’ordine del giorno erano le stesse degli esordi:

-giornata lavorativa di otto ore e

- aumento salariale.

A Pietrogrado il primo obbiettivo, peraltro, era già stato centrato nel marzo del 1917, rinfocolando l’entusiasmo di milioni di lavoratori in tutto il Paese. Durante il Congresso si scontrarono – come ormai di prassi – le due linee, bolscevica e menscevica: la prima rivoluzionaria, la seconda riformista, la prima INCLUSIVA del sindacato, del suo ruolo di avanguardia fra i lavoratori in tale ottica, la seconda tradunionista ed ESCLUSIVA del sindacato, che “non doveva fare politica”, sulla scorta degli analoghi modelli occidentali.

Vinse quest’ultima, accreditatasi agli occhi dei delegati come interlocutrice affidabile del governo provvisorio, come garante dei lavoratori nei confronti della borghesia in un supposto equilibrio e dialogo fra il potere politico (la Duma borghese) e quello sindacale (egemonizzato dai menscevichi). Kerenskij potè tirare, in quel momento, un sospiro di sollievo.

Fu allora, però, che i bolscevichi cambiarono gioco, puntando su un’organizzazione di base, dove “stranamente” (così come è strano che quando si dà la parola ai lavoratori emergano posizioni diametralmente opposte a quelle propugnate dai loro “rappresentanti”…) erano completamente INVERTITI i rapporti di forza fra loro e i cadetti, i menscevichi o i socialisti rivoluzionari: i comitati di fabbrica e di stabilimento (фабрично-заводские комитеты, FABrično-ZAVodskie-KOMitety, abbreviato fabzavkom).

I fabzavkom nascevano spontaneamente, come il più immediato, il più logico e il più puro, se mi è concesso il termine, fra i frutti di quel febbraio. Nascevano nelle realtà industriali più avanzate, come Pietrogrado, dove già a marzo 1917 la maggioranza dei proletari esprimeva posizioni decisamente più avanzate del Soviet cittadino presso cui intervenivano esprimendole a gran voce. Era il caso, per esempio, del rappresentante delle Fabbriche Putilov, non proprio dell’ultima officina di periferia, che subordinava il RIENTRO DEGLI OPERAI ALLE LINEE DI PRODUZIONE, dopo la Rivoluzione di Febbraio, a queste condizioni:

1. Arresto e TRIBUNALE per ZAR E FAMIGLIA

2. Confisca e NAZIONALIZZAZIONE DELLE TERRE (riprendendo così anche la posizione dei Socialisti Rivoluzionari)

3. Giornata lavorativa di OTTO ORE

4. RIMOZIONE ATTUALE DIREZIONE

5. DIREZIONE OPERAIA DELL’AZIENDA CON PARTECIPAZIONE SU BASE ELETTORALE

6. MIGLIORAMENTO DELLE CONDIZIONI DI VITA DEI LAVORATORI2.

Serviva una nuova piattaforma organizzativa per tutte queste espressioni avanzate di visione politica, economica, sociale: espressioni autenticamente rivoluzionarie, per l’appunto. Espressioni fatte proprie da una base non iscritta, non sindacalizzata. La maggior parte dei lavoratori.

I soviet erano già altro. Appartenevano già a un’altra, e a un’alta, sfera: quella a cui non appartenevano QUEI SEMPLICI OPERAI, NON SINDACALIZZATI, NON ISCRITTI che, ogni giorno, ogni turno, si recavano al lavoro.

Lavoratori che era proprio lì, su quella linea, in quell’officina, in quello stabilimento, che in questo periodo cominciavano a uscire dalla loro dimensione individuale e, per la prima volta alzavano gli occhi dalla propria postazione, discutendo con i compagni vicini di quanto stava accadendo intorno a loro, della loro condizione.

Lavoratori che in quel luogo nuovo la fabbrica – loro, figli di contadini, di ex-servi della gleba, riuscivano così a ri-creare e ri-trovare, ancora una volta, quella sfera sociale, collettiva, integrale, in altre parole quel loro substrato comunitaristico contadino che era stato loro tolto, espropriato, da un’urbanizzazione improvvisa e alienante.

