La collina e la pianura. Posizioni egemoniche e pretese imperiali
di Alessandro Visalli
Siamo nei pressi di quegli ispidi passi di montagna nei quali i sentieri si biforcano. Da una parte il largo sentiero battuto dell’Occidente prosegue il suo lungo restringersi. Dall’altra un rivolo si amplia, al contempo facendosi via via più liscio e comodo. Il vecchio sentiero, da qualche tempo si fa per molti più ripido, pietroso, denso di rischi, il nuovo è cresciuto sotto molti profili all’ombra, ma nel tempo si è fatto via via più largo e forte. I due sentieri sembrano divaricarsi.
Ad aprile, in “Considerazioni intermedie su tempi complessi”[1], proponevo di saggiare prudentemente i bordi di quel consolidato e rassicurante schema mentale per il quale siamo solo in una perturbazione, se mai ciclica, del cammino indefettibile e (perché tale) provvidenziale dell’umano universale. Un umano che, alla fine liberato dai vincoli ascrittivi delle tradizioni, e ovunque secolarizzato[2], vedrà in ogni luogo e tempo l’affermazione dei diritti “universali” (con essi della democrazia, forma perfetta della loro espressione). Il cammino indefettibile risulterebbe in questa visione più forte di ogni eccezione temporanea alla finale “occidentalizzazione” del mondo. Chi vede questi tempi confusi sotto questa lente tradizionale non può che vederli come un incomprensibile incidente, un’aberrazione (ed è quel che il buon cittadino cerca di fare, dichiarando sistematicamente come “pazzi” coloro che deviano). Ciò che scuote il buon cittadino è la nascita e il rafforzamento dei Brics[3], la crescita lungo la catena del valore della Cina[4], e, facendo leva sulle modifiche delle basi produttive per effetto dell’introduzione di nuovi ecosistemi tecnologici, dietro di lei di altri[5], i movimenti politici non liberali nei santuari occidentali[6], l’indisponente rifiuto della Russia a riconoscersi sconfitta nella guerra in Ucraina, o dell’Iran a conformarsi all’invito di scegliere meglio i suoi governanti durante lo scontro con Usa e Israele nella “guerra dei 12 giorni”[7].
Stazionando nei bordi di questo rassicurante schema mentale, di questa cosmologia e fede trascendente, sorge il sospetto che le anomalie abbiano un segreto. E che sia semplice: l’egemonia tecnica, economica e politica dell’Occidente non era il segno della designazione divina, come vorrebbero le due principali teocrazie mondiali (i due governi più trascendenti del mondo[8]), quella americana e quella israeliana, ma un fatto meramente e pienamente storico. Come tale provvisorio.
Ma se è provvisorio, diventa possibile chiedersi cosa cresce fuori.
Zhang Weiwei[9], in un articolo di giugno 2025 su Guancha[10], sottolinea un’importante differenza tra ciò che è fuori delle munite colline dell’occidente anglosassone e il ‘giardino’, come si trovò a chiamarlo Joseph Borrell[11]: i popoli controegemonici cinese e russo possiedono secondo questa lettura un’eredità culturale che deriva dalla medesima struttura familiare (qui echeggiando, da avversario, l’analisi di Todd[12]) e di paese. Un caratteristico stile che attribuisce valore al collettivo prima che all’individuo e l’esperienza di una storia nella quale hanno grandemente sofferto (entrambi in occasione delle Guerre Mondiali promosse dall’Occidente). Come sostiene Weiwei, chi ha memoria, e riposa nella certezza della propria identità e forza, non ha bisogno di schiacciare l’altro. Può praticare lo spirito di Bandung: il non allineamento, non confronto e non prendere di mira terze parti.
Ma c’è una differenza, che lo stesso Weiwei sottolinea, la Russia è un attore che cerca attivamente di cambiare l’ordine internazionale unipolare, opponendo forza a forza e che è giunta, dal suo punto di vista per autodifesa[13], fino alla guerra di aggressione per affermare il proprio diritto alla sicurezza. La Cina, invece, è piuttosto un paziente riformatore, che cerca di integrarsi negli scambi internazionali, si sforza pragmaticamente di accumulare benefici bilaterali e di evitare danni. Dunque, la differenza tra le due posture è che quella cinese punta a un nuovo ordine multipolare senza egemoni centrali, equo e cooperativo, mentre gli Usa, provenendo dalla fase unipolare, vogliono ripristinare lo schema mercantilista e il sistema di Yalta.
Viceversa, i principi di non allineamento, non conflitto e non attacco a terze parti, sono l’esatto contrario della postura statunitense che consiste nel cercare sempre chi è il nemico. Postura che individua ora come nemico la Russia e la Cina, ma non disdegna di identificarne in ogni quadrante geostrategico.
Per capire per quale ragione l’Occidente vede autoritarismo dove altri vedono coesione sociale in termini di sistemi-paese, e con particolare riferimento alla Russia, ci si può riferire ad una lettura critica del potente, ma semplificato, schema di Todd[14]. Come ricorda l’autore francese dal 2000 l’Occidente collettivo ha iniziato un processo di mobilitazione, percependo la Russia come avversario strategico e nemico esistenziale in particolare dalle sinistre (in Usa, Francia, Gran Bretagna e altrove). Ad esempio, nel 2016 la postura verso il mondo Russo fu oggetto di scontri isterici nella campagna presidenziale americana. Riemerse la russofobia che ha radici storiche e, secondo la lettura di Todd, antropologiche. I valori comunitari che caratterizzano il popolo russo sono sempre percepiti nell’Occidente liberale, e quindi tanto più quanto più è liberale (da sinistra verso destra), come autoritarismo o “totalitarismo”[15].
Ma la radice di tale “verticalismo elettorale” non è da rintracciare nel controllo dei media, o in altri fattori patologici o leaderistici, quanto nell’essere una ‘democrazia-ceppo’. Ovvero, nell’organizzazione sociale che nel sistema caratterizzato dalla famiglia comunitaria esogama[16] (Russia, Serbia, Albania, Cina, Vietnam, Italia centrale, Finlandia) è organizzato tradizionalmente per grandi famiglie patriarcali e comunità di villaggio, in Russia sotto l’autorità del mir. La differenza che rende incomprensibile questa visione per la mente “occidentale” (in realtà per la mente anglosassone) è determinata dalla distanza con le tradizioni familiari nucleari e bilaterali (nell’Est quelle della Polonia e di parte dell’Ucraina). O, come dice Todd, con le “famiglie stipide”[17] (Scozia, Irlanda, Norvegia, Svezia, Germania, Austria, Svizzera), nelle quali la trasmissione ereditaria avviene verso il primogenito, con conseguente dottrina della predestinazione e della disuguaglianza, da una parte, e con le famiglie “nucleari”[18] anglosassoni, poi estremizzate in America e tradotte in quello che Todd chiama la “democrazia razziale”[19]. Una democrazia nella quale il razzismo non è imperfezione, ma caratteristica strutturale. Nel senso che il gruppo, altrimenti minacciato costantemente di frammentazione identitaria e individuale, forma la propria coesione per differenza con gli “Altri” (nativi prima, neri dopo, varie minoranze in mezzo, e oggi chi non appare allineato); ovvero nel sentirsi superiore perché predestinato. L’affermazione di sé, come gruppo, avviene tramite il rigetto dell’altro, precisamente, scrive Todd, “di tutti gli altri”.
Per le stesse ragioni l’Occidente, fino a che tra le sue molte anime prevarrà quella anglosassone, nella versione estrema americana, non riesce a comprendere e accettare la differenza di sistemi comunitari ed egualitari, e spesso patrilineari ed autoritari, come quello cinese (e, per certi versi, anche arabo). Il punto è che si tratta di visioni del mondo, radicate in un orientamento antropologico di base, opposte che portano a visioni geopolitiche inconciliabili. E porta alla caratteristica postura “trascendente” della politica statunitense.
Come riassume lo stesso Todd, ormai ben otto anni fa:
“a livello internazionale, l’egualitarismo cinese porta ad una visione vicina a quella della Russia, quella di un mondo multipolare costituito da nazioni equivalenti. La Cina si presenta quindi come un attore ragionevole e affidabile sulla scena internazionale”[20].
Senza condividere l’approccio weberiano ed hegeliano dell’autore, e quindi la sua drastica svalutazione del dinamismo cinese (che nel 2017 prevede sull’orlo della stagnazione[21], contraddetto fragorosamente nei successivi otto anni[22]), questa semplificata visione monocausale (che riconduce tutto, religione inclusa, all’unica radice delle strutture familiari e in esse delle dinamiche padre/figli e uomo/donna), contribuisce a spiegare la reciproca incomprensione. Chiaramente il modello di Todd[23], che valorizza le culture “del testo”[24], incontra obiezioni e confutazioni significative nella sua rigidità; ad esempio quando il nesso weberiano tra protestantesimo, individuo autonomo, coscienza razionale e critica, e spinta conseguente verso l’istruzione di massa e l’alfabetizzazione, si scontra con il fatto della storica superiore alfabetizzazione e istruzione di massa del mondo arabo, già dal IX secolo, e del mondo cinese dalla dinastia Song (960-1279) in poi. L’Islam e il confucianesimo sono entrambe culture “del testo”, ma non diventano per diverse ragioni incubatori né della democrazia liberale né della modernità all’occidentale. Insomma, il pensiero di Todd rischia di restare impigliano nell’eurocentrismo. Ovvero di leggere la storia umana come una parabola verso la modernità occidentale, e di valutare altre civiltà in base alla loro conformità o distanza da questo modello. Viceversa, come mostrano storici come Kenneth Pomeranz[25] o Jack Goody[26], la storia globale è segnata da molteplici vie alla modernità, e l’Europa non deteneva su queste alcuna superiorità predeterminata. Per richiamare la sintesi di Goody, l’idea che l’Europa abbia acquisito un vantaggio precoce (nel “miracolo greco”, ad esempio), poi perso nel medioevo, e recuperato per via di una superiorità militare dall’anno mille (tesi di Landers[27]), o per effetto del cristianesimo (tesi di Dumont[28]) o all’individualismo germanico originario (tesi di Macfarlane[29]), o, ancora, dell’innovazione tecnica derivante da una superiore creatività (tesi di Brenner[30]), o, per effetto dell’espansione coloniale (tesi di Wallerstein[31]), ma anche dell’illuminismo (Habermas[32] e Giddens[33]), o, come sintesi di molte di queste linee alla “rivoluzione industriale”.
La differenza che si manifesta, come si vede da lungo tempo, tra le culture “comunitarie” e quelle dominate dall’individualismo ed improntate alla “democrazia razziale” occidentale, contiene la fine della legittimità della pretesa, nutrita da cinque secoli, di incarnare e guidare la modernizzazione e le sue costanti transizioni. Modernizzazione che è al contempo sinonimo di sviluppo scientifico e tecnologico, di liberazione dalle tradizioni e dall’influenza di spiriti e religioni, di creazione del “sociale” come espressione collettiva del “civile” e quindi del concetto di “cittadino” e di “individuo”.
Concetti, tutti, che fanno rete nella nostra mente e gli consentono anche di assumere quella tipica postura “critica” che è il lascito dell’età delle rivoluzioni (tra le quali anche quelle non “occidentali”, anzi, in effetti, soprattutto queste: quella di Haiti, che è la prima, le rivoluzioni anticoloniali sud americane, la Messicana e quella Cinese che partono negli anni Dieci del Novecento, quella Russa, che non è pienamente tale, i tanti movimenti di liberazione anti-coloniale, quella cubana, e via dicendo). Postura critica che, vista dall’Occidente, si definisce tramite un catalogo come soggetto, individuo, cittadinanza, diritti umani, società civile, sfera pubblica, sovranità popolare, stato, democrazia, giustizia sociale. Mentre, da quello della gran parte del mondo, il catalogo è, piuttosto rappresentato dalle parole, comune, autonomia, libertà sociale e collettiva, indipendenza, sovranità nazionale, stato, giustizia. Quindi, da una parte sono valorizzati individuo, diritti, cittadinanza, dall’altro, comunità, autonomia, giustizia collettiva. Reti di concetti ai quali non possiamo e dobbiamo rinunciare e che non dobbiamo reciprocamente svalutare, ma che dobbiamo vedere nella loro provenienza etnografica e storica, ma anche nella loro funzione (talvolta) di schermo e giustificazione. Spesso nella loro disponibilità a farsi tradire, proprio nel momento in cui sono pretesi come universali senza alcun bisogno di traduzione.
Quando immaginiamo il primo catalogo come universale, posto come destino. Allora prevale la “città sulla collina”[34] americana, poi divenuta eccezionalismo missionario, giustificazione dell’interventismo, universalismo militarizzato; causa che è sempre “just, moral, right”[35], e trasforma l’iniziale impulso di colonialismo religioso (implicitamente razzista) in impulso laico che vede un “altro” da liberare, istruire, civilizzare, se necessario con la forza. Ciò in quanto, “The survival of liberty in our land increasingly depends on the success of liberty in other lands… The call of freedom comes to every mind and every soul.” (discorso di insediamento di George W. Bush nel 2005).
Questa vocazione ad un tempo universalista, trascendente nel senso già detto, e differenziale per effetto di una predestinazione, conduce gli Stati Uniti[36], e prima la Gran Bretagna imperiale, ma anche un paese per certi versi simile quanto a ispirazione[37] come Israele, a definire alleanze, dottrine strategiche, obiettivi ed ambizioni in una prospettiva che vede il mondo intero e l’eternità come unica destinazione.
Nel momento in cui questo caratteristica spinta universalista e provvidenziale è stata trattenuta da limiti di potenza, durante l’ascesa nel XIX secolo, o il confronto con altri progetti imperiali e trascendenze (delle potenze europee, dei fascismi e del comunismo, per dire i principali) nella prima metà del XX gli Stati Uniti sono stati limitati; come lo sono stati dal blocco sovietico (una trascendenza intramondana particolarmente forte, ma meno espansiva nella pratica, anche per limiti interni di capacità) durante la Guerra Fredda. Al termine di questa, nel 1991 e seguenti, si è avuta una rapida espansione non frenata e una fase di ubriacatura unipolare, durante la quale l’’eccezionalismo’ è stato rilanciato ideologicamente e praticamente. Ma questo ha portato ad una sovraestensione e alla crescita di nuovi e vecchi concorrenti egemonici.
Si rende ormai necessaria una “ritirata imperiale” che restringa le catene logistiche bisognose di protezione e riduca drasticamente i costi di protezione sostenuti in proprio (convertendoli in ampliamento della spesa militare dei satelliti), rinegozi il multilateralismo, e quindi i margini di autonomia degli attori principali, si garantista gli spazi effettivi di autonomia strategica che poggiano sulla industrializzazione e l’equilibrio delle partite commerciali e finanziarie. Chiaramente, e qui viene la difficoltà forse insormontabile, questo programma di rivolgimento presume da una parte conservare il consenso delle masse (ovvero la formazione di un “blocco sociale populista” di riferimento), dall’altra la messa sotto controllo da parte dello Stato delle forze animali del capitale mobile (facendo leva su quelle delle diverse forme di capitale fisso), dunque l’affermazione della “logica territorialista” (Arrighi[38]) alla scala opportuna. Questa “ritirata” strategica è resa indispensabile da cinque fattori:
- L’attuale amministrazione americana è espressione, ed ultimo risultato, dell’esaurimento per estenuazione, soprattutto sociale, e dopo numerosi tentativi falliti di recupero, del modello di ‘accumulazione per spoliazione’ del liberismo. Tale modello fallisce soprattutto per l’aumento della concorrenza internazionale (come avvenne nel ciclo di fine Ottocento e inizio Novecento descritto da Karl Polanyi[39]che pose termine all’egemonia inglese).
- E’ quindi espressione del tentativo di trovare una nuova formula politicadi gestione della situazione.
- Parte necessaria di questo tentativo è il superamento con assorbimento-incorporazione e quindi funzionalizzazione delle spinte popolari. Il populismo deve diventare forma di governo e rientrare. Al contrario del tentativo di Obama, questo avviene sul piano del “nazionalismo imperiale” (un poco come fece Benjamin Disraeli[40]).
- La ricerca di un “prelievo imperiale”[41], intorno al quale ritrovare l’equilibrio interno necessario per vincere (pacificamente si spera) la sfida storico-epocale con la Cina, deve perciò passare per l’estrazione dalle province (principalmente l’Europa, come peraltro tentava di fare Biden), e la creazione di una nuova coalizione di potere, con referenti sociali precisi.
- Quindi per la ricerca di una soluzione storica che abbia la forza di riattivare un ciclo di egemonia che rivoluzioni-conservando per stabilizzare l’impero e la nazione insieme (questa è la novità direi), sopendo e reprimendo e creando nuova gerarchia.
Dal lato americano questo progetto, abbozzato ma necessario, prevede un’aspra riorganizzazione del mondo su base bi o tripolare, e quindi una nuova divisione dei compiti e delle gerarchie che ne consegue. Perderanno, o almeno questa è l’idea, i centri industriali e finanziari semi-rivali (la Germania, l’Italia, il Giappone, la Francia probabilmente l’Inghilterra) se non accettano di stare al loro posto di fortini di confine.
In questa struttura d’ordine, potrebbe esserci uno spostamento relativo di ricchezza dall’economia dell’intrattenimento e immateriale, privilegiata nella fase finanziaria, a quella produttiva. Non è necessariamente una buona notizia nelle condizioni della tecnologia contemporanea e perché servono competenze diverse. Ma potrebbe essere necessario in un mondo nel quale la Cina laurea molti più ingegneri (e migliori) di tutto l’Occidente messo insieme, ed in India il doppio (che è dieci volte il numero USA) e nel quale l’Iran ne laurea come gli USA, la Russia il doppio (e per lo più donne).
Dunque, dal lato occidentale il “Nazionalismo imperiale” potrebbe essere la nuova forma ideologica adatta a questa configurazione (che richiederà anni per affermarsi) che, nella versione Usa, potrebbe essere vestita di universalismo predatorio esattamente come il progressismo liberal, ma sotto vesti di diverso colore (che all’inizio confonderanno). D’altra parte, se si tratta di ridefinire, ed al contempo consolidare, il “perimetro di protezione”[42], la questione centrale resta definire una “propria area”. E qui, in un mondo multipolare conterà anche lo stile di egemonia, ovvero la capacità di esprimere quel che Nye chiama “soft power”[43].
Una risorsa che la mossa della Presidenza americana, nella sua franca brutalità, mette a rischio nel medio termine. Abbiamo, infatti, avuto come prime mosse della nuova amministrazione Trump, minacce agli alleati danesi per il dominio di aree geografiche decisive per la competizione nel Grande Nord (Artico), al Canada, a Panama; una brutale serie di semi-ultimatum all’Europa sulla spesa militare, sul sostegno alla guerra ucraina (che cerca di terminare), una sconvolgente guerra dei dazi verso tutti, seguita da una trattativa uno-ad-uno che ha visto uno scontro con numeri a tre cifre con la Cina e un compromesso che è apparso a tutti da posizione di debolezza relativa. Per effetto di tali mosse, un significativo indebolimento del dollaro, che aiuta su due piani l’amministrazione, favorendo le esportazioni e inibendo le importazioni e riducendo in valore reale il debito, ma rischia di provocare la fuga dai Titoli del Tesoro, con conseguente innalzamento del servizio del debito. Inoltre, rischia di alimentare l’inflazione (per ora non vista) e, insieme alla nuova legge finanziaria BBB[44], appena approvata, può spostare i rapporti di forza economici ancora più verso le élite, rendendo difficile l’equilibrio politico[45] che ha portato al potere Trump.
Il contesto generale è dato da un deficit insostenibile e crescente, ormai pari al 120% sul Pil ed in peggioramento[46], perdita di credibilità internazionale, di influenza geopolitica, crescenti difficoltà di finanziare le spese “imperiali” (soldati all’estero[47], armi per gli amici[48], gestione di scontri frizionali[49], erogazioni compensative verso ‘clientes’ contesi dalla controparte), e una competizione ideologica in termini di progetti-mondo che si sta riaccendendo per effetto della sfida sistemica dei Brics, che propongono un modello alternativo di ordine mondiale che sia multipolare, non preveda egemonie fisse e rigide, enfatizzi la sovranità, la non-ingerenza, lo sviluppo e il rispetto culturale e politico. Un confronto, questo ultimo, che vede da una parte la logica dell’universalismo liberale (mercati ‘aperti’, primato americano in quanto parte del destino manifesto) e dall’altro il pluralismo culturale (modello di sviluppo e politici differenti, nuove centralità regionali).
La perdita di credibilità internazionale, un asset cruciale, potrebbe essere accelerata anche dallo svolgimento e dagli esiti della “Guerra dei 12 giorni” con l’Iran. Infatti, un effetto della guerra è, contro alcune apparenze dovute alla copertura mediatica orientata e propagandistica in Occidente, la dimostrazione di vulnerabilità di Israele ad attacchi con mezzi moderni (missili ipersonici che per lo più non sono stati intercettati) o massivi. Inoltre, la conferma di alcune alleanze iraniane (Pakistan e Yemen), l'influenza sotto traccia della Cina e della stessa Russia, che hanno esibito incontri bilaterali subito prima dello show Usa (bombardamento annunciato dei siti nucleari e risposta iraniana sulle basi americane, anch’essa annunciata, entrambe senza vittime) e seguente cessate il fuoco. Ciò viene confermato dalla rapidità con cui Cina e Russia hanno chiesto il cessate il fuoco (appena dopo il blitz americano) che non può essere interpretato in altro modo che come una dimostrazione coordinata di forza negoziale (ed accordo preventivo): le controparti hanno lasciato che la guerra rivelasse i limiti di Israele, per poi spingere su tavoli multipolari e chiudere l’accordo con gli Usa (probabilmente imponendolo ad un riluttante Netanyahu, che rischia libertà e carriera politica[50]).
In altre parole, questo scontro ad alto contenuto simbolico e danni tutto sommato limitati, con intensità medio-alta ma controllata da entrambe le parti (colpi mirati e repliche calibrate), è in effetti da vedere come uno dei luoghi di insorgenza del nuovo Ordine Multipolare. Il messaggio che resta è che l'Occidente può essere fermato, o limitato, e la risposta dei contro-egemoni, se coordinata e sostenuta a strati, può essere efficace. Potrebbe essere letto tra qualche tempo, insieme all’esito che si avvicina della crisi ucraina, nella quale la Russia insiste a voler raggiungere i suoi obiettivi e la risposta occidentale ha sempre meno margini, come una soglia di mutazione dell’ordine internazionale. Ordine nel quale si presentano equilibri di fatto che impediscono esiti come quello siriano (o libico), in favore, se mai, di messe in scena geopolitiche per saggiare determinazione e resistenza nei punti di margine. La posta delle prossime micro-guerre, che saranno numerose e per un tempo non breve, sarà la ridefinizione e l’aggiustamento della percezione e della determinazione in contesto di confronto altamente “ibrido”[51]. Lo stato più piccolo, aggressore ma tecnologicamente avanzato e con l’alleato più forte, è stato mostrato vulnerabile ad attacchi militari asimmetrici, informatici, diplomatici e propagandistici, oltre che minacce al sistema mondiale energetico, l’obiettivo era la coesione interna e la percezione pubblica, la mente prima del territorio. Nel campo simbolico lo stato più grande, ma meno sostenuto direttamente e aggredito, ha lottato sul terreno simbolico, esibendo resilienza, alleanze ibride anche nuove, ed anche implicite, profondità strategica e orgoglio. Sembra essere stato la prova di una strategia di “deterrenza inversa”, che punta a dimostrate che l’Occidente può essere limitato anche senza sconfiggerlo in un troppo costoso (per tutti) scontro militare diretto generalizzato. Una strategia la cui posta sono l’apertura di fratture sistemiche, la creazione di tensioni interne nella struttura politico-sociale della controparte, la rinegoziazione implicita delle sfere di presenza ed influenza.
Il punto è, allargando la prospettiva, che in questo scontro storico per la preminenza globale - visto dalla “collina” occidentale come una lotta per mantenere il primato, e dalla “pianura” come il tentativo di affermare relazioni più paritarie – il vero campo di battaglia non sarà solo quello degli scontri “ibridi” di confine. Sarà decisivo imporre come egemone la propria “piattaforma geo-tecnologica”[52] e quindi ridurre al margine l’altra. Non si tratta qui solo di imporre il proprio ritmo di innovazione, quanto di: orientare gli standard internazionali (tecnici, commerciali e legali); definire una rete di partner che intrecciano le proprie economie e condividono le tecnologie-chiave; estendere le proprie reti finanziarie e infrastrutturali; consolidare flussi di uomini e competenze, ampliando e gestendo le relative “diaspore”; sviluppare il soft power, l’influenza ed il prestigio culturale; controllare l’immaginario e il futuro. Ora, detto in modo altamente schematico, la “piattaforma geo-tecnologica” cinese si impernia su un sistematico e programmatico, ma anche profondamente radicato nella cultura storica, rifiuto della logica amico-nemico, sostituito dalle molteplici vie (Dao) alla comune umanità. Invece, la “piattaforma geo-tecnologica” americana, immagina una gerarchia e l’ineguaglianza in modo che, ordinatamente, ognuno abbia i “suoi” satelliti da gestire (verso i quali regolare a proprio favore le ragioni di scambio) e da “proteggere” (cosa che costa), e tra questi ci siano scambi regolati dai rapporti di forza.
Dunque Trump immaginava di rovesciare il tavolo inclinato del declino relativo americano, facendo un accordo separato con la Russia, confinando la Cina nello scacchiere Indopacifico, al contempo avendo via libera per estendere la propria marcatura geopolitica all’intero continente americano, integrando strettamente in posizione subalterna Canada e Goenlandia, il Canale di Panama (da sottrarre alla proiezione di capitali cinesi), recuperando in Argentina (per ora fatto, grazie a Milei) e Brasile, e quindi nell’intero sub-continente. Ciò comporta il superamento della sfida sistemica dei Brics+ e la formalizzazione di una sorta di Nuova Yalta.
Ma la Cina non appare disponibile. Oltre ad essere una postura storica del “paese di mezzo”, questa impostazione segue anche una lettura pratica e storica: sul piano storico la Cina ha imparato dall’esperienza della spartizione con Yalta dell’Europa in aree di influenza tra l’Urss da una parte e gli Stati Uniti e il Regno Unito dall’altra. Un accordo che aveva definito la quantificazione in percentuale del rispettivo potere in ciascun Paese. Alla fine, questi accordi, nel complesso dello svolgimento del quarantennio della loro vigenza, imposero a Usa e Urss costi elevatissimi per la continua stabilizzazione sul piano militare ed economico dei “satelliti”. Inoltre, costò all’Urss il danno reputazionale della repressione dell’Ungheria nel ’56, e della Cecoslovacchia nel ’68 o, infine, della Polonia nel ’78, fino a che gli Usa decisero di sostenere Solidarnosc e fare crollare il Muro di Berlino. Gli Usa dovettero sostenere l’Europa, favorire la reindustrializzazione tedesca, giapponese e italiana, detenere importanti forze di occupazione fino ad ora, compiere decine di interventi militari in centro e sud-America, in Medio-Oriente, in Asia, favorire regimi fascisti e colpi di stato, etc.
Sul piano pratico la Cina sa che i rapporti con i vicini nell’Indopacifico sono tutt’altro che semplici, storicamente molti di loro si sono sempre sentiti contenuti dalla presenza del gigante economico e demografico asiatico. Per non parlare del rapporto con i due rivali ad Oriente ed Occidente, Giappone e India, che in una prospettiva meramente confinata non sarebbe gestibile. Insomma, restare confinato in una sola regione, ricchissima ma altamente complessa, non è nel suo interesse e ridurrebbe enormemente le prospettive del paese.
Pechino, dunque, non intende abbandonare la sua storica postura per il Sud del mondo e il suo millenario orientamento alla “Comunità umana dal futuro condiviso” (per usare la formula programmatica di Xi). Ovvero alla vocazione a ‘risuonare’ e ‘trasformare’, raggiungere ‘l’unità nella molteplicità’, e ‘l’armonia senza riduzione all’Uno’. Quindi non rinuncia allo schema plurale (e per questo ad un tempo modesto e contraddittorio, caratteristica che guardata da occhi occidentali è una debolezza, da orientali una forza) dei Brics+; ovvero a cooperazioni orizzontali tra diversi e lontani, basate su pragmatici interessi, e rispetto reciproco.
Anche su questo piano, delle rispettive visioni strategiche, si gioca il futuro del mondo.
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