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Il sistema dei prezzi è in delirio. I quaderni di Giovanni Mazzetti

di Leo Essen

mare 1220x600.jpgIl lavoro diventa libero. Ma cosa significa “libero”? Significa che il lavoratore non è più inserito in un sistema di signoria e servitù che gli assegna un posto e gli dice chi è. È un individuo singolare, un lavoratore che ha in sé l’inizio e il termine di ciò che è. Proprio in quanto è insieme origine e fine, egli è libero. Ogni limite è abbattuto, ogni legame è sciolto. Offrirsi come lavoratore non dipende più da alcun vincolo esterno: non dipende dalla famiglia, dal ceto, dal sesso, né da un ordine di casta o di classe.

È, come afferma Hegel (Lineamenti § 5), l’infinità priva di termini dell’assoluta astrazione, della pura universalità. Siamo al Primo Momento, al livello dell’io astratto, certo solo di se stesso: assoluta possibilità di astrarre da ogni determinazione – negatività astratta.

Sono libero: posso fare il lavoro che voglio. Nessuno può dirmi cosa fare — né mio padre, né il mio padrone, né il comandante del terreno o della casa che abito, né il reggente della corporazione a cui appartengo, né le condizioni della mia nascita, né la mia casta o il mio ceto. Non sono legato a nulla, dunque posso tutto.

Io valgo, dice il lavoratore. Ma quanto valgo? Ecco che si passa dall’indeterminatezza indifferenziata della libertà e della sovranità che si auto-determina, alla differenziazione e alla dipendenza dall’altro e all’etero-determinazione.

Quando il lavoratore si offre sul mercato incontra l’altro, allora si media con l’altro. Nella mediazione con l’altro, o con gli altri, il lavoratore vale tanto quanto un carpentiere, un idraulico, un imbianchino, un boscaiolo, un falegname, eccetera. Non è più un lavoratore che trova in se stesso la fonte del proprio valore, ma è un lavoratore in rapporto ad altri lavoratori.

Grazie a questo porre se stesso come un determinato (Lineamenti § 6) il lavoratore entra nella storia, si connette al mondo che produce e si offre come questo lavoratore determinato, con queste e queste altre capacità, si pone come un oggetto d’uso determinato che sta di fronte ad altri oggetti d’uso, si pone nella generalità.

Viene meno la prima negatività astratta del lavoratore, che consiste nella possibilità assoluta di saper astrarre da ogni determinazione in cui si trovi; è la fuga da ogni contenuto e da ogni termine — una libertà negativa, la libertà dell’intelletto, la libertà del vuoto. Essa corrisponde al terrore della Rivoluzione francese, al fanatismo della distruzione di ogni ordinamento esistente, come annientamento di ogni forma di organizzazione.

Soltanto distruggendo qualcosa, afferma Hegel, questa volontà negativa acquista il senso del proprio esserci. Essa si illude di volere una situazione positiva — ad esempio, l’uguaglianza universale o una vita religiosa universale — ma, in realtà, non vuole la positività stessa, poiché ogni realtà concreta comporta immediatamente un certo ordinamento, una qualche particolarizzazione, tanto delle organizzazioni quanto degli individui. E proprio da questo — dall’annientamento della particolarizzazione e della determinazione oggettiva — sorge, per questa libertà negativa, la propria autocoscienza.

Anche questo Secondo Momento della determinazione è negatività (§6), è il togliere la negatività astratta. Il mio lavoro è dello stesso genere di quello del falegname, del medico, dell’ingegnere, del muratore, ecc. Il genere introduce la molteplicità. Nel medio il singolare viene inserito in una struttura differenziale. Nel genere il singolare entra in una relazione antagonistica.

Questi primi due momenti (§7), 1) che il lavoratore possa astrarre da tutti i legami possibili e considerasi come lavoratore senza qualità (lavoro astratto) e 2) che sia anche un lavoratore determinato (lavoro concreto), dunque inserito in una serie, non risponde ancora alla domanda. Valgo – come vale una medico, un ingegnere, un muratore – ma quanto valgo?

Il lavoratore deve togliersi ancora da questo confronto senza una fine, senza un termine, da questo confronto infinito, di un tipo di infinito che non è causa di sé, ma di un infinito che ha la sua causa in altro, che dunque non è un infinito in senso proprio.

Il lavoratore subordina il suo interesse privato alle condizioni esterne. Questo interesse subisce un limite esterno al quale deve sottomettersi – si aliena. Attraverso questa esperienza, la forza personale, la forza di imporre e fare il prezzo per la propria merce, viene intaccata dalla forza degli altri. (alienazione).

Solo attraverso la subordinazione allo scambio, dice Mazzetti, l’interesse diventa sociale. Non bisogna intendere «sociale» in termini sociologici, come un gruppo di persone che insieme, volontariamente o involontariamente, fissano il prezzo. Non c’è nessuna comunità, nessun accordo, nessuna cooperazione nella fissazione del prezzo, ci sono solo le mani d’acciaio dei singoli che scuotono il paniere delle offerte dal quale salta fuori il prezzo esatto. Non c’è nessun organismo. L’interesse cambia, e questo cambiamento avviene attraverso l’estraniazione, il rapporto all’altro. Solo attraverso la subordinazione allo scambio, il lavoro personale e singolare diventa lavoro generico, lavoro scambiabile.

Il prezzo non è mai neutro. Il prezzo è inserito in una catena significante e tendenzialmente instabile. Si fissa quando il prodotto salta fuori dalla catena – Terzo Momento. La quota del salto è imprevedibile.

Il lavoratore libero pone in vendita la sua forza-lavoro, il prezzo che riesce a spuntare dipende dalle altre offerte. Ciò che ora gli preme è realizzare la vendita e incassare il prezzo, chiudere il ciclo, tornare libero e arricchito dall’esperienza.

Nel Secondo Momento i confronti continuano, la possibilità di andare al di là di ogni altro contenuto che si sostituisce nel confronto va via all’infinito (§16), non giunge al di là della finità, poiché ogni altro lavoro cui si paragona è diverso, finito. In cerca dell’infinito ci si trova a cadere sempre in un altro finito.

Valgo come un muratore, come un ingegnere, come un medico, come un falegname, ma io non voglio un medico, un ingegnere, un falegname, voglio ciò che essi valgono in quanto lavoro in generale, e non ciò che essi sono in quanto lavoro concreto. Non voglio portarmi a casa ciò che essi sono in quanto lavoro concreto, ma ciò che essi valgono in quanto lavoro astratto.

Cos’è questo potere che ora il lavoratore vuole e che terrà in tasca?

Intanto è l’identità con sé del lavoratore – identità astratta: voglio ciò che valgo. È il momento dell’essere immediato. Poi è il momento del confronto sul mercato del lavoro – è uscire fuori e alienarsi, fare esperienza del mondo, e subire la scissione, la differenza concreta. L’unità di partenza si rompe, non valgo ciò che valgo, ma anche di più o di meno.

Mi crogiolo nella mia libertà, e computo le mie possibilità. Posso diventare questo e quest’altro, posso diventare tutto ciò che voglio. Non c’è limite alle mie possibilità. Ma cosa posso veramente? Sono niente, non valgo niente. Ho valore solo per me stesso. Questo valore non è riconosciuto, misurato e scambiabile con altri. Finché non mi metto in discussione e offro la mia prestazione non valgono niente. Sono ancora io, ma adesso, nella differenza con l’altro, valgo anche questo e questo. Mi definisco attraverso il confronto, ma sono esposto al gioco infinito delle possibilità, al desiderio non concluso. Rimango sospeso. Mi confronto, mi misuro, mi differenzio. Ma ogni valore è relativo, non c’è una misura oggettiva, il valore resta fluttuante, condizionato, instabile. Sono un muratore, valgono in relazione ad altri, il mio valore è riconosciuto, ma non è convertibile, è fissato ai lavori concreti con i quali si misura, e non se ne stacca, ogni passo al di là è un incatenarsi alla alla serie di determinazioni dalle quali ci si vuole sollevare, senza riconquista di quell’astrazione iniziale che ora, di fronte a tutti i lavori concreti, potrebbe dire concretamente, ecco, questo è il valore generale (astratto) che ora concretamente valgo. E il cerchio si chiuderebbe. Trovando alla fine quello che si aveva all’inizio. Solo che questa fine è concreta, un’astrazione concreta, che porto in tasca: io valgo questa somma di denaro, io = 100€.

Questi 100€ non se ne stanno fermi in tasca. Il valore non torna come idea, ma come un’idea appiccata alla materia come prezzo.

 

II

Il prezzo oscilla, e poi si fissa. Mentre il valore oscilla sempre, oscilla prima che il prezzo sia fissato e anche dopo. Oscilla sempre.

Anche quando abbiamo incassato, e i 100€ sono al sicuro in tasca, essi continuano a muoversi come un pendolo, aumentando e diminuendo il loro valore.

Il prezzo si forma nonostante le continue oscillazioni. Esso si livella al valore reale attraverso le sue oscillazioni costanti, dice Marx. Mai attraverso un’equazione col valore reale come terzo elemento, bensì attraverso una continua differenziazione, e si fissa in prossimità del livello dei costi di produzione del produttore più efficiente. Ma ciò non avviene necessariamente. Perciò, dice Marx (Capitale I, 1), il sistema dei prezzi include la possibilità, ma anche solo la possibilità, delle crisi. Il ciclo può non chiudersi affatto, e il prezzo rimanere nel suo momento di identità astratta, ricacciato dal mondo, senza valore.

Il prezzo non è neutro, dice Mazzetti. Non è mai ciò che emerge spontaneamente dal mercato. Ma non è nemmeno il frutto esclusivo – dispotico – delle forze che ne determinano la variazione. Se così fosse, il prezzo sarebbe imposto unilateralmente. Ma un prezzo unilaterale non è un prezzo, è un ricadere al primo momento.

E tuttavia, chiarisce Mazzetti, il fatto che questa volontà subisce ancora alcune limitazioni, che quindi la fissazione del prezzo non possa assumere un carattere dispotico, non cancella affatto le spinte che portano chi offre una marce a una alterazione del suo prezzo.

Il potere di fare il prezzo è un potere che si conquista e si esercita storicamente. Per esempio, dice Mazzetti (Quaderni 4,21 – 1983), fino all’avvento delle politiche keynesiane, i lavoratori non potevano, nonostante fossero già riuniti in sindacati, battersi con efficacia in favore del proprio salario, e solo nell’ultimo ventennio (1960‐1980) un potere del genere ha cominciato a consolidarsi.

Nelle fasi del capitalismo concorrenziale chi aveva la forza di fare i prezzi era chi registrava aumenti di redditività. Facendo leva sui consumatori riusciva a imporre un prezzo più basso. Chi, invece, aveva interessi contrapposti organizzava un contro-potere.

La storia dei prezzi sino alla fine degli anni 60 ha segnato un andamento di rialzo durante le fasi di espansione e di ribasso durante le fasi di contrazione.

Negli anni 70 si assiste a una novità. I prezzi aumentano, nonostante la contrazione. Se questa è la situazione che viene a determinarsi, e se per mercato si considera quel processo che governa i prezzi riducendoli durante una fase di depressione e alzandoli durante una fase di espansione, bisogna allora concludere, dice Mazzetti, che il mercato è finito, è morto. Defunto – nel senso della libera concorrenza. Con questa importante precisazione.

Se il prezzo fosse determinabile in modo assoluto, come tutti gli economisti credono si possa fare – marxisti e non marxisti, cioè tutti quelli che si sono sforzati di trovare una coerenza del sistema, una coerenza matematica, una coerenza di equilibrio, i presupposti di un sistema di equilibrio, e se non di equilibrio, perlomeno di calcolo; se il prezzo fosse determinabile in modo assoluto, non ci sarebbe bisogno di alcuna forza. Il prezzo sarebbe necessario, universale, perfetto – causa sui. A rigore non ci sarebbe prezzo, e non ci sarebbe inflazione e deflazione. Non ci sarebbe il mercato, gli scambi sarebbero perfetti, cioè automatici, non ci sarebbe scarsità o eccedenza, non ci sarebbero ingiustizie, eccetera – non ci sarebbe crisi. Non ci sarebbe denaro, visto e considerato che il denaro interviene nel secondo momento, quando il lavoratore esce allo scoperto e si misura con le altre forze. In un regime in cui il prezzo fosse determinabile in modo assoluto, le forze sarebbero sterilizzate, le differenze annullate o naturalizzate. Il mondo si risolverebbe nell’immediatezza dell’identità astratta, o perirebbe sotto i colpi di una ghigliottina giacobina. E non è insolito trovare tra la sedizione bigotti giacobini – anticapitalisti, antiplutocratici – che vogliono la salvezza del mondo e la decapitazione di tutti gli individui.

Se c’è qualche forzatura, se c’è qualcuno che cerca di fare il prezzo, dice Mazzetti, è perché esiste ancora un regime di scambio e di mercato. Il tentativo di singoli soggetti di sottrarsi al potere del mercato, dice, ha senso solo fintanto che il potere del mercato per gli altri continua a sussistere intatto. Solo in questo caso, infatti, il potere di fare il prezzo diventa effettivamente un potere sugli altri e sulla vita sociale. Se il potere fosse un’attività che non sperimenta una passività, non ci sarebbe prezzo. Per questo Marx dice che il prezzo di mercato non si livella mai attraverso un’equazione col valore reale come terzo elemento, bensì attraverso una continua differenziazione (Hegel direbbe: non mediante un’identità astratta, ma mediante una costante negazione della negazione, ossia di se stesso come negazione del valore reale).

Si tratta di una precisazione molto importante. Se chi forza il mercato riuscisse a fissare un prezzo stabile, questo sarebbe il prezzo definitivo e segnerebbe la fine del sistema dei prezzi. Là dove il prezzo fosse determinabile matematicamente, come pretendono tutte le teorie dell’equilibrio, non ci sarebbero più agenti nel sistema dei prezzi, e il sistema camminerebbe con le proprie gambe, e, a rigore, non camminerebbe affatto.

Avere un sistema in cui il prezzo fosse sterilizzato dalle forze e si imponesse per necessità meccanica era il sogno di Hayek. Ma era anche il sogno di Schumpeter, che vedeva nella concentrazione, dunque nella fine della concorrenza, l’inizio di una economia pianificata di tipo socialista.

Il sogno di tutti gli estensori di un sistema di equilibrio, nessuno escluso, è quello di sterilizzare le forze di mercato e avere un sistema dei prezzi neutro, oppure conservare le forze di mercato, a patto che si esprimano in modo calcolabile, si esprimano cioè come delle non-forze.

La cosa importante di questa nota di Mazzetti è questa. La forzatura ha effetto solo e soltanto se il sistema dei prezzi è operativo.

Si cerca di imporre un prezzo solo e soltanto finché il sistema dei prezzi funziona. E se il sistema funzione è possibile che chi subisce il prezzo si attrezzi e appronti contromisure, come fanno i lavoratori con i sindacati. Una volta che la forzatura sui prezzi è stata avviata da alcuni (inflazione), dice Mazzetti, tutti gli altri cercano un loro modo per fare il prezzo.

A scanso di equivoci, bisogna chiarire che, nel modello neoclassico, il mercato è rappresentato da forze. La concorrenza non è altro che l’espressione di forze attive e positive contrapposte. Il sistema dei prezzi, già in Smith, e poi in modo definitivo nella scuola austriaca, ha un’impronta empirista.

L’inflazione e la deflazione – dunque le forze – dice Mazzetti, hanno una storia. I rapporti di forza mutano, non sono fissi. Osservando l’andamento storico dell’inflazione e della deflazione si disegna un diagramma dei rapporti di forza e dei rapporti di produzione.

Un regime di inflazione ci dà un sistema istituzionale della proprietà privata e del mercato. L’inflazione attacca la proprietà privata e la trasforma, corrisponde a un movimento del potere d’acquisto. Questo potere viene spostato da un punto a un altro, da una mano a un’altra. L’inflazione non è natura, se per natura si intende l’immobile, il sempre identico a se stesso, l’immutabile. Chi chiede di sterilizzarla, chiede un mercato che funzioni in modo neutro, chiede un movimento senza spinte, senza interesse, senza pulsioni e senza tutte le complicazioni nella quali le pulsioni si involvono.

L’odierna inflazione, dice Mazzetti, perché c’è una storia dell’inflazione, anzi, se c’è storia e qualcosa si muove è perché c’è inflazione; l’odierna inflazione è un passo avanti positivo rispetto all’inflazione ottocentesca, di un regime di proprietà molto aggressivo. Questo cambiamento nell’inflazione, dice, testimonia che la produzione ha subito un significativo processo di socializzazione al di là della concorrenza preesistente.

Nel periodo che precede il Welfare state i prezzi oscillavano in continuazione, aumentando e diminuendo. L’aumento dei prezzi, dice Mazzetti, si verificava ogni volta che l’attività produttiva era stimolata dall’esistenza di adeguati mercati di sbocco e l’economia era spinta a funzionare ai limiti massimi delle proprie possibilità. Una caduta dei prezzi si verificava, invece, quando l’emergere di ostacoli sul piano dello sbocco delle merci costringeva ad adeguare la produzione alle possibilità di vendita.

L’inflazione e la deflazione sono sintomi rilevabili del regime di proprietà privata. Siccome nell’Ottocento la proprietà privata era divisa tra una pluralità vasta di produttori indipendenti, la lotta per la conquista di fette di mercato era durissima. Le quantità prodotte da ciascuno solo a posteriori trovavano una conferma del loro potere di essere vendute. L’inflazione e la deflazione, dice Mazzetti, non erano altro che processi inconsapevoli attraverso i quali la collettività regolava il livello dell’attività produttiva corrente con i prodotti dell’attività svolta in passato e con quella da svolgere in futuro.

Cosa sono questi processi inconsapevoli? C’è un Grande Altro – il mercato, la mano invisibile – che decide del prezzo?

Posti nella catena delle negazioni determinate e nell’impossibilità di definire un limite che corrisponda alle giuste quantità da produrre a un prezzo remunerativo per tutti gli agenti del mercato, i produttori si rimettono nelle mani di questo Grande Altro?

C’è un inconscio economico?

L’economia ottocentesca, la quale si avvicina di più al modello neoclassico, è regolata da un Grande Altro?

È un inconscio economico che decide della giusta quantità e del giusto prezzo?

La deflazione, dice Mazzetti, era necessaria ogni volta che occorreva smaltire un eccesso di merci rispetto alla domanda.

Siccome l’offerta e la domanda non possono parlare tra di loro, perché non hanno un linguaggio comune – il prezzo – in quanto esso si forma a cose fatte, a scambi conclusi, questo linguaggio deve fornirglielo qualcun altro.

In un periodo di prezzi in ascesa, l’apertura di nuovi mercati e la possibilità di nuovi guadagni spingono la produzione al massimo delle proprie possibilità. Una caduta dei prezzi, al contrario, si verifica quando l’emergere di ostacoli allo sbocco costringe ad adeguare la produzione alle possibilità di vendita.

Deflazioni e inflazioni repentine registrano quella che venne chiamata anarchia del mercato.

La caduta dei prezzi, dice Mazzetti, è un ostacolo posto dall’attività passata sull’attività presente. Siccome si sono prodotte troppe merci rispetto alla domanda, si deve aspettare il tempo che queste defluiscano, che trovino un’allocazione a un prezzo inferiore, che vengano distrutte. Ciò ha comportato nella storia la fame per anni, l’indigenza per milioni di persone. È il caso della Nigeria negli anni Ottanta. Una deflazione del prezzo del petrolio provocò la fuga di 3 milioni di persone.

La deflazione è una diminuzione del prezzo di vendita, rispetto al prezzo d’acquisto. Di fronte a questa possibilità qualsiasi imprenditore bloccherebbe la produzione.

La deflazione – come nel caso della Nigeria – lascia sul campo le sue vittime.

 

III

Il capitalista non controlla il prezzo, non ha il potere di vendere nemmeno al valore di produzione. La cedola oraria di Proudhon è la proposta di appropriarsi di questo potere, di far convergere il prezzo verso il valore. Ma non c’è proprietà del prezzo. Non c’è corrispondenza tra valore e prezzo, gli obietta Marx. Tra prezzo e valore c’è una sfasatura, e questa sfasatura si consuma nel Secondo Momento.

Nel Primo Momento si pone il valore, e nel secondo il valore viene alterato, nel Terzo emerge il prezzo.

In un capitalismo in espansione, con una pluralità di imprese, come era tipico dell’Ottocento, nessuna impresa, dice Mazzetti (Quaderno 9,2021), può incidere significativamente sul prezzo delle merci che cerca di vendere. Il prezzo del suo prodotto, corrispondente al potere che gli deriverà dal suo contributo produttivo, non lo decide lui. Il potere che egli acquisisce non è suo, corrisponde al fatto di avere prodotto ciò di cui altri hanno bisogno. La sua offerta deve ricevere la convalida della domanda. Questa convalida altera il valore. Nel Medio l’identità a sé del valore, la tautologia dell’identità tra costi di produzione e valore, si altera.

Sin dalla Miseria della filosofia è evidente il problema della trasformazione. Nel primo libro del Capitale, dove il rimando a Miseria è esplicito, il tema della trasformazione è esposto più volte e non risolto. Non c’è soluzione matematica al problema della trasformazione. Cambiare il sistema di calcolo complica la questione, senza risolverla.

Perché allora Marx tiene l’identità tra costi di produzione e valore?

Perché, nel Primo Momento, questa identità è posta. Il produttore non può chiedere meno dei costi di produzione sostenuti. Anzi, dalla vendita egli si aspetta anche un guadagno.

Nonostante questa identità, la conferma in quanto produttore, dunque la conferma di questa identità, vieni dagli altri, si misura nel Secondo Momento, e si realizza nel Terzo.

Nel Terzo Momento non ritorna il Primo, arricchito dell’esperienza maturata nel Secondo Momento. Il ritorno, dice Marx (Capitale), non è assicurato, non è certo.

Il valore subisce un’alterazione, una deriva, un crollo, una disseminazione, un contagio… una degenerazione, direbbe Hume. Il suo andare a zonzo è esperienza, ma esperienza che implica anche il non-ritorno.

Il produttore deve aver prodotto un oggetto d’uso che susciti l’attenzione di altri. Ma anche ciò non basta. Non è sufficiente realizzare un buon prodotto appetibile. Bisogna farlo a costi socialmente necessari. Anche qui «sociale» non indica l’accordo preventivo con altri produttori, significa che nel Secondo Momento – il momento della differenza – ogni singolo prodotto è scosso dalle forze che insieme, ma separatamente, si dividono il mercato – né individuale né collettivo, ma intersoggettivo. Esso implica uno sviluppo in serie. La lotta è il rintuzzarsi degli uni con gli altri.

Il valore è instabile – Marx parla di oscillazioni continue, di negazioni determinate, in serie.

Ciò che pone fine alle oscillazioni è l’urgenza della vendita e l’urgenza dell’acquisto, eventi incalcolabili, appunto perché sono eventi. Non c’è calcolo che possa contare, in maniera assoluta, dunque necessaria, questi eventi, e non può farlo perché il calcolo è sempre e sempre ripreso in ciò che deve calcolare, in un circolo senza inizio né fine.

E questo dovrebbe bastare per Böhm-Bawerk, per Sraffa e per tutti i loro seguaci.

Sulla differenza che agisce nel Secondo Momento sono d’accordo anche gli economisti conservatori. Che il prezzo si fermi per magia, ovvero per l’intervento della mano invisibile, sono d’accordo anche i neoclassici.

Qual è la differenza con Marx?

Marx tiene fermo il punto dell’identità astratta espresso nel Primo Momento. Senza questa identità, che i neoclassici inseriscono nei loro calcoli inconsapevolmente (Hegel e la critica all’empirismo), il sistema sarebbe un sistema di completa indeterminazione.

È noto che per fissare il prezzo finale nel modello neoclassico si opera come se si conoscesse sin dall’inizio il prezzo che si trova alla fine. Si suppone ciò che deve essere dimostrato. E non può essere altrimenti (Quaderni 9,2021).

In Marx questa assunzione iniziale è posta esplicitamente. Il valore è identico al lavoro speso. Questa identità è astratta. È un’identità dell’intelletto, matematica. Il valore deve mostrarsi, fare esperienza, perdersi nel mondo, alienarsi, farsi conoscere. L’esperienza è il momento empirico, mondano, materiale. È dove tutto è messo in discussione, dove non ci sono certezze. Tutto si muove, e quelle che sembrano cause sono circostanze accidentali. La deriva è sempre possibile. Qui il possibile non è potenza che si attualizza. Non è seme che diventa segno. Non è numero che si somma e si moltiplica. Il possibile è l’incalcolabile, il non derivato, il non causato.

Qui si misura la distanza massima tra Marx e Hegel. Per Hegel alla fine si ritrova quello che era stato posto all’inizio nell’investimento – il seme diventa segno e trasporta integro il valore dall’inizio alla fine. In Marx, invece, il ciclo può non chiudersi. La possibilità (ma solo la possibilità) che il ciclo rimanga aperto è sempre all’ordine del giorno. Qui si misura anche l’errore di Heidegger nella lettura di Marx (Lettura sull’umanismo). Ponendo il lavoro come fonte del valore Marx si è iscritto in una tradizione metafisica che da Cartesio e Hegel arriva a Marx e Nietzsche. Heidegger legge Marx con gli occhiali di Böhm-Bawerk, ma in realtà legge Proudhon. Marx non ha mai detto che il lavoro è la fonte della ricchezza.

Nei modelli degli economisti conservatori le forze che si esprimono nel Secondo Momento sono naturalizzate, influenzano il prezzo, ma come forze senza malizia, mera propulsione. Se la malizia dovesse presentarsi, e in effetti si presenta continuamente, nessuno lo nasconde più, si presenterebbe come ingerenza, dolo, prevaricazione, abuso, violazione. Lasciate a se stesse le forze si comporterebbero come delle non-forze, si annullerebbero a vicende, troverebbero un equilibrio. Ma le forze non sono mai in equilibrio. L’equilibrio è una finzione, ovvero una forzatura.

La forzatura dei conservatori consiste in ciò: fatti salvo i casi fraudolenti, i prezzi che si fissano nel mercato sono giusti – qualsiasi livello raggiungano. Il modello è un sistema di giustificazione dello status quo, quando non è un sistema di giustificazione del furto.

Il prezzo tende ai costi socialmente necessari sostenuti per produrre l’oggetto d’uso. Quando si dice che nell’ambito della libera concorrenza gli individui, seguendo il loro interesse privato, realizzano l’interesse comune o piuttosto generale, dice Marx, non si dice altro che essi si comprimono reciprocamente entro le condizioni della produzione capitalistica, e che perciò il loro stesso urto reciproco non è altro che la riproduzione delle condizioni entro le quali si verifica questa azione reciproca.

Il prezzo non è fatto da nessuno dei concorrenti, anche se, dice Mazzetti (Quaderni 9,2021), nessuno si accontenta di ciò che riceve. Il capitalista non si accomoda passivamente entro i limiti del sistema che ha contribuito a determinare, spinge per ottenere un potere che vada al di là di quei limiti. La concertazione oligopolista, il marketing, il lobbismo, la statistica, sono metodi con i quali il capitalista riesce a spuntare prezzi che non sono imposti dalla concorrenza, ma sono somministrati, o, almeno, influenzati da lui. Quando questa operazione riesce, l’illusione della concorrenza come presunta forma assoluta della libertà individuale svanisce, e le condizioni della concorrenza vengono avvertite e pensate come ostacoli.

 

IV

Ci sono attori che non sanno che fare, non sanno come vivere, ci sono maestranze, montatori, truccatori, sceneggiatori, costumisti che non sanno dove sbattere la testa, e il governo non fa niente. Con la scusa che il cinema è infiltrato dai comunisti taglia persino i fondi.

L’attore è attore (1, identità astratta), non si discute, e pretende un compenso (2, negazione determinata), per tornare a essere quello che è (3, universalità concreta). Il momento 2, quando non è rimosso, è delegato allo Stato. In ogni caso il passaggio dall’1 al 3 è mediato dal sistema dei prezzi. La società è il sistema dei prezzi. E se gli attori chiedono soldi non bisogna gridare allo scandalo, chiedono di non essere buttati fuori dalla società. Quando a Scampia dicono lo Stato ci deve mantenere, o quando il professore precario dice lo Stato mi deve mantenere, quando l’infermiere dice lo Stato mi deve mantenere, tutti chiedono semplicemente di non essere sbattuti fuori dalla società. L’unica società che conosciamo è il sistema dei prezzi. Persino gli Stati uniti chiedono di essere mantenuti, e di non essere messi ai margini della società, di non essere sbattuti fuori dal sistema dei prezzi.

Una persona nasce attore, nel vero senso della parola, come un’altra nasce insegnante. Sin dall’asilo, o anche prima dell’asilo, si viene instradati nella divisione del lavoro, come fosse un destino, e agli attori e agli insegnanti, agli scrittori e agli artisti piace pensare che questo instradamento precondizionato corrisponda a un’attitudine (un’attitudine coltivata, certamente!) ma a un’attitudine che piace far passare come una dotazione naturale – il genio. Sta di fatto che, nella divisione del lavoro, l’attore è attore perché non è contadino, non è cassiere, non è macchinista, non è spazzino, non è contabile, non è fornaio – è il momento della negazione determinata. Ogni volta che viene a mancare uno spazzino, un fornaio, un meccanico, una cassiera, un contadino, o un contadino, uno spazzino, un fornaio vengono pagati meno, un attore, uno scrittore, un genio, vengono spazzati via, non c’è per loro determinazione, consistenza, realtà che li tenga legati all’esperienza e alla società.

Anche lo studente è uno studente, e studia per diventare un ingegnere o un architetto, studia per non essere uno spazzino, un fornaio, una cassiera. Ma se viene a mancare la cassiera, il fornaio, lo spazzino, l’architetto non si determina, la società si disgrega, la scuola salta in aria.

Altro che disposizione dei banchi a ferro di cavallo!

Quanto più alto è il prezzo al quale si riuscirà a vendere e tanto più basso il prezzo al quale si potrà comperare, tanto maggiore sarà la ricchezza della quale ci si potrà appropriare. Tanto più basso il prezzo al quale si riuscirà a vendere e tanto più alto quello al quale si dovrà comprare, tanto minore sarà questa ricchezza. I prezzi, in poche parole, dice Mazzetti (Quaderni 4,2021), determinano la distribuzione tra i singoli individui, oltreché tra i gruppi e le classi sociali della ricchezza correntemente prodotta. Le variazioni dei prezzi, a loro volta, tenderanno a modificare le quote di tale ricchezza delle quali si approprieranno di volta in volta le diverse componenti della popolazione, e talvolta giungeranno fino al punto di determinare una redistribuzione della ricchezza preesistente.

Ognuno percepisce, infatti, che chi accettasse passivamente l’aumento dei prezzi delle merci che acquista, senza cercare di scaricarlo sui prezzi delle merci che vende non farebbe altro che impoverirsi rispetto agli altri.

Il potere di decidere chi continuerà a produrre e chi no, chi compererà e chi no, chi venderà la sua produzione e chi no e a quale prezzo, è un potere interamente demandato al mercato.

Posso decidere la quantità, ma non il prezzo, oppure posso decidere il prezzo, ma non la quantità.

II prezzo della mia merce non è determinato da me, ma dal comportamento di una moltitudine di individui. Se i miei concorrenti sono più efficienti di me, il prezzo che si verrà a determinare sarà per me una sventura. Potrò pensare di cambiare in futuro la produzione, ma nell’immediato non potrò far altro che piegarmi a questa realtà. Il libero produttore si deve piegare. Ma a chi si piega?

Si piega al mercato. Ma cos’è il mercato?

È un insieme di agenti che hanno necessariamente e unicamente un valore di posizione. Gli agenti non contano per ciò che sono o per ciò che esprimono, ma per il posto che occupano in uno spazio topologico. Il posto è primo rispetto alle cose e agli esseri reali che vengono a occuparli. Nella scacchiera economica non conta né l’oggetto d’uso né il valore, il prezzo decide sia dell’uno che dell’altro. Da questo criterio locale o posizionale, dice Deleuze (Strutturalismo) derivano varie conseguenze. Innanzitutto, se il prezzo non ha una relazione con l’oggetto d’uso né con il valore, ma soltanto un senso di posizione, altrimenti non si spiegherebbe come esso possa salire o scendere sotto il costo di produzione, bisogna allora concludere che il prezzo risulta sempre dalla combinazione di elementi che non sono di per sé apprezzabili. Il prezzo è sempre un risultato, un effetto, un effetto di posizione. C’è, profondamente, un fondo non apprezzabile del prezzo da cui risulta il prezzo. Quest’elemento non apprezzabile non è senza-valore – il gratuito, il non-utile, l’aria, per esempio -, ma ciò che lo fa apprezzare e produce il prezzo circolando nella struttura.

È evidente, dice Deleuze, che il prezzo si attacca all’oggetto d’uso e acquisisce un’indipendenza materiale, pur non esistendo indipendente dalle relazioni con altri oggetti d’uso con i quali entra in relazione e mediante i quali si determinano reciprocamente. Gli elementi si determinano reciprocamente nel rapporto.

Se ritroviamo sempre da una parte oggetti d’uso e, dall’altra, operai e capitalisti, il vero soggetto è la struttura. Il capitalista è solo un funzionario del capitale. La sua volontà di far soldi si ferma davanti alle esigenze strutturali. La sua pulsione a investire e realizzare un maggior guadagno conta, ma solo e soltanto entro i limiti della struttura. Il suo godimento non è fondato sulla sua pulsione singolare, ma, viceversa, è la sua pulsione ad assere attivata dalle relazioni differenziali. È la composizione organica, così come si esprime nell’insieme dei singoli agenti, a dire se un certo imprenditore può inserire nella filiera dell’apprezzamento le sue dotazioni pregresse, il capitale morto. La struttura decide anche del passato. Se è vero che sono uomini concreti a occupare i posti e a mettere in opera gli elementi della struttura, dice Deleuze, lo fanno tenendo il ruolo che il posto strutturale assegna loro (per esempio il ruolo di capitalista) e fungendo da supporti (funzionari) ai rapporti strutturali, tanto che i veri soggetti non sono questi occupanti e questi funzionari, bensì la definizione e la distribuzione di questi stessi posti e di queste funzioni. Il vero soggetto è la struttura stessa. In Mazzetti questo quadro di riferimento strutturale è chiarito nei minimi dettagli.

Poiché è la struttura a confermare gli agenti, essa è necessariamente inconscia. Ad agire sono sempre gli agenti economici, a presentarsi sono sempre gli operai e i capitalisti, il capitale morto e il capitale vivo. Ciò che è attuale in una struttura, dice Deleuze, è ciò in cui essa si incarna, o piuttosto ciò che essa costituisce incarnandosi. Non si danno operai senza capitale, e non si dà capitale senza operai. Ciò che li tiene insieme sono, da una parte, la valorizzazione del capitale e, dall’altra, la condizione di essere libero da ogni altro legame che generi reddito. Ma entrambi possono agire solo se, nella divisione sociale del lavoro, occupano un posto che valorizzi le loro azioni, che renda attuale le loro possibilità. Non solo devono essere in grado di incarnare i ruoli richiesti, devono anche occupare la casella giusta, devono produrre al momento giusto e ai costi giusti. Questa doppia corrispondenza non può essere conosciuta. È la struttura che assegna le caselle vincenti. Possono anche produrre il miglior prodotto ai costi più bassi, ma non è il momento giusto, non ci sono compratori.

La struttura non è un centro direzionale che decide dell’allocazione degli agenti e degli oggetti. Non è un posto fisso – un terzo elemento, rispetto alle serie degli agenti e degli oggetti d’uso. Proudhon – e Heidegger – credono che Marx abbia posto al centro della struttura il lavoro, e che basti riportare il lavoro al centro (Proudhon), o levare il lavoro dal centro (Heidegger), per rimettere le cose nel giusto ordine e avere una relazione statica tra prezzo e valore: tanto lavoro = tanto valore = tanto prezzo – e il mercato e il denaro sono sconfitti. Senonché, l’equazione non funziona, a meno che non si intenda il lavoro come terzo elemento fuori dalla serie – trascendente. Perché se lo si assume come un agente immanente, la struttura sarebbe satura, e le permutazioni impossibili, ogni agente o ogni oggetto sarebbe confrontabile solo e soltanto con se stesso. Lo scambio è possibile perché ogni merce può transitare, può significare ogni altra merce nella serie, in base a una relazione di contiguità (metonimia), dove una merce può rappresentare o prendere il posto dell’altra. E ciò è possibile solo e soltanto se tutti gli agenti e gli oggetti della serie non sono legati al proprio posto, ma possono transitare, non derivano il valore da una fonte.

 

V

Il coordinamento delle attività e degli scambi, dice Mazzetti, avviene attraverso il sistema dei prezzi. Chi fa il prezzo non sono coloro che scambiano. Il prezzo non è il risultato di una scelta del soggetto. Il soggetto non è la fonte del prezzo, dunque neanche il lavoro che il soggetto eroga.

È il sistema dei prezzi a decidere chi continuerà a produrre e chi no, chi compererà e chi no, chi venderà la sua produzione e chi no e a quale prezzo. Ciò non vuol dire che il soggetto subisce passivamente il sistema. Il sistema non è un terzo rispetto agli agenti che lo compongono. Non c’è un potere come terzo elemento (trascendente o immanente). Gli agenti sono gli unici attori. Il potere circola nella serie degli agenti. Il sistema dei prezzi è la serie degli agenti. Dunque, gli agenti non sono soggetti passivi di un sistema esterno che indica loro cosa sono e cosa valgono. Gli agenti sono liberi dai vincoli personali di signoria e servitù e quando scambiano sono certi che a fare il prezzo non sono terzi che vogliono imporre la propria volontà, ma un sistema di domande e di offerte che sfugge al controllo di un potere centrale o di una signoria. Il prezzo non è somministrato, l’agente ha la forza di far valere le proprie ragioni, ma questa forza si misura – giunge a un quanto – proprio perché altre forze attive fanno la stessa cosa. La ragione non trascende i singoli membri. Non c’è nessuna grande mente universale che dispone le cose verso un fine, come un grande architetto. Le cose entrano in intelligenza dinamica, hanno una mente materiale. Ogni alterazione delle circostanze è occasione di devianze, e necessita nuovi aggiustamenti. Un cambiamenti di volumi, situazione, disposizione, tempo, composizione e numero degli agenti e degli oggetti d’uso, ognuna di queste particolarità può essere seguita dalle conseguenze più inaspettate. Tutti gli oggetti e gli agenti si adattano l’un l’altro con un’accuratezza che suscita ammirazione. Il preciso adeguamento somiglia alle produzioni dell’inventiva, del progetto, del pensiero, della saggezza e dell’intelligenza umane. E invece tutto si accorda per spinte casuali, non organizzate (Hume, Dialoghi).

Il processo di formazione del prezzo implica, dice Mazzetti, la subordinazione del proprio interesse a questa realtà oggettiva. Ciò a cui ci si sottomettente non è il potere, ma altre forze attivanti. Il soggetto non è un agente attivo che, incontrato un potere, diventa passivo. Il soggetto non è né attivo né passivo. È attivante e attivato, e solo nella serie è attivante e attivato. L’oggetto d’uso non è niente fuori dalla serie, solo nella serie è attivato dal rapporto con ciò contro cui può essere scambiato. L’agente diventa attivo nella relazione di serie. L’oggetto d’uso si valorizza nella serie degli Anche: sono scarpa, ma anche pantalone, anche zucchero, anche sale, anche vite, anche tela. In questo sistema è più probabile che il prezzo si approssimi al costo di produzione. La fiducia nel sistema è data da questo prossimità.

Questo sistema dei prezzi, che corrisponde grosso modo al sistema del capitalismo ottocentesco, via via, dice Mazzetti, è stato messo in discussione, soprattutto dagli imprenditori. Sopraggiunti alcuni problemi, essi hanno cercato dimensioni per gestire nel loro interesse il sistema dei prezzi. E lo hanno fatto, dice Mazzetti, mediante la creazione di cartelli, attraverso fusioni e mediante l’estromissione dal mercato dei concorrenti e l’assorbimento delle quote di vendita da questi controllate. Essi, dice, hanno progressivamente acquisito un potere soggettivo relativo di determinazione del prezzo anche a prescindere dagli eccessi di domanda, fatto questo che non accadeva quando il mercato era frantumato tra un numero elevato di piccole aziende in concorrenza tra loro. Accanto alla concentrazione delle imprese industriali, dice, si è verificato un processo di concentrazione delle banche e degli altri istituti di credito. Da ultimo, dice, all’inizio del secolo scorso, sono giunti i lavoratori, che in alcuni paesi sono riusciti a dettare alcune delle condizioni di vendita della loro forza‐lavoro attraverso la contrattazione collettiva. Nel corso degli anni Trenta hanno cominciato a svilupparsi anche le grandi catene di distribuzione, dice, a riprova della necessità del controllo del mercato anche da parte dei commercianti. Dagli anni Quaranta c’è poi stato l’intervento massiccio della pubblicità, come tentativo di influenzare la domanda attraverso un drastico ridimensionamento del peso del prezzo nella scelta delle merci da acquistare da parte dei consumatori. L’introduzione dei prezzi amministrati, dice, un fenomeno che si è largamente diffuso durante e dopo la Seconda guerra mondiale, ha rappresentato formalmente il riconoscimento che il potere delle imprese di fare il proprio prezzo di vendita aveva raggiunto in alcuni settori un livello talmente elevato da dover essere bilanciato dai pubblici poteri. Ma la fissazione tecnico-politica delle ragioni di scambio ha aperto la strada ad una pratica largamente diffusa di riacquisire un pieno potere sui propri prezzi ricorrendo alla corruzione o a ricatti politici, cioè alla diverse forme di lobbismo.

Il controllo dei prezzi rende aleatorio il rapporto tra costi di produzione e prezzo. Quando il sistema dei prezzi gira in assenza di posizioni dominanti, nel prezzo, dice Mazzetti, il singolo subordina il suo interesse privato alle condizioni esterne, perché riconosce che queste condizioni non sono espressione di una volontà portatrice di interessi particolari contrapposti ai suoi. Questi interessi, dice Mazzetti, che pure si riversano sul mercato e che egli si trova di fronte in un rapporto antagonistico, subiscono al pari dei suoi un limite esterno distribuito e molecolare al quale debbono sottomettersi. Ma quando alcuni agenti acquisiscono la forza per fare il loro prezzo e la loro offerta si presenta come un momento di affermazione immediata della propria volontà, e il fatto che questa volontà subisca ancora alcune limitazioni e che quindi la fissazione del prezzo non possa assumere un carattere dispotico, non cancella affatto il cambiamento intervenuto nel sistema dei prezzi ottocentesco.

La conquista del potere di fare il prezzo della propria merce, dice Mazzetti, è un processo graduale, che alcuni settori o alcune classi sociali riescono a realizzare prima di altre e in contrapposizione ad esse. È fuori di dubbio, ad esempio, che fino all’avvento delle politiche keynesiane del pieno impiego, i lavoratori non potevano, nonostante fossero già riuniti in sindacati, battersi con efficacia in favore del proprio salario, e che solo nell’ultimo ventennio (1960‐1980) un potere del genere ha cominciato a consolidarsi. Le cose si sono ingarbugliate notevolmente quando il potere dei primi ha sollecitato la costituzione di un contropotere da parte di coloro che avevano interessi contrapposti. Da quel momento in poi, dice Mazzetti, il sistema dei prezzi si è trovato continuamente di fronte al rischio di evolvere disordinatamente, a causa dei continui bracci di ferro tra le parti. È solo allora che si è instaurata la coscienza che l’aumento del prezzo delle merci che si acquistano non può e non deve essere subito, e giustifica piuttosto un immediato e correlato aumento dei prezzi delle merci che si vendono.

 

VI

L’inflazione che inizia a registrarsi negli anni Settanta è diversa. Mentre in precedenza l’inflazione si presentava quando c’era un eccesso di domanda e un pieno o elevato impiego del potenziale produttivo (nei periodi di stagnazione o recessione si verificava l’esatto contrario), negli anni Settanta si verificò un fenomeno insolito. A una contrazione dell’economia non è seguita una diminuzione dei prezzi. Al contrario, essi hanno continuato a salire. Ciò vuol dire, conclude Mazzetti, che il mercato è bello e defunto.

La distruzione del sistema dei prezzi, dice Mazzetti, non è stata voluta e programmata. Non corrisponde all’intenzione di un agente o di alcuni agenti economici. Nessuno aveva intenzione di ribaltare il sistema, a maggior ragione gli agenti che cercavano di alterare i prezzi. Anche per loro il sistema doveva continuare a mediare lo scambio, altrimenti non avrebbero avuto la possibilità di incassare il sovra-profitto dovuto alla manipolazione del prezzo.

Come si distrugge allora il mercato? Si distrugge per i tentativi combinati di tutti gli agenti di fare il prezzo. Il prezzo si stacca dai costi di produzione e fluttua liberamente. Si muove senza alcun riferimento a un punto di salto. Il sistema smette di funzionare quando si scopre che il prezzo è fatto dagli agenti, e tutti cominciano a operare di conseguenza. Se gli agenti hanno un potere sui prezzi non ci sono più prezzi, perché i prezzi tendono ad essere indistinguibili gli uni dagli altri. Si abbandona l’esigenza di riferire il prezzo a un valore e il valore a un costo di produzione e l’empirismo basico sarebbe sempre il genere di cui questi prezzi sarebbero la specie.

Questa situazione, in cui gli agenti cercano di controllare i prezzi, e in questa ricerca mandano all’aria tutto il sistema, dice Mazzetti, è una situazioni migliore di quella in cui, a fare il prezzo era il mercato, e in cui, per aggiustare gli squilibri eventuali, si distruggevano le forze produttive, distruzione materiale che sfociava anche in guerre vere e proprie. Il tentativo di controllare i prezzi esprime l’esigenza di non lasciare la produzione e la distribuzione della ricchezza alle forze cieche del caso, ma di assumerle esplicitamente in un programma di governo della produzione. L’odierna inflazione, dice, è un passo avanti positivo rispetto ad una situazione dominata dal mercato, proprio perché testimonia che la produzione ha subito un significativo processo di organizzazione al di là della concorrenza preesistente.

L’inflazione e la deflazione precedenti, dice Mazzetti, erano processi inconsci attraverso i quali la collettività regolava il livello dell’attività produttiva corrente con i prodotti dell’attività svolta in passato e con quella da svolgere in futuro. La deflazione, dice, era necessaria ogni volta che occorreva smaltire un eccesso di merci rispetto alla domanda. E aveva conseguenza nefaste. Chi sperimentava una diminuzione del proprio prezzo di vendita rispetto al proprio prezzo di acquisto, vedeva apparecchiarsi le condizioni per la propria estromissione dal mercato.

La diminuzione del prezzo è un modo di prendere atto che della propria attività non c’è più bisogno. Ogni volta che mi si vuol pagare di meno, mi si dice, implicitamente, che la mia prestazione non serve.

La caduta dei prezzi, dice Mazzetti, consegue all’improvvisa scoperta che la società ha prodotto troppi mezzi di produzione, troppi mezzi di sussistenza, e che questi ultimi, senza che si riesca a svalutare il denaro, non possono trovare uno sbocco adeguato. Per questo in periodi di crisi si ricorreva alla distruzione dei prodotti e alla dismissione degli impianti per far risalire il loro prezzo. E solo quando questa ascesa cominciava di nuovo, l’attività poteva lentamente riprendere.

Negli anni Settanta, l’aumento generalizzato dei prezzi, nonostante la recessione, non è altro che il rifiuto di soccombere, il tentativo di reggere come produttori. Gli individui non accettano più di subire una sconfitta attraverso il sistema dei prezzi. L’inflazione è un momento di resistenza. Di resistenza a una struttura i cui elementi sono soggetti a continue oscillazioni e mutamenti – a corruzioni (alterazioni) – che sono nient’altro che passaggi da uno stato di ordine a un altro (Hume).

 

VII

La nostra comunità, dice Mazzetti, è in questa struttura dei prezzi.

Qui Comunità non vuol dire Corpo di un organismo i cui membri si muovono di comune e esplicito accordo verso una direzione prescelta, o un insieme di persone che condividono tra loro elementi fondamentali della vita sociale, culturale o territoriale. La comunità è senza comunione, senza comunicazione. La Comunità è il sistema dei prezzi, così come è stato delineato nel paragrafo precedente.

Questa forma della comunità ha i suoi limiti e le sue contraddizioni, dice Mazzetti, limiti e contraddizioni che emergono proprio in conseguenza dello sviluppo che essa ha reso possibile. È evidente, dice, che un qualsiasi progetto di trasformazione della società che non si ponga come suo elemento essenziale il riconoscimento dei limiti del sistema dei prezzi e la conferma di quelle forze che inconsapevolmente spingono gli individui a superare quei limiti, è un progetto vuoto o falso.

La degenerazione del sistema dei prezzi – che si misura nella deflazione e nell’inflazione, e che gli economisti tradizionali tanto avversano, preoccupati che essa possa spazzare via l’ordine economico presente – questa degenerazione non porta a niente, nemmeno a una fantomatica regressione. La degenerazione porta a un nuovo ordine, un ordine dal quel il lavoratore, o, in generale, l’uomo, può essere escluso. Questo nuovo ordine si può contrastare.

Bisogna chiedersi, dice Mazzetti, se la relazione del prezzo possa ancora garantire un’adeguata espressione delle possibilità della vita degli individui contemporanei.

In ogni coso, dice, il sistema dei prezzi non può essere considerato un meccanismo naturale, immutabile, perenne. Esso, dice Mazzetti, riesce a “legare” [le virgolette marcano il movimento inconscio della struttura, non c’è nessuna entità trascendente che lega gli agenti] positivamente gli individui tra loro solo se esistono determinate condizioni soggettive (una forma dell’individualità) ed oggettive (un mondo materiale di relazioni e di cose) che nel loro insieme “costituiscono” la relazione [anche qui le virgolette marcano lo stesso significato]. Queste condizioni, a loro volta, sono emerse attraverso un processo storico estremamente complesso, che non le ha poste originariamente come scopo, e possono scomparire o modificarsi attraverso eventi storici dei quali egualmente non si ha un’adeguata consapevolezza immediata. Nel caso in cui esse scompaiano o si modifichino strutturalmente, dice, non è affatto detto che la relazione venga immediatamente sostituita da un’altra. Al contrario, occorrerà un lungo e difficile parto affinché gli esseri umani si rendano conto che hanno distrutto le basi della loro convivenza nella forma data e che per fare quello che cercano di fare debbono darsi una nuova base, che si spinge oltre i limiti di quella preesistente. E non è nemmeno detto, aggiungo io, che non si produca un nuovo equilibrio dal quale essi saranno esclusi. La storia non si muove lungo un solco di progressione segnato nella pietra. Non c’è alcuna garanzia sul destino delle cose e degli agenti.

L’inflazione degli anni Settanta, dice Mazzetti, è un sintomo che il sistema dei prezzi non è più in grado di mediare la riproduzione degli individui.

L’inflazione attuale, si chiede Mazzetti, non esprime forse una degenerazione strutturale di quella forma di relazione che costituisce il sistema dei prezzi? E questa degenerazione non è forse il prodotto di uno sviluppo degli individui e delle strutture in cui si raggruppano, che sono cresciute più di quanto le relazioni che hanno mediato la loro vita finora non permettano?

Negli anni Settanta il prezzo non riesce più a riprodursi. Qualcosa ostacola il suo decorso, deviandolo verso una decomposizione.

Prima di questo impatto che cos’era il prezzo?

Il prezzo, dice Mazzetti, era il rapporto tra due agenti che, in una reciproca indipendenza e indifferenza personali, interagivano per scambiarsi delle cose o delle attività sulla base di una presunta equivalenza delle stesse – equivalenza presunta, dice Mazzetti. Questa presunzione, con argomentazioni d’esperienza, inferiva l’esistenza del denaro ogni volta che si vedeva un agente o un oggetto d’uso (legge di Say).

Può essere difficile spiegare come questo tipo legge possa applicarsi là dove gli oggetti d’uso e gli agenti siano unici, individuali, senza parallelismo o specifica somiglianza, ed è altrettanto ragionevole che qualcuno pensi che l’ordine derivi da una forza nascosta, arcana, da una divinità che agisce alle spalle degli agenti. Un universo ordinato deve derivare necessariamente da un pensiero o arte simile a quella umana. (Hume). L’idea che questo ordine sia frutto della storia di forze anonime è insopportabile.

Anche il coordinamento anonimo non deve essere naturalizzato. Esso deriva dalla storia. È un accordarsi della domanda e dell’offerta che, nella storia, attraversa diverse fasi, fasi nella quali, progressivamente, gli agenti economici perdono parte del controllo che avevano sulle contrattazioni.

Si arriva a questa perdita per due ragioni: 1) la divisione sociale del lavoro, con la conseguenza che ciascun produttore di merci non è libero di scambiare, ma deve scambiare, se vuole riprodursi come essere umano; e 2) l’ampliarsi degli scambi che fa sì che le ragioni personali di ciascuno divengano ininfluenti. Chi offre una cosa per acquisirne un’altra impara, attraverso il ripetersi degli scambi con soggetti diversi, a conoscere le diverse valutazioni soggettive dei contraenti e, non avendo legami di dipendenza personale, sceglie quello o quelli che fanno la valutazione più vantaggiosa della cosa che offre in rapporto alla cosa che desidera.

Questo processo, dice Mazzetti, conduce inesorabilmente ad un punto nel quale le ragioni in cui alcuni prodotti si scambiano tra loro non saranno quasi più oggetto di contrattazione tra i singoli, ma, per ciascuno di essi, saranno date a priori, e tutti, o quasi, dovranno accettarle. Quando una simile situazione si instaurerà, dice, le ragioni di scambio delle merci scaturiranno da quel contesto sociale che noi denominiamo Mercato.

Per quale ragione gli agenti si lasciano privare di un loro potere – il potere di decidere il prezzo? C’è un motivo ben preciso che spiega il perché gli agenti che non riescono ad affermare nello scambio la loro volontà, ciononostante procedano allo scambio, e questa ragione, dice Mazzetti, sta nella natura del prezzo.

Il prezzo, nonostante non sia il prezzo desiderato, viene accettato perché si sa che esso non è Fatto dall’acquirente, che se è vero che non è espressione della mia volontà, è altrettanto vero che non è nemmeno espressione della sua volontà. In altre parole, dice Mazzetti, esso viene accettato perché ha sue ragioni oggettive che si fanno valere a prescindere dalla volontà dei contraenti.

Dal punto 1 – divisione sociale del lavoro – deriva che il reddito incassato dalla vendita deve reintegrare almeno i costi di produzione, perché altrimenti l’agente non potrà tornare a riprodursi come produttore di merci. Nel momento in cui il soggetto non è in grado di fare il proprio prezzo, egli non è in realtà libero di scegliere la struttura dei propri costi di produzione. Gli altri, infatti, accettano il prezzo che egli intende praticare soltanto se questo prezzo dimostra che egli ha prodotto in un modo che non è lasciato alla sua discrezionalità, ma ha tenuto conto di ciò che è socialmente necessario per produrre la cosa che vende. Ed egli troverà uno sbocco sul mercato capace di garantire la sua riproduzione solo se avrà usato le risorse e il suo tempo di lavoro nella forma socialmente normale o con un risparmio rispetto a tale forma. Il sistema dei prezzi, insomma, costringe il singolo a produrre alle migliori condizioni possibili, pena l’estromissione dal sistema. Non appena il singolo produttore, qualunque siano le sue intenzioni, porrà in essere processi che non vengono considerati socialmente come necessari, impiegherà risorse in eccesso, non troverà acquirenti disposti a pagargli questa parte del valore, perché il mercato permette loro di rivolgersi ad altri produttori che non sostengono quei costi e che non cercano di scaricarli sui loro prezzi.

Il prezzo, dice Mazzetti, è dunque la socialità degli esseri umani posta in una forma specifica. Il soggetto che fa valere nei confronti di un altro un prezzo fatto dal mercato, dice all’altro che non ha alcuna intenzione di riconosce come sostenibili – dunque solvibili – un insieme di attività che l’altro ha posto in essere, ma che non hanno immediatamente a che vedere con la cosa che egli vuole acquistare. Egli può agire in questo modo perché apprende dal mercato che colui che cerca dì spuntare un prezzo più elevato si è comportato in maniera socialmente dissipatoria e, per quanto possa aver prodotto qualcosa con quelle risorse impiegate in più, non ha comunque prodotto con esse del denaro. La condizione essenziale della razionalità del sistema dei prezzi, dice Mazzetti, è il fatto che gli individui si parlino attraverso il mercato e cioè che essi siano indifferenti ad ogni determinazione particolare del produttore come persona o gruppo di persone e del prodotto come cosa che non sarebbe riproducibile attraverso il lavoro.

Questo lasciar parlare i prezzi è un vantaggio, rispetto al sistema precedente nel quale a parlare per noi erano il signore, il padrone e il patriarca. Ed è migliore perché è pervasivo. La parola non viene negata solo a me, viene negata a tutti. Siamo tutti nella stessa condizione. Nessuno impone la propria volontà agli altri contraenti.

A un certo momento questo sistema di libertà e di proprietà e di rapporti di produzione smette di funzionare. Di più, rappresenta un limite all’espressione delle forze produttive.

L’inflazione e la deflazione, sono momenti di espressione di questi limiti e tentativi maldestri di conquistare e instaurare un nuovo sistema di rapporti di produzione.

Nel momento in cui gli individui e i gruppi si rapportano tra loro nella convinzione di poter manipolare i propri prezzi di vendita a piacimento, dice Mazzetti, si scatenano delle reazioni a catena e l’intera struttura sociale piomba nel caos. Le relazioni si corrompono. Ciò che viene messo in discussione sono le vecchie relazioni – la vecchia comunità. Si reclama un nuovo potere, e lo si reclama, perché il vecchio sistema di potere che regolava le transazioni aveva questo limite: distruggeva le forze produttive quando queste sopravanzavano la domanda. La resistenza a questo sistema, chiedere di rientrare almeno dei costi di produzione, nonostante il mercato non riconosca come socialmente sostenibili questi costi, chiedere di essere occupati, quando il sistema dei prezzi non ha bisogno di te, resistere, non lasciarsi buttare fuori dal mercato: è questa la faccia triste e orgogliosa dell’inflazione. Ma quanto più l’agente acquista un potere sulla propria capacità di vendita, tanto più scompare l’obiettività dei prezzi e ciò perché scompare l’oggettività dei costi. Nel mentre si tenta di affermare un nuovo potere, si distruggono le condizione del vecchio sistema. Proprio perché è in grado di fare il proprio prezzo, dice Mazzetti, l’agente è infatti in grado di decidere, senza che compaiano limitazioni esterne, la struttura dei propri costi di produzione. Ciò che viene sconvolto, dice, è proprio il mezzo attraverso il quale viene imposto a ciascun produttore di limitarsi a fare solo ciò che è necessario per la creazione del proprio prodotto. Così può accadere che dei dirigenti assolutamente incapaci, dice, spendano ingenti somme per fornire agli acquirenti un’immagine falsa di ciò che fanno, che paghino tangenti a chi media l’acquisto di ciò che offrono, che assicurino prezzi di favore negli acquisti che fanno presso alcuni fornitori, che paghino ingenti somme a tennisti, calciatori, cantanti, per sviluppare ridicole associazioni tra consumo di un prodotto e successo e facciano apparire tutto ciò come un costo di produzione della merce che vendono. Accanto ai costi effettivi, dice, si struttura un sistema articolato di falsi costi che possono essere fatti valere nei confronti dell’acquirente perché il prezzo non è più un prezzo. Esso, infatti, non oggettiva più un rapporto di denaro, ma una relazione diversa che del rapporto di denaro ha solo l’apparenza. I prezzi non si scostano, per errore, dai costi di produzione – i prezzi vanno a zonzo. Non siamo minacciati dall’errore, siamo immersi nel delirio. I prezzi non esprimono un oggetto d’uso sottostante, né sono il corrispettivo di altri prezzi, dunque la proporzione di altri sforzi. Si muovono a caso, passano da una quota all’altra, e passano dall’una all’altra a caso e seguendo un delirio che percorre tutto il mercato, formando compensi a nove cifre, compensi sotto la soglia di sopravvivenza, salari più bassi dell’elemosina che il barbone raccoglie all’angolo di strada, affitti più alti degli stipendi, pensioni più basse del canone tv, automobili che costano quanto una bicicletta di lusso, anziani di 65 anni impiegati nei cantieri edili e giovani di 35 costretti a seguire master e stage totalmente inutili in università che li formano per impieghi che non esistono, attori del cinema che fatturano più della Chrysler, cantanti che incassano senza cantare, medici cubani che curano pazienti calabresi, e medici calabresi che curano pazienti inglesi, e cubano che vivono di stenti, la Nike che fattura più della Fiat, giocatori di pallone che contano più dei papi, borracce ecologiche con acqua San Pellegrino, auto che si guidano da sé e che hanno esaurito le mete, tempo in eccesso consumato mangiando cibo esotico standard a Madrid e Barcellona. E nonostante ciò, i principi del mercato impongono a questo delirio regole costanti come leggi di passaggio, di transizione, d’inferenza, in accordo con il mercato stesso, e allora si rapporta il debito al PIL e il PIL al Deficit, si interpreta la scuola come quota parte del reddito lordo complessivo e la sanità e le pensioni come aliquote inversamente proporzionali, più si schiatta meno si va in pensione. Se è vero che i termini di associazione fissano il mercato imponendogli una natura che disciplina il delirio o i prezzi immaginari, l’immaginazione, all’inverso, si serve di questi principi per dare autorità alle sue finzioni, alle sue fantasie, per conferire loro una parvenza di validità che di per sé non avrebbero. Spetta in questo senso alla finzione fingere le relazioni stesse, indurre relazioni fittizie e farci credere a follie o a emerite stronzate, come la favola dei soldi che non ci sono, del taglio del cuneo, della produttività, e di quelle ragioni del cuore che le macchine non sarebbero in grado di replicare. Ma soprattutto, nel caso della causalità, nel far dipendere questo da quello, il salario dalla produttività, la produttività dalla conoscenza, e la conoscenza dallo studio universitario, la fantasia forgia catene casuali fittizie, regole illegittime, simulacri di credenza, sia che essa confonda l’accidentale con l’essenziale, sia che si serva delle proprietà del linguaggio (superamento dell’esperienza) per sostituire alle ripetizioni di casi simili realmente osservati una semplice ripetizione verbale che ne simula l’effetto.

Non siamo minacciati dall’errore ma, quel che è assai peggio, siamo immersi nel delirio (Deleuze, Hume).

Questi deliri possono sempre essere corretti, come avviene per la causalità, dove un calcolo severo delle probabilità può denunciare i travalicamenti deliranti o le relazioni fittizie. L’illusione è tanto più grave quando fa parte essa stessa del sistema, ossia quando l’esercizio o la credenza legittimi sono incorreggibili, inseparabili dalle credenze illegittime, indispensabili alla loro organizzazione. Allora l’uso fantastico dei principi del mercato diventa esso stesso un principio. Il delirio e la finzione passano dalla parte della ragione. Allora l’humour sta alla critica dell’economia, come il Capitale sta alla Ricchezza delle nazioni.

Se il mercato non media più coerentemente la riproduzione sociale, dice Mazzetti, è perché il mercato si sta disgregando. Non è cioè più il luogo nel quale gli agenti accettano di coordinare la loro produzione in forma subordinata a forze che non controllano. L’esautoramento del mercato, dice, non è il risultato del fatto che gli individui non lasciano funzionare una struttura che fino a quel momento ha mediato i loro rapporti, ma il fatto che essi hanno trasformato radicalmente quella struttura inibendo alcuni dei meccanismi che la caratterizzavano, nel tentativo di affermare un loro potere su di essa.

In molti credono che si possa uscire da questo delirio ripristinando politicamente il mercato e tornando a uno status quo ante. Ma il mercato, dice Mazzetti, ha una sua materialità [è una struttura inconscia] che non può essere rivitalizzata per decreto. In più, dice, il recupero del potere del mercato presuppone la distruzione della struttura materiale che abbiamo faticosamente creato negli ultimi decenni, sulla scia della rivoluzione keynesiana. Significa distruggere lo stato sociale nella speranza di ripristinare un sistema che è, per definizione, refrattario a ogni potere personale, dunque non suscitatile per decreto, ovvero per l’azione di una volontà umana esplicita. Se gli individui si sono spinti al di là del sistema dei prezzi è perché, dice Mazzetti, avevano sperimentato i limiti che scaturivano da questo modo della loro esistenza. Non che li abbiano sperimentati in maniera chiara e consapevole, dice, tant’è vero che hanno sin qui cercato di superare il sistema dei prezzi mantenendo però contraddittoriamente questa stessa base alla loro vita sociale. Ma il fatto che si siano dati da fare per rimuovere le limitazioni che da esso scaturivano è già una riprova che gli stava stretto.

L’inflazione è il sintomo della spinta a uscire dal sistema dei prezzi. Chi cerca di regolarla e tenerla entro limiti sopportabili somiglia all’arbitro che si premura di verificare che nessuna delle parti in causa si spinga al di là delle regole del gioco e rimanga ferma nel suo ruolo, qualunque sia la spinta che sente a trascenderlo. Ma possono degli individui cresciuti all’interno del sistema dei prezzi, che hanno sempre comprato i mezzi del loro godimento, acquisire spontaneamente il sapere che li porti verso un nuovo ordine? No, dice Mazzetti. Essi non possono farlo, il sapere non è un progetto o una ricetta da applicare. Non può spuntare in testa come una decisione. Deve essere lasciato venire, deve essere imparato. L’inflazione, dice, con le sue frustrazioni e i problemi che pone è proprio la scuola nella quale ha luogo questo apprendimento. L’idea che l’inflazione, siccome comporta un disagio è male, è un’idea sbagliata, in quanto ignora il lato passivo (non negativo) che ciascun individuo e ciascun gruppo sociale deve attraversare per poter ritrovare se stesso, nel suo stesso divenire. Oltre a fare se stesso, l’uomo è anche inconsapevolmente fatto dal mondo che ha creato. Nel momento in cui si manifesta questa sua passività, dice Mazzetti (Quaderni 4,2021), egli non sta facendo altro che riconciliarsi, seppure dolorosamente, con il mondo che ha creato.

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