Lavoratori che, in altre parole, cominciavano a sentirsi parte organica di un’unità più potente, nel senso più vero di una potenza, che scoprivano ogni giorno di più poter diventare atto.

Lavoratori che, in questo senso, si sentivano già “uomini nuovi” rispetto al loro passato di servitù feudale: infatti, a differenza della precedente comunità contadina, unita ma fatta di servi, subordinati in saecula saeculorum al potere feudale, gli ex-contadini trapiantati sulla linea di produzione cominciava sempre più a sentirsi PROTAGONISTA, vero e proprio SOGGETTO COLLETTIVO. Un soggetto oggi in grado di controllare, dominare, la forza del vapore e domani in grado di influire, controllare, guidare anche quell’immenso magma che aveva abbattuto lo zarismo e che stava scardinando, nel giro di pochissimo tempo, decine di secoli di istituzioni, gerarchie, strutture di dominio e potere.

Ecco quindi come fosse proprio in virtù di quanto appena premesso che trovassero necessario, oltre che naturale, ovvero senza la minima forzatura dall’alto, costituirsi in organizzazione, per costruire insieme quel mondo nuovo: un’organizzazione operaia, proletaria fino al midollo, in grado di

- fare le veci dei profsojuz, ancora troppo deboli e poco diffuse sul territorio,

- condurre la lotta economica contro il padronato,

- esprimere un livello di radicalità e combattività decisamente maggiore dei più noti e blasonati soviet e, infine

- porre per primi e in maniera concreta la questione dirimente del controllo operaio della produzione.

Quell’organizzazione fu, per l’appunto, il FAB.ZAV.KOM. “Sono i figli della nostra Rivoluzione: sangue di quel sangue, carne di quella carne”3: così interveniva un delegato in occasione del I Congresso dei fabzavkom di Pietrogrado.

Vale la pena sottolineare ancora un momento chiave: nel 1917 l’organizzazione di rappresentanza “ufficiale”, formale, ovvero i profsojuz, perché non ancora formata, designata dall’alto, dagli organi centrali, oppure perché ancora debole come radicamento, anche nella calda estate del 1917 restava in secondo piano rispetto all’organizzazione di base, i fabzavkom, autentica espressione della partecipazione dei lavoratori alla lotta economica e politica in corso.

Ecco allora realizzarsi, in terra di Russia, il sogno del nostro sindacalismo di base: raccogliere la stragrande maggioranza del proletariato industriale sotto la bandiera della Rivoluzione. Soprattutto, in un’organizzazione in grado di intervenire attivamente non solo nella singola realtà aziendale, o – alla meglio – comparto, ma di dire la propria in sedi istituzionali sino ad allora inaccessibili o comunque estranee. Anche qui, non solo “chiedendo di essere ascoltati”, ma cominciando a intravedere la possibilità di poter “fare bene e meglio” rispetto all’attuale gestione borghese. Nell’Accordo fra Soviet di Pietrogrado e Fabzavkomy (Marzo 1917) si metteva nero su bianco l’ambito operativo entro cui i secondi sarebbero intervenuti nell’attività direttivo-gestionale dei primi:

1) rappresentanza diretta dei lavoratori “nei loro rapporti con le istituzioni governative e pubbliche”;

2) “Esposizione in tale sede delle proprie posizioni relative a questioni della vita sociale ed economica dei lavoratori”;

3) Risoluzione delle questioni interne agli stessi lavoratori;

4) Rappresentanza sindacale nei C.d.A. e nell’Assemblea dei soci o organi decisionali equipollenti4.

Queste concessioni borghesi all’organizzazione proletaria emergente dalla Rivoluzione era evidente, lampante, già nel momento in cui erano sottoscritte dalle parti, che andavano strette ai fabzavkom. Molto strette. Il POSDR si trovò così spaccato nelle sue due anime, collocate maggioritariamente ciascuna nel proprio “mondo” di riferimento: da una parte i SOVIET, dall’altra i FABZAVKOM. Da una parte la maggioranza era menscevica, dall’altra bolscevica: da una parte il ritualismo proprio di ogni manifestazione formale di rappresentanza e la piena delega ai soviet della soluzione politica del problema, attenendosi rigidamente e soltanto alla parte economica; dall’altra tutta l’energia di un’organizzazione rappresentativa, radicata, e combattiva che ragionava a trecentosessanta gradi di economia, politica, società. Al punto di GIUNGERE SPONTANEAMENTE IN UNA DATA FABBRICA AD AUTOTASSARE I SALARI DEI CAPOFFICINA E DEGLI OPERAI PIÙ QUALIFICATI PER CREARE UN FONDO TEMPORANEO DI SOLIDARIETÀ DESTINATO AI LORO COMPAGNI CHE RICEVEVANO UN SALARIO DA FAME, IN ATTESA CHE LA LORO LOTTA CONGIUNTA PORTASSE ALL’INNALZAMENTO DEL SALARIO MINIMO IN QUELL’AZIENDA5.

“La Storia ci racconta di come finì la corsa”, qualche mese più tardi, per i menscevichi. E ne iniziò un’altra, per i bolscevichi, in cui scrissero le pagine più gloriose della vicenda del proletariato mondiale fino ai nostri giorni.

 

Chi la “camicia di Nesso” se la tolse… e chi se la tenne!

Ancora oggi, l’esperienza sovietica è svalutata, peggio, ignorata: peggio ancora, derisa da bastardi di professione come il sindaco di Vilnius che, in occasione dell’Ottantesimo del Giorno della Vittoria (9 maggio 2025), dovendo approntare ulteriori bidoni della spazzatura nei parchi pubblici, dove si trovano tombe e monumenti ai caduti, esattamente come i cassonetti supplementari posti nei cimiteri dalle nostre amministrazioni comunali ai primi di novembre, ha pensato bene di scrivere sopra: “Per garofani, candele e nostalgia sovietica” (“gvazdikams, žvakėms ir sovietinei nostalgijai”)6.

Mezzo secolo fa, in tutt’altro contesto e condizioni, qualcuno usava parole decisamente più alate ma altrettanto liquidatorie per gettare nell’indifferenziato il secolo precedente di lotte operaie, finendo ovviamente col botto sull’URSS:

[...] ci è difficile, infatti non domandarsi quanto rimanga ancora nel subcosciente ideologico del movimento operaio di tradizione marxista della forzatura volontaristica operata da Lenin e da Kautsky in risposta a Bernstein e della scissione che gli uni e gli altri in definitiva accettarono (sia pure con diversi ‘intenti di ricomposizione’) fra politica ed economia; quanto rimanga del ‘catastrofismo’, di una teoria della crisi come catarsi, che, sia pure in forme molto diverse da quelle concepite da Marx e caricaturate da Bernstein, sembrava allora costituire la condizione insopprimibile per una iniziativa prometeica delle forze rivoluzionarie; e quanto rimanga ancora, dunque, di una concezione prevalentemente ‘statuale’ del socialismo, inteso come ‘fase autonoma’ e a sé stante nella transizione verso il comunismo7.

Tuttavia, non era questa l’unica cosa a restare “difficile” per l’allora segretario della CGIL. Ed è quanto segue, di fatto, a interessarci maggiormente ai fini del nostro discorso. In quello che, per il nostro movimento operaio, rappresentava forse il periodo d’oro della sua storia postbellica, sicuramente uno fra i momenti più alti della sua elaborazione teorica e pratica, Trentin era costretto ad ammettere anche (passaggio riportato, purtroppo, integralmente, a causa della mancanza in rete di un’edizione digitale del lavoro citato):

Ma è difficile sottrarsi alla sensazione che, ricorrentemente, questa concezione della classe operaia come classe dirigente, come classe di produttori (come classe capace di esercitare la sua egemonia su scala nazionale e di costruire intorno a sé un nuovo blocco storico, animandolo con una sua profonda rivoluzione intellettuale e morale e con la sua capacità di sacrificare alcuni suoi interessi immediati) è stata come calata e sovrapposta sui problemi specifici della classe operaia italiana, nei diversi momenti – non tutti uguali - del suo conflitto con il rapporto di oppressione e di sfruttamento nella grande industria; con il risultato che accanto a momenti di feconda coincidenza sono stati registrati, anche gravi sfasature rispetto agli impulsi reali della lotta di classe e al movimento delle masse.

E in quest’ultimo caso, la concezione del ruolo dirigente ed egemone della classe operaia, nella lotta per la transizione, all’interno del regime capitalistico, il processo di trasformazione cosciente dello sfruttato in produttore, si presentano come riferiti unicamente all’azione che i lavoratori organizzati possono svolgere all’esterno del luogo di lavoro e quindi all’esterno della loro condizione specifica di sfruttati e della lotta che essi possono condurre per mutarla.

Si scade allora, inevitabilmente, in una forzatura volontaristica, se non paternalistica. In ogni caso nella sostituzione dell’esperienza collettiva con l’ideologia. La costruzione di un processo si tramuta in un ‘appello’ o, qualche volta, nei fatti, in un espediente concettuale con il quale il vecchio schema ideologico del partito o del sindacato si sostituisce ai contenuti concreti della lotta consapevole delle masse, pretendendo di interpretarne, con le formule del passato, il ‘recondito’ significato.

Ed è la frattura con la realtà in trasformazione. Grande può divenire, allora, lo spazio lasciato a una gestione puramente riformistica del movimento reale o, peggio, alla sua degenerazione corporativa, al suo totale regresso verso la subalternità.

Emerge, in questi casi, la carenza, di un nesso reale fra gli sviluppi della condizione operaia, le sue contraddizioni specifiche emergenti – le quali vanno di volta in volta ‘ritrovate’, osservate con passione e con un necessario dubbio metodico –, i nuovi contenuti rivendicativi – che possono esprimersi a partire da esse e che vanno, quindi, selezionati, nella loro diversa rilevanza politica (sceverando dal ‘vecchio’ che sempre rimane il ‘nuovo’ che può concorrere a mutare il quadro preesistente) –, le forme specifiche di organizzazione della lotta di classe e della partecipazione di base e, dall’altro lato, gli obbiettivi più generali di trasformazione delle strutture economiche e civili della società e di nuova articolazione democratica del potere.

Quando questo nesso si offusca o – il che è la stessa cosa – quando questo viene assunto come ‘dato’, mentre esso deve essere sempre ricostruito con una ricognizione ‘dal basso’; quando esso manca di uno dei suoi necessari punti di riferimento, quali sono i contenuti specifici ed emergenti del conflitto di classe e la domanda politica in essi contenuti, si opera inevitabilmente una scissione fra «la coscienza di produttori» e la «coscienza di sfruttati».

E poiché queste ‘rotture’ camminano poi con le gambe degli uomini, si va ineluttabilmente, ‘nella vita di tutti i giorni’, a una ricaduta, anche in una realtà come quella italiana, pur così ricca e così lontana dalla tradizione ‘tradunionistica’ verso la più vecchia e ‘ tranquilla’ divisione dei ruoli fra il ‘sociale’ e il ‘politico’ e, quindi, fra le formazioni organizzative che sono state già preposte alla loro gestione dalle istituzioni vigenti: il partito e il sindacato.

Si va così alla scissione, nei fatti, fra politica ed economia; alla creazione di uno steccato che ostacola la circolazione delle esperienze culturali e politiche del movimento di classe, in tutti i comparti del movimento. Si va alla creazione di tanti compartimenti stagni fra il ‘movimento sindacale’ e il ‘momento’ partitico. Si va a una situazione di ‘stallo’ nella quale l’esaltazione rituale del ‘primato della politica’ può fungere qualche volta da surrogato a un impoverimento politico sostanziale sia del partito che del sindacato.

[...]

È questa la camicia di Nesso che deve essere strappata per restituire alla lotta politica consapevole una parte essenziale dell’azione rivendicativa della classe operaia e per consentire il dispiegarsi in modo non episodico di nuove articolazioni politiche e organizzative all’interno del movimento operaio e nello stesso tessuto democratico delle società industriali8.

Per inciso, era nella parte tagliata che Trentin, cimentandosi in una ricerca delle cause di questa “frattura”, che pesava (e pesa!) come una “camicia di Nesso”, formulando giudizi da del tutto opinabili e riduttivi, un po’ per assolvere sé stesso, un po’ per far cadere la colpa sugli altri, che “un po’ per ciascuno non fa male a nessuno”, usciva con la prima “perla” citata, fino a tirare in ballo presunti peccati originali di concezioni cristiano-sociali, tradunionistiche, anarcosindacalistiche, eccetera, eccetera. Restando, di fatto, prigioniero degli stessi “compartimenti stagni” da lui stesso denunciati poc’anzi.

Peraltro, nel liquidare sbrigativamente l’esperienza sovietica, l’allora segretario della CGIL dimostrava di avere una scarsa conoscenza di tale storia, nemmen cercando di abbozzarne “fasi”, “gradi di sviluppo” (o “involuzione”) o quant’altro, ma liquidandola interamente con la solita immagine della “cinghia di trasmissione” Partito-Sindacato; questo, naturalmente, quando non faceva più comodo appioppare a Lenin l’etichetta di “statualismo”, da sempre “tomba dell’amor”... e del socialismo, ci mancherebbe.

Del resto, ridurre il tutto considerando a tale, totale stregua, una sua parte, ovviamente la più idonea a tale processo di liquidazione, ovvero elevando a sineddoche il “legno” che diventa “nave”, è un esercizio retorico vecchio come il cucco. “Va su tutto”, come il grigio di certe posizioni revisionistiche, ammantate di falso “buon senso”.

Peraltro, col “peccato originale” già nel primo Lenin. Giudizio perentorio, punto, set, partita. Non chiediamoci perché oggi l’URSS non la studia nessuno. Quei cassonetti con su scritto “nostalgia sovietica”, che dovrebbero indignare oggi chiunque abbia un minimo di coerenza fra la “civiltà” che predica ai quattro venti e come invece razzola, esistevano già mezzo secolo fa. E piuttosto di esaminare il rapporto fra bolscevismo e fabzavkom, cosa lo aveva preceduto e cosa ne era seguito, meglio tenersi la propria bella camicia di Nesso, stretta addosso, e creparci dentro. Che è quanto successo.

Ai fini del nostro lavoro, tuttavia, ci importa notare come, nelle parti evidenziate di questa prolusione, introduttiva alla raccolta dei suoi scritti, non possiamo non notare un certo imbarazzo, una certa, implicita, ammissione di non essere riusciti NON SOLO ad andare oltre a quanto fatto, mezzo secolo prima, da operai sovietici che masticavano MOLTO, ma MOLTO meno Marx ed Engels, MA ANCHE di non aver neppure raggiunto il livello di quei lavoratori.

In altre parole, sessant’anni più tardi, in condizioni decisamente più favorevoli di quelle russe del 1917, con un grado di consapevolezza e di elaborazione teorica e pratica maggiore, se non altro per quel “senno di poi” di cui son piene, dovrebbero esser piene le tasche, NON SOLO il problema della rappresentatività sociale del lavoro, inteso non più in chiave puramente “economica” separata dal “politico”, era tutt’altro che risolto (oggi, peraltro, non solo non rappresenta un “problema”, ma nemmeno un’ipotesi marziana, o di un altro sistema solare, quindi fermiamoci ad allora), MA si ammetteva ANCHE che tale problema attanagliava il movimento operaio come una “camicia di Nesso”.

In quegli anni, in quel formidabile 1917, quegli operai, la “camicia di Nesso”, se l’eran tolta! Questo, in una Russia prima, e Unione Sovietica poi, che una certa intellighenzia nostrana avrebbe continuato a considerare per tutto il secolo breve poco più che semianalfabeta, in tal senso in ottima compagnia di tutte quelle madonne pellegrine in giro per il Belpaese a levar scudi, crociati e non e, non da ultimo, da una dirigenza UE ancora oggi terrorizzata da eventuali ritorni di fiamma: una classe politica di cui l’appena citato buffone di Vilnius è soltanto la folkloristica emanazione.


