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consecutiorerum

Alessandro Mazzone, per una teoria del conflitto

Recensione di Tommaso Redolfi Riva & Sebastiano Taccola

Alessandro Mazzone: Per una teoria del conflitto. Scritti 1999-2012, a cura di R. Fineschi, La città del sole, 2022

IMG 7576 scaledIl pensiero richiede i suoi tempi: solo la riflessione paziente, elaborata e critica può permettere di cogliere appieno l’articolazione profonda delle mediazioni che informano la realtà. È questa una delle lezioni di metodo (ma il metodo non è già di per sé strutturazione di un qualche contenuto?) lasciata da Alessandro Mazzone (1932-2012). Filosofo marxista formatosi sotto la guida di figure come Banfi, Geymonat e della Volpe, Mazzone ha insegnato per molti anni a Santiago de Cuba, Messina, Berlino e, soprat­tutto, Siena. E proprio a Siena, per iniziativa di un gruppo di ex-studenti, è recentemente nata l’associazione Laboratorio Critico, che, sotto la gui­da di Roberto Fineschi, si propone di ricordare e sviluppare l’importante contributo teorico di Mazzone. Il primo volume pubblicato da quest’as­sociazione (in collaborazione con la Rete dei Comunisti) è Per una teoria del conflitto, una raccolta di scritti risalenti all’ultimo decennio di vita di Mazzone.

Mazzone ha pubblicato relativamente poco, anzi pochissimo se faccia­mo un confronto con gli standard attuali della pubblicistica accademi­ca. Eppure, anche solo scorrendo la bibliografia dei suoi scritti raccolta in questo volume, ci troviamo di fronte a un intellettuale che ha analizzato autori e temi cruciali della modernità filosofica, o che ha tradotto ope­re assai importanti nel dibattito internazionale su questioni di economia, storia, filosofia (come, ad esempio, Problemi di storia del capitalismo di Maurice Dobb, Lezioni di sociologia di Adorno e Horkheimer, molti saggi di Lowith). In questo caso, dunque, la lentezza della scrittura è segno di grande modestia e onestà intellettuale, che trova il proprio precipitato pro­prio nella incredibile densità che caratterizza gli scritti di Mazzone, tutti definiti da un’architettonica puntuale e rigorosa

. Ed è proprio lo studio pa­ziente che attraversa per intero l’esposizione mazzoniana, fino a penetrare nella scelta ragionata delle singole parole (giacché in ogni parola abita un concetto), che fornisce a questi scritti una struttura proteiforme, in grado di costruire rapporti sintattici tra il piano astratto delle forme e la realtà del presente, se non, addirittura, la congiuntura (una cosa apparentemente paradossale, dal momento che siamo, a torto, abituati a rappresentarci la congiuntura come un qualcosa da catturare nell’istante, in maniera febbri­le e impaziente verso i tempi lunghi dell’elaborazione concettuale). Si ve­dano a tal proposito i saggi raccolti in questo volume: essi affrontano temi anche molto distanti tra loro, eppure lo fanno con uno stile uniforme, che conferisce la massima dignità (e la medesima fatica concettuale) all’oggetto trattato. Ciò avviene anche in forza di una sorta di tropismo, che guida l’elaborazione mazzoniana verso una tematizzazione sempre mediata da tre macro-categorie: processo storico, rapporto tra natura e storia, modo di produzione. Si tratta di tre dimensioni teoriche vere e proprie, in cui si può riconoscere la stretta dipendenza di Mazzone dal pensiero di Hegel e Marx. Ed è proprio nell’intreccio (configurabile in forma dialettica, e dunque mai unilineare) tra queste tre dimensioni, che Mazzone riesce ad affrontare in maniera tanto originale quanto coerente temi assai eterogenei come l’Uni­versità e l’imperialismo, la lotta di classe e la comunicazione capitalistica, l’ideologia, lo Stato, la nuova edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels (MEGA2). E lungo questo percorso la riflessione si arricchisce e tracima ben al di là dei soli Hegel e Marx, per tornare a pensare (e a rie­laborare) concetti e figure chiave del marxismo: Gramsci, Lenin, Labriola, Lukacs. E ciò non in forza di una torsione passatista o di una nostalgica difesa dogmatica di una presunta tradizione marxista, ma per “scongelare i classici” (parafrasando Moses I. Finley), mostrarne la vitalità e, se vo­gliamo, l’attualità. Un aspetto che emerge nella straordinaria lucidità di­mostrata da Mazzone nell’affrontare la burrascosa congiuntura politica, ideologica e culturale, che ha segnato gli anni di passaggio tra XX e XXI secolo. Troppo facile sarebbe stato rifugiarsi nell’oscurità labirintica di cer­te formulazioni aforistiche sempre alla moda, o scrivere il proprio pensiero del giorno, a caldo, sulla colonna di un qualche quotidiano. Molto più difficile pensare laboriosamente, andando alla ricerca di nuove “cassette degli attrezzi” del pensiero critico, per ricostruire, leggendo in controluce il fotogramma dell’ultima congiuntura, gli obiettivi di medio, lungo o lun­ghissimo periodo, e le soggettività storiche che possono o debbono farsene carico. Di qui anche la sorprendente originalità di alcune questioni messe in rilievo da Mazzone: si prenda, a tal proposito, il suo affondo in presa diretta sull’Università del nuovo millennio (profezia dei nostri tempi? No, solo analisi critica delle tendenze in atto e dei loro margini di sviluppo, del­le loro possibilità reali); oppure, l’attenzione continuamente riportata sulla distribuzione delle risorse, l’emergenza climatica, il collasso della biosfera (tutti aspetti di cui oggi siamo tutti tragicamente consapevoli, ma che più di vent’anni fa erano generalmente considerati molto più marginali).

Nel perimetro teorico-politico definito da simili questioni, l’analisi critica del modo di produzione capitalistico rimane un aspetto centrale, innanzitutto per delineare le forme di mediazione che ci permettono di configurare, in termini anche assai generali, ma non generici, gli obiettivi di lungo periodo e i soggetti di una prassi anti-capitalistica e democratica. Da questo punto di vista, i saggi dedicati alla teoria delle classi raccolti nella prima parte del volume contengono aspetti assai interessanti, che vale la pena di considerare. Proprio su di essi vorremmo adesso concentrarci, prima di concludere.

La prima parte del saggio Le classi nel mondo moderno ha come titolo Rappresentazione e concetto. Per comprendere il discorso di Mazzone sulle classi, che egli svolge nella prima parte del volume, si deve partire proprio da questa distinzione. Il riferimento di Mazzone è abbastanza evidente: la distinzione tra rappresentazione e concetto ha un rimando immedia­to all’interno della filosofia hegeliana. Fin dal primo paragrafo dell’Enci­clopedia Hegel si sofferma sulla distinzione affermando che “la coscienza nell’ordine cronologico si forma prima delle rappresentazioni che non dei concetti degli oggetti” (123)1. Ma avere una rappresentazione non è anco­ra conoscere, tanto è vero che poco dopo Hegel ci tiene a precisare che la filosofia ha come suo scopo proprio quello di trasformare le rappresentazioni in concetti.

Mazzone inizia il suo saggio proprio partendo dalla rappresentazione della stratificazione sociale, rappresentazione che in qualche modo carat­terizza ogni società in cui è individuabile un alto e un basso. Ma tale rap­presentazione rimane teoricamente muta finché essa non diviene concetto, cioè finché questa stratificazione non diviene momento di una teoria in grado di comprendere le funzioni sociali specifiche dei diversi gruppi so­ciali all’interno di un processo più ampio, in ultima analisi riconducibile a una forma specifica di produzione e riproduzione di un corpo collettivo sociale all’interno della natura.

Per Mazzone ciò che consente di trasformare la semplice rappresenta­zione della stratificazione sociale nel mondo capitalistico in un concetto te­oricamente produttivo è la critica dell’economia politica, cioè l’esposizione del rapporto sociale di produzione capitalistico.

Questa considerazione ci consente di poter affermare che per Mazzo- ne nell’opera di Marx abbiamo una teoria delle classi solo laddove vi è l’esposizione articolata nelle sue diverse mediazioni e anelli intermedi del rapporto sociale di produzione, cioè in Marx abbiamo teoria delle classi, una loro sistematica, solo per quanto riguarda il modo di produzione ca­pitalistico.

L’altra considerazione che possiamo fin da subito sviluppare è che per Mazzone il concetto di classe non è semplice individuazione sociologica di gruppi, bensì un concetto che egli stesso definisce logico-funzionale e che si costituisce a partire dalla comprensione della forma specifica della pro­duzione. Questo significa che una teoria delle classi non può avere come proprio punto di partenza i diversi redditi, le forme della distribuzione della ricchezza, che vengono poi ordinati e classificati quantitativamente, al contrario: possiamo parlare di classi concepite concettualmente solo a valle di una teoria del rapporto sociale di produzione che identifica i grup­pi sociali che rappresentano la condizione di possibilità di attuazione e svolgimento di quel rapporto.

Procedendo da queste osservazioni, in qualche modo metodologiche, Mazzone riprende l’ordine dell’esposizione marxiana, dall’analisi della cir­colazione semplice, del rapporto di valore, fino a giungere alla prima forma in cui appare il capitale, come valorizzazione di valore, denaro che produce più denaro, la cui possibilità risiede nell’acquisto di una merce particolare il cui uso e consumo sia il lavoro stesso: la forza-lavoro. È solo a questo punto, nel capitolo quarto del Capitale, che emergono le due classi con­trapposte dei detentori delle condizioni oggettive della produzione e dei detentori delle condizioni soggettive (i possessori dei mezzi di produzione, da un lato, i possessori della forza-lavoro, dall’altro). La possibilità dell’at­tuazione del rapporto di capitale, del rapporto di produzione fondamenta­le, si dà soltanto a partire da una separazione strutturale tra questi due mo­menti del rapporto, le condizioni oggettive e soggettive della produzione, condizione storica specifica, esito del dissolversi di determinate forme di proprietà e di produzione di cui Marx ci dice solo nel capitolo ventiquat­tresimo dedicato alla cosiddetta accumulazione originaria.

A questo punto sappiamo che esiste una separazione strutturale all’in­terno della società che è condizione necessaria affinché il rapporto di ca­pitale possa prodursi (Mazzone sottolinea che il titolo del Libro primo, Il processo di produzione del capitale, deve essere inteso nel senso del genitivo soggettivo, come il capitale produce se stesso in quanto rapporto). Ciò consente a Mazzone di affermare che le classi rappresentano la forma di esi­stenza specifica in cui vengono a trovarsi le forze produttive. Se il rapporto di capitale è comprensibile soltanto a partire dalla separazione strutturale tra condizioni soggettive e oggettive della produzione, e questa separazione taglia in due la società individuando una classe di detentori dei mezzi di produzione e una classe di deprivati di ogni proprietà se non la propria for­za-lavoro, diviene chiaro che le classi altro non rappresentano che la forma di esistenza delle forze produttive all’interno del rapporto di produzione capitalistico.

Posto che ogni rapporto di produzione presuppone l’unione di lavo­ratori e mezzi di produzione, posto che la valorizzazione capitalistica può aver luogo solo se i mezzi di produzione esistono da un lato come proprietà di un determinato gruppo sociale e il lavoro, da essi separato, come mera possibilità di un altro gruppo sociale, ecco che l’espressione di Mazzone se­condo cui le classi rappresentano “i modi di esistenza delle forza produttive materiali nel loro sviluppo” (p. 80) assume il suo senso specifico. Ma, con­tinua Mazzone, ancora non abbiamo un concetto delle classi. Il capitale quale rapporto sociale di produzione ha una sua specifica forma di moto, che determina la dinamica specifica che caratterizza le forze produttive so­ciali: dunque le classi. Quindi solo comprendendo la forma di movimento del rapporto di capitale abbiamo una comprensione della forma di moto (qualitativa, quantitativa e dinamica) delle classi. Se procediamo, infatti, nell’analisi della produzione di plusvalore relativo avremo la comprensione della forma che progressivamente assumono le forze produttive, sia dal lato delle condizioni soggettive - le forma che assume il lavoro e la forme di esistenza delle classe lavorativa - sia dal lato delle condizioni oggettive della produzione - la tendenza all’accumulazione capitalistica e alla dimi­nuzione relativa della componente del capitale variabile rispetto al capitale costante, concentrazione e centralizzazione del capitale, analisi della legge della popolazione e dell’esercito industriale di riserva, ecc.

Secondo Mazzone, una teoria delle classi presuppone una teoria svilup­pata del rapporto di produzione (la sua forma di moto, le leggi, le tenden­ze). È a partire dal rapporto che possiamo comprendere la funzione spe­cifica delle classi, il loro mutare nelle diverse configurazioni specifiche che assumono, la loro storicità. Ed è proprio seguendo questo filo conduttore che la teoria marxiana del modo di produzione (o meglio: della dinamica del modo di produzione) diviene una teoria del processo storico: la concet­tualizzazione della forma di moto del rapporto di capitale nelle sue diverse e sempre più concrete articolazioni fonda i margini di comprensione di una forma di storicità specifica che consente di gerarchizzare e ordinare logicamente i fenomeni (i fatti storici) caratterizzanti la moderna società. La teoria del modo di produzione è dunque anche una teoria della storicità specifica, una teoria cioè che getta una luce sulle forme determinate di sviluppo e movimento della società moderna.

C’è storia non perché vi sia un semplice susseguirsi delle generazioni, c’è storia perché mutano le forme di questo susseguirsi, mutano cioè le forme specifiche in cui ‘le società producono e riproducono se stesse. Teoria del processo storico è dunque: a) da un lato, la comprensione del perché possa darsi successione delle diverse forme in cui la società produce e riproduce se stessa (e questo è quanto possiamo ricondurre a ciò che la manualistica chiama “materialismo storico”); b) dall’altro lato e soprattutto, la com­prensione della forma di moto specifica di una determinata formazione sociale (e solo di questa in Marx abbiamo scienza).

Ed è in particolare da questo secondo genere di comprensione che si sviluppa una teoria della storicità specifica in grado di mettere a fuoco le strutture specifiche e le direzioni in cui una determinata società può tra­sformarsi, i suoi vettori di sviluppo, le contraddizioni immanenti che la ca­ratterizzano, le possibilità che da questi vettori emergono ma che possono essere realizzate solo al di là di quella forma sociale.

Ed è proprio all’interno di questo reticolo di determinazioni, in cui la logica specifica del modo di produzione è condizione di possibilità della storicità specifica, che Mazzone si rivolge al tema della lotta di classe. Ciò che emerge fin da subito è che per Mazzone lotta di classe ha un significato politico ampio, in alcun modo riconducibile a obiettivi tattici. L’oggetto della lotta di classe è fin da principio transmodale. Se, infatti, “l’oggetto della lotta di classe è sempre stato [...] il modo di organizzare la vita degli uomini associati, la produzione e riproduzione di questa attraverso e me­diante il lavoro” (p. 39), possiamo dire fin da subito che il suo obiettivo è politico e non meramente rivendicativo. Mazzone parla di un sindacato di classe, ma l’opera che questo sindacato di classe deve svolgere si mostra un’opera politica ad ampio raggio e non soltanto di rivendicazione sinda­cale: la lotta di classe non si svolge all’altezza del momento distributivo.

Si tratta, in questa direzione, di comprendere il movimento e la storicità delle forme e delle figure presenti nella critica dell’economia politica. È questo, ad esempio, il caso della categoria di lavoratore complessivo intro­dotta da Marx nel primo libro del Capitale quale sommatoria dei lavoratori parziali che lavorano sotto uno stesso capitale. Mazzone suggerisce che la progressiva integrazione del genere umano nel mercato mondiale capi­talistico consente di configurare la nozione di lavoratore complessivo in maniera allargata, pensando in quella nozione un lavoratore complessivo su scala mondiale, come soggetto potenzialmente unico di lotta. Certo, se la generalizzazione di tale nozione è possibile sul piano astratto, da un punto di vista concreto, il lavoratore complessivo reale esiste all’interno di capitalismi concreti geograficamente, culturalmente e politicamente si­tuati. Questo significa che l’unità astratta del lavoratore complessivo non è immediatamente unità concreta, né, necessariamente, unità di intenti.

Un sindacato di classe, a cui Mazzone si riferisce, che agisce sempre in contesti concreti e secondo elementi tattici a tali contesti riconducibili, non può tuttavia perdere di vista quello che è stato definito l’oggetto della lotta di classe, ma tale oggetto, posta un’integrazione mondiale, deve essere pensato nell’orizzonte di una riproduzione sociale complessiva che si attua attraverso un lavoratore complessivo.

Ciò che emerge è che la coscienza di classe è il riconoscimento dell’u­nità del lavoratore complessivo a livello mondiale, riconoscimento sempre più difficile da un punto di vista teorico, data la frammentazione che il lavoro salariato assume (anche nello stesso contesto geografico e culturale); riconoscimento sempre più difficile da agire praticamente, dati gli interes­si, che immediatisticamente possono risultare contrapposti, delle diverse frazioni del lavoratore sociale complessivo. Ma a prescindere dalla diffi­coltà questo è il compito intellettuale e pratico che Mazzone vede come necessario.

In questo contesto si inserisce la distinzione svolta da Mazzone tra Ri­produzione sociale complessiva intesa in senso stretto, cioè legata esclusiva­mente alla produzione e riproduzione economica della società, e la Ripro­duzione sociale intesa in senso esteso. Il rapporto di capitale è un rapporto di rapporti, alla cui radice risiede il rapporto sociale di produzione; ma non tutti i rapporti sociali sono compresi dal rapporto sociale di produzione. Se è vero che tale rapporto è dominante, ciò non significa che esso abbia im­mediatamente possibilità di conformare a sé tutti gli altri rapporti sociali di cui la riproduzione sociale complessiva si compone.

Mazzone mostra che se è vero che la produzione e riproduzione degli uomini nella natura è determinata dal rapporto di produzione fondamenta­le - rapporto di capitale -, essa è tuttavia attuata attraverso tutte le attività degli uomini associati: “attività lavorative non solo, ma anche educazione, insegnamento e apprendimento, di cura del corpo e della mente (igiene, sanità, sport, riposo), di produzione culturale, scientifica, artistica ecc.” (p. 56). Questo significa che potenzialmente e tendenzialmente il rapporto di produzione può imporsi (ri)disegnando in sua funzione tutte queste attività, ma che tale imporsi non è né immediato, né automatico. Si tratta cioè di un processo storico che presuppone livelli e sfere che hanno forme di autonomia relativa che, nell’analisi sociale e nella lotta di classe, devono essere tenute in considerazione. Quindi, né autonomia assoluta delle sfere sovrastrutturali, né semplice determinismo economico.

È a questa altezza che Mazzone introduce la nozione di egemonia, come strumento fondamentale per comprendere la resistenza (attiva o passiva) o la conformità delle sfere della vita associata alla determinazione del rapporto sociale di produzione fondamentale. “Lotta egemoniale”, come la chiama Mazzone, è una lotta di classe che non ha obiettivi tattici, è bensì una lotta economica, politica e culturale in grado di agire anche nelle sfere che hanno autonomia relativa rispetto al rapporto di capitale.

Se si intende la lotta egemoniale come un semplice scontro tra gruppi, partiti, modi di vita, idee, si rischia di non comprenderne il significato spe­cifico che Mazzone dà alla nozione di egemonia. Certo che è anche quanto detto, e quindi scontro tra gruppi, partiti, modi di vita, idee ecc. purché si tenga presente che la nozione di “modo di produzione e quindi quella di classi e di egemonia di classe, è logicamente a monte dei processi politici, culturali ecc., che si instaurano nelle società di classe e ne attuano (o met­tono in forse) l’egemonia” (p. 60). Questo significa che esiste una forma di moto, una tendenza di sviluppo, posta dal rapporto di produzione, che spinge/preme affinché tutti gli altri rapporti, di cui la nozione di Ripro­duzione Sociale complessiva è comprensiva, si conformino ad esso. Questa tendenza alla conformazione si attua attraverso l’egemonia di classe, che, appunto, trova espressioni in sfere non immediatamente riconducibili alla produzione e riproduzione materiale della società. Nello stesso tempo, se non si riconosce la tendenza immanente del capitale ad uniformare a sé ogni rapporto che si trova di fronte, e l’attenzione si concentra solo sulla lotta egemoniale all’altezza delle sfere politiche e ideologiche, potremmo dire sovrastrutturali, il rapporto di produzione viene obliato e la lotta viene a concepirsi come mero scontro politico.

L’oggetto della lotta di classe e della lotta egemoniale è, dunque, una diversa forma di organizzazione del lavoro umano; la lotta egemoniale, inoltre, si svolge nella forma di un antagonismo con le capacità coloniz­zatrici del rapporto di capitale sulle altre sfere della Riproduzione sociale complessiva. Un altro elemento che emerge dalle pagine di Mazzone è che la lotta egemoniale condotta dalla classe lavoratrice non deve essere una mera lotta di resistenza, una mera conservazione di aree incontaminate dal rapporto capitalistico; essa è piuttosto una lotta progressiva, che ha ad oggetto un’altra forma di riproduzione sociale complessiva pensabile e possibile proprio solo grazie ai vettori di sviluppo che caratterizzano imma­nentemente il modo di produzione capitalistico, ma che rimangono legati alla forma limitata della accumulazione di capitale. Ancora una volta: è la forma di moto capitalistica che accenna a forme di sviluppo che essa non è in grado di realizzare. Tale consapevolezza - che emerge dalla teoria del modo di produzione - deve quindi orientare la lotta egemoniale. Quello che emerge, in conclusione, è che la possibilità della comprensione e dello svolgimento della lotta nonché la posizione dei fini emerge in modo im­manente a partire dal rapporto sociale capitalistico, rapporto sociale che solo una teoria del modo di produzione è in grado di sviluppare.

La lotta di classe, per Mazzone, mantiene un rapporto dialettico con la critica immanente del rapporto capitalistico, di cui essa è allo stesso tempo diramazione logica e figura storico-reale. Questa centralità del mo­dello della critica immanente è forse un tratto caratteristico comune a tutta la riflessione mazzoniana: in esso possiamo ritrovare tanto il suo scherno quasi brechtiano (segnale di vero e proprio disprezzo intellettuale) verso i tanti predicatori del moralismo e del prassismo astratti, quanto la sua costellazione filosofico-concettuale di riferimento (il filo rosso che guida la sua lettura appassionata di Hegel, Marx, Gramsci, ecc.). A tal proposito, verrebbe da fare un’ultima, breve considerazione a partire dall’autobiogra­fia intellettuale di Mazzone scritta come presentazione alla Leibniz-Societàt di Berlino (un inedito pubblicato all’inizio di questo volume). Si tratta di uno scritto molto breve, ma che mette bene in luce gli orientamenti teori­ci che hanno caratterizzato l’attività intellettuale di Alessandro Mazzone. Scrive Mazzone:

In Italia, negli anni del dopoguerra, studiare filosofia significava: Humanitates e un nuovo inizio, ripartenza ed apertura, certezza (allora ancora) inconcussa di po­ter contribuire con il proprio studio all’edificazione e allo sviluppo della Repubblica italiana, nata dalla Resistenza antifascista. A questa certezza si aggiungeva il duplice mandato che, come un viatico, la scuola di A. Banfi e di L. Geymonat dapprima, poi quella di G. della Volpe assegnò a me e a qualcun altro. In primo luogo: è dovere di Socrate intendere concettualmente (ma non comprendere) Callicle, il quale abbando­na il dialogo facendo appello alla forza [il riferimento è al dialogo platonico Gorgia]. La filosofia non ammette settarismi di fazione; anche per l’avversario più radicale occorre trovare un concetto che lo definisca, onde intenderlo; persino contro l’idea che egli ha di se stesso, se è necessario. La sua deduzione, a partire da un livello di generalità superiore, è la sola confutazione possibile. In secondo luogo, ma sopra ogni altra cosa, il compito di comprendere il proprio tempo in pensiero. Questo secondo compito è infinito. Infatti la comprensione del tempo non coincide mai con quell’o­rizzonte della sua visibilità che è stato acquisito per ultimo” (p. 24).

È da rilevare l’idea che per l’avversario più radicale occorra trovare un concetto che lo definisca e che la deduzione della posizione dell’avversario, da un livello di generalità superiore, è la sola confutazione possibile. Il falso è momento del vero, e non il suo altro assoluto. È questa un’idea profondamente dialettica di confutazione, che forse vale la pena mostrare nella sua attuazione, richiamandoci ad un momento della critica dell’economia marxiana e alla lettura di essa che ne fa Mazzone.

Se seguiamo l’andamento dell’esposizione del Capitale vediamo un continuo intrecciarsi dell’esposizione della teoria positiva con la critica degli economisti classici e volgari. L’esposizione marxiana è al contempo esposizione dell’oggetto (della forma di moto del rapporto sociale di pro­duzione) e critica della economia politica. Ma qui il termine critica vale anche nel significato di condizione di possibilità di quel sapere specifico di cui è portatrice l’economia politica. Nell’analisi del feticismo la cosa emer­ge chiaramente: il feticismo dell’economia classica e dell’economia volgare non è da Marx ricondotto soltanto a una deficienza logica e metodologica degli economisti, è compreso invece a partire dalla struttura stessa dell’og­getto di cui essi fanno teoria. Il feticismo dell’economia, la sua incapacità di comprendere la storicità dei rapporti sociali e quindi l’eternizzazione del modo di produzione capitalistico, risiede nel presentarsi in forma di cosa del rapporto sociale stesso: è l’oggetto stesso, il rapporto di valore, il rap­porto di capitale, in sostanza il rapporto sociale di produzione, che assume la forma di cosa. È da questo presentarsi del rapporto sociale in forma oggettuale, che potremmo chiamare il carattere di feticcio della merce, che gli economisti danno vita a quel qui pro quo per cui il rapporto è la cosa e quindi ovunque c’è la cosa vedono il rapporto: quindi laddove c’è prodotto del lavoro c’è merce, laddove vi è mezzo di produzione vi è capitale e via di seguito feticizzando. La teoria marxiana, esponendo il rapporto sociale capitalistico, mostra le forme nelle quali esso si maschera, individuando l’eternizzazione del rapporto come possibilità obiettiva e non mero errore logico e metodologico. O ancora, con le parole di Mazzone:

L’elemento comune all’economia classica e all’economia volgare è — per quest’a­spetto — la naturalità ed eternità dei rapporti borghesi. Formalmente questa discende [...] dal “grossolano afferrare” le forme fenomeniche contrappasso della “mancanza di senso teorico”, etc., in una parola, dalla falsa diairesi, dallo scambio speculativo. Ma questo scambio speculativo è specifico non già «logicamente» o «metodologi­camente» soltanto, ma in quanto modo d’esistenza storico determinato di coscienze perché è “forma di pensiero — socialmente valida, obiettiva — complesso di leggi del mondo borghese2.


Bibliografia
Hegel G.W.F. (2004), Enzyklopàdie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1830); tr. it., Enciclopedia delle scienze filosofiche in compen­dio. Parte prima: La scienza della logica, Torino: Utet.
Mazzone A. (1976), Il feticismo del capitale. Una struttura logico-formale, in AA.VV., Problemi teorici del marxismo, Roma: Editori Riuniti-Quader­ni di critica marxista, 105-164.

Note

1 Hegel (2004, 123).

2 Mazzone (1976, 152).

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