Luxemburg vs Bernstein. Le crisi economiche e il dilemma tra riforma sociale e rivoluzione
di Eugenio Donnici
Ci sono dei dilemmi, che sebbene siano risolti da lungo tempo, continuano ad assillare la mente e, in generale, la vita quotidiana di coloro che sono coinvolti attivamente nelle vicende politiche e sindacali. Il muoversi lungo questa direttrice, in modo quasi funambolico, continua a produrre sterili contrapposizioni, non solo all’interno di quel che resta nella “galassia della sinistra”, ma anche tra il “sindacalismo di base” (di classe) e i sindacati “concertativi”, che contemporaneamente, influenzano e gravitano nella connessa galassia.
Le parole riforma e rivoluzione esprimono due concetti, i cui significati etimologici, nel fluire del tempo e dello spazio, oltre a mutare il corso del fiume, che è un processo che rientra nel piano semantico, hanno svilito la loro “potenza” evocativa e sono diventati indifferenti, muti, nel senso che dicono tutto e il contrario di tutto.
Quando si ricorre al termine riforma, per introdurre provvedimenti legislativi che fanno finta di cambiare il contesto in cui si agisce o addirittura peggiorano le condizioni di vita di chi deve rispettare quella norma retrograda e reazionaria, la società non ne trae nessun beneficio, anzi entra in confusione ed entrano in gioco le spinte regressive, così quando ascoltiamo spot pubblicitari come la “Rivoluzione gentile del latte”, è chiaro che siamo di fronte alla vendita di illusioni, in un determinato contesto, e che quella sostanza liquida biancastra, non produce cambiamenti significativi nella vita reale.
È pur vero che l’espressione linguistica richiamata possa esprimere una metafora, tuttavia è facilmente percepibile, anche alle sensibilità più ingenue, che si tratti di una promozione di una marca di un prodotto particolare, in luogo particolare.
Nel lontano 1899, Rosa Luxemburg, nell’esporre le sue critiche al “metodo opportunista” e alla posizione revisionista di E. Bernstein, nell’ambito della Seconda Internazionale e dei conflitti interni al partito socialdemocratico tedesco, chiede: «La socialdemocrazia può contrapporre la rivoluzione sociale, il rovesciamento dell’ordine esistente, che costituisce il suo scopo finale, alla riforma sociale?». (1)
La sua risposta è: «Certo che no!».
In un recente articolo L. Ypi, ha sottolineato che per Rosa Luxemburg riforma e rivoluzione non erano mai stati opposti: si completavano a vicenda.
Nella visione della rivoluzionaria di origine polacca, naturalizzata tedesca, tra riforma sociale e rivoluzione esiste un nesso indissolubile, in quanto « la lotta per le riforme costituisce il mezzo ma lo scopo è la trasformazione della società». (2)
Nella storia del movimento operaio – asserisce Luxemburg – una netta contrapposizione tra questi due momenti la troviamo per la prima volta negli articoli di Bernstein, relativi ai Problemi del socialismo, pubblicati nella Neue Zeit tra il 1897-98 e successivamente sistematizzati, nel 1899, nel suo libro I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia.
In Bernstein “lo scopo finale” diventa “il nulla”, mentre “il movimento è tutto”, egli rinuncia a trasformare la società in cui vive e le riforme sociali diventano un palliativo, cioè il come dare l’aspirina a un malato di cancro, un girare a vuoto, un far finta di cambiare, una specie di “adattamento” della rana di Chomsky.
Nei singoli individui così come nelle formazioni sociali non ci sono cambiamenti tutti di un botto, la trasformazione non avviene in una sola volta. Il bambino prima di diventare un adulto, passa attraverso l’adolescenza. Certo, in passato c’erano tanti bambini adultizzati. Ma nel presente ci sono anche adulti che si comportano in modo puerile, come se non fossero cresciuti sul piano emotivo relazionale. Nella storia ci sono state le accelerazioni, gli sconvolgimenti sociali, ma proprio perché le forze produttive sono entrate in contraddizioni con i rapporti sociali dominanti, in via di decomposizione.
Bernstein era convinto – rileva Luxemburg – che lo sviluppo capitalistico non poteva andare incontro a un crollo economico generale.
Egli riteneva che i “mezzi di adattamento” vanificavano la teoria del crollo del sistema capitalistico, impedivano che le contraddizioni potessero annodarsi, ma tutto ciò implicava, allo stesso tempo, che il socialismo non poteva essere più considerato una «necessità storica». L’insieme delle riforme, legate ai cambiamenti sociali, non davano luogo a quel processo di trasformazione (rivoluzione) mediante il quale si superava il vecchio modo di produrre e si entrava in un nuovo paradigma sociale. Questa possibilità perde le sue motivazioni, si sfalda e l’agire delle forze sociali, in contrasto tra di loro, riproduce nel tempo un sistema senza variazioni, senza innesti, uguale a se stesso all’infinito, nel profondo dell’eterno.