La prima parte qui
La seconda parte qui
La terza parte qui

Note
1 B. Kolesnikov, Op. cit., pp. 48 et segg. salvo diversa indicazione bibliografica.
2 В начале марта 1917 года большинство пролетариев Питера соглашались вернуться к станкам только в том случае, если будут удовлетворены их экономические требования. Так, выступая в рабочей секции Петроградского Совета, представитель Путиловского завода выдвинул следующие условия о возобновлении работ: 1) арест и суд над царской семьей; 2) конфискация земель; 3) 8-часовой рабочий день; 4) удаление неугодной администрации; 5) управление заводом на выборных началах; 6) улучшение экономического положения рабочих.
https://1917.com/History/HRR/1082643581.html
3 «это — дети нашей революции. Кровь от крови и плоть от плоти ея» (ibidem).
4 1) представительство рабочих «в их сношениях с правительственными и общественными учреждениями»; 2) «формулировка мнений по вопросам общественно-экономической жизни рабочих»; 3) разрешение вопросов, касающихся внутренних взаимоотношений между самими рабочими; 4) представительство перед администрацией и владельцами предприятий по вопросам, касающимся взаимоотношений между ними и рабочими". (ibidem)
Ibidem.
6Articolo e foto di questa ennesima vergogna UE in salsa baltica qui: https://www.gazeta.ru/politics/2025/05/09/21011984.shtml
7 Bruno Trentin, Da sfruttati a produttori, Bari, De Donato editore SpA, 1977, LXXXV
Ibidem, pp. LXXXIII-LXXXVII.
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Comments

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Eros Barone
Wednesday, 14 May 2025 00:09
Da questa scarnificante analisi dell'opportunismo di Bruno Trentin e di tutto il gruppo dirigente della CGIL, analisi che Paolo Selmi articola in modo magistrale attraverso un'ottica bifocale sulla situazione italiana e sovietica, si ricavano tre fondamentali considerazioni: 1) che il forte antagonismo di classe, che pure si manifestò all'interno delle strutture di base dei sindacati confederali e si rivolse contro la strategia collaborazionistica e contro l'autoritarismo dei vertici di tali sindacati (due facce della stessa medaglia), ebbe sempre un limite oggettivo, i cui effetti risultavano moltiplicati dalla mancanza di una chiara linea di opposizione rivoluzionaria dentro e fuori dei sindacati istituzionali: tale condizionamento venne esercitato, oltre che dalla particolare composizione politica e sociale della base operaia che sosteneva il movimento dei delegati, dai settori più abili ed intelligenti della direzione riformista, essenzialmente antirivoluzionaria, del movimento operaio; 2) l'ottica del movimento dei delegati era quella di una difesa, tanto intransigente quanto, in prospettiva, perdente, delle conquiste ottenute dal movimento operaio nel periodo degli anni Settanta, difesa che, nella misura in cui non riusciva ad affrontare e risolvere - e qui la responsabilità delle forze comuniste è stata enorme - il problema della elaborazione di una strategia di classe offensiva, imposto dalla nuova fase di crisi sempre più accentuata del capitalismo, restava subalterna, per un verso, all'egemonia delle forze opportuniste 'di sinistra' e, per un altro verso, al ricatto delle forze opportuniste di destra, e finiva, quindi, col portare il movimento dei lavoratori in un vicolo cieco; 3) le vicende sindacali e i conflitti sociali degli anni Settanta e Ottanta dimostrarono inequivocabilmente che la questione dell'unità fra lavoratori dell'industria e lavoratori del pubblico impiego occupava un posto teoricamente e politicamente centrale nella costruzione di una strategia di classe offensiva, capace di non cedere né alle ingannevoli suggestioni dell'operaismo e del produttivismo "alla Trentin" (che sfociavano talora, nella concezione settaria, punitiva e meschina di un 'livellamento verso il basso' e di una 'socializzazione della miseria'), né tantomeno a quelle del corporativismo piccolo-borghese. In un certo senso, si può sostenere che tale questione assumeva allora, e assume oggi, un rilievo paragonabile a quello che ebbe per il movimento socialista e comunista, nel corso dell'800 e fino alla prima metà del '900, la questione dell'alleanza fra operai e contadini. L'errore fatale fu quello - frutto di una visione unilaterale e non dialettica, cioè, ancora una volta, di opportunismo - consistente nel separare il momento della difesa dal momento dell'attacco (il momento in cui, procurando di difendersi, non si rinuncia ad elaborare un piano di attacco, ed il momento in cui, portando l'attacco, non si trascura di provvedere alla propria dìfesa). Va da sé che questa dottrina dell'attacco e della difesa acquistava un preciso significato solo per quelle forze che, nella lotta di classe, miravano a conquistare il potere politico e ad avanzare verso il socialismo.
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Paolo Selmi
Wednesday, 14 May 2025 08:28
Grazie di cuore, Eros!
Oltre che per la lettura, anche per questa puntuale e rigorosa analisi della nostra "camicia di Nesso".
Quando si parte con lavori come questo, mi accorgo sempre di più di quanto vale il detto: "si sa come si nasce, ma non si sa come si muore"...
Ero partito con la traduzione di quel manuale sulla pianificazione, e la completo, fosse l'ultima cosa che faccio, e mi sono imbattuto prima nell'emulazione socialista, e poi nei profsojuz. E anche lì che fare... lasciare tutto così? con una noterella a piè pagina? Impossibile. Noi siamo noi, loro sono loro, impossibile spiegare il noi, il loro, gli altri, tutta questa babele chiamata mondo con una noterella a piè pagina. Ma per me, per primo! Perché i conti alla fine non tornano, così.
Allora su a farsi una cultura, il minimo necessario per capire come loro si finì così. Alla fine son venute oltre duecento pagine.
Perché nel frattempo mi sono chiesto anche, a furia di tradurre, perché i russi usassero due termini per "verità". E anche lì mi ha aperto un mondo che un libro intero probabilmente non basterebbe.
Poi vedo che parlano di rabochee upravlenie, di gestione operaia delle fabbriche, con la stessa disinvoltura con cui parlavano poco prima di chi doveva fare i turni e le squadre per la mietitura dell'artel'. E anche lì mi si accende una lampadina, anzi due, visto che nel frattempo mi è pure tornato in mente il libro di Trentini che insieme alla intervista sul sindacato di Lama è un po' la dote "sindacale" che mi son portato da casa dei miei... e riprendo a leggerli ora, a distanza di trent'anni da quando li avevo presi in mano per la prima volta... e i conti anziché tornarmi continuano a non tornarmi, più di prima anzi!
E allora la prima cosa che ho fatto è stata cercare di mettere per iscritto, non lasciare che la confusione restasse nella mia testa, indistinta. un po' come quando la matassa la metti per terra per capire, da ferma, dove stanno capo e coda.
Ti dirò di più, il tutto in pieno covid. due anni di lavoro che dovevo pubblicare a puntate nel 2022. Poi è iniziata la SVO e non ne avevo più né tempo, né proprio l'idea. Non proprio Quasimodo e le cetre, ma quasi... rinviata a tempi migliori. Che non sono questi, per niente. Ma ho capito che, in qualche modo, la vita continua. E continuano a mettercelo in quel posto, soprattutto.

E allora ho ripreso questo lavoro. E l'ho trovato estremamente stimolante, a tre anni di distanza, ma altrettanto scoordinato, proprio a livello di costruzione dei paragrafi. si vede che durante il covid ero molto, ma molto più inkazzato. e buttavo giù a nastro. senza rileggermi, ovviamente. e da qualche parte è uscito anche così... pazienza. allora qui, ogni otto, nove cartelle che pubblico passo e ripasso, riscrivo, taglio (la prefazione di sfruttati e produttori erano tre pagine di inserto! assurdo, ma allora pensavo... copio tutto, come diceva totò... a verbale!), ricucio, sposto, eccetera...
Ma anche così mai e poi mai sarei riuscito a esprimere e ad articolare l'analisi della nostra, di camicia di Nesso, così come l'hai svolta tu!
Grazie ancora di tutto!
Un abbraccio
Paolo
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