L’approccio di Bernstein è guidato dagli avvenimenti positivi, legati alla seconda Rivoluzione industriale, in quanto assiste all’introduzione di strumenti come i cartelli industriali, che di fatto limitano la concorrenza e l’anarchia produttiva, ma anche all’espansione del credito nell’intermediazione tra produzione e consumo e all’affermazione del potere contrattuale dei sindacati nella mediazione tra capitale e lavoro, quindi è convinto, in qualche misura, che le crisi congiunturali di sovrapproduzione, che si verificano tra il 1873 e il 1895, non siano solo gestibili, ma anche prevedibili.
E su questa strada giunge alla conclusione, come ci fa notare Luxemburg, che la teoria della crisi di Marx debba essere considerata un “ferro vecchio”.
Le crisi economiche nel sistema capitalistico
Ancora oggi è diffuso il luogo comune che le crisi siano da aborrire e non si colgono le spinte al cambiamento che da esse promanano o meglio viene meno qualsiasi riferimento alla crisi come momento di uno sviluppo del sistema economico-sociale di cui si fa parte, come risultato di un processo storico.
Tra il 1860 e il 1880, Marx ed Engels presero atto che le crisi che si verificarono in quel periodo erano connesse con lo sviluppo del capitalismo.
Le crisi non si basano su leggi naturali, ma su un complesso di circostanze determinate che sono in connessione con le sfere delle attività materiali che vengono effettuate.
Nel sottolineare l’errore metodologico di Bernstein, Luxemburg rimarca il ruolo degli investimenti produttivi nell’espansione dei rapporti capitalistici e le conseguenti crisi a cui danno luogo: la crisi del 1825 in Inghilterra è legata ai grandi investimenti in costruzioni di strade, canali e officine, realizzati nel decennio precedente; la crisi del 1847 è connessa all’enorme espansione delle strade ferrate e alla rivoluzione dei mezzi di trasporto che pervade l’economia britannica negli anni precedenti.
Qualcosa del genere avviene anche in Francia tra il 1852 e il 1856: sulla scia dell’Inghilterra si assiste a un aumento considerevole dei trasporti ferroviari, degli spostamenti delle persone, dei flussi di capitale e delle merci destinate al mercato.
Nel quadro non potrebbe essere lasciata fuori la crisi del 1872 – spiega Luxemburg – come conseguenza del grande slancio dell’industria in Germania e in Austria.
I mezzi strategici, che secondo Bernstein determinano l’adattamento dell’economia capitalistica e il suo riprodursi nel tempo, sono: il sistema creditizio, le unioni imprenditoriali e le organizzazioni sindacali.
Il credito, com’è noto, ha molteplici funzioni, ma la sua tendenza ad accrescere la produzione e facilitare gli scambi è una caratteristica che ha mediato lo sviluppo capitalistico, si dagli albori della sua evoluzione. Tuttavia, nel seguire il procedimento analitico individuato da Luxemburg emerge che esso entra in una fase critica, quando si presenta con le vesti di mezzo per superare le spinte illimitate della produzione capitalistica, che urtano contro il limite della proprietà privata.
Dunque, se le crisi che analizza Luxemburg, a suo tempo, sono generate dalle contraddizioni tra le capacità espansive del sistema e i limiti del consumo, allora il credito è il mezzo per portare queste contraddizioni alle estreme conseguenze, poiché esso agisce in duplice modo: «Dopo avere, come fattore del processo produttivo, provocato la superproduzione, durante la crisi, nella sua qualità di intermediario dello scambio, dà il colpo di grazia alle forze produttive, che esso medesimo ha risvegliato».(3)
Luxemburg cambia la prospettiva e il credito, lungi dal presentarsi come un fattore stabilizzante del capitale, diventa il lievito che ne accelera il suo annientamento, il suo crollo.
Il fallimento della Banca Romana, che è stato al centro delle cronache nazionali tra il 1892 e il 1894, è strettamente collegato alla bolla immobiliare del 1887, in quanto l’istituto bancario si è esposto, con le sue concessioni di credito ai “palazzinari romani”, incoraggiando la speculazione edilizia: in pratica vengono costruiti più alloggi di quelli che vengono venduti, pertanto le imprese edili non riuscirono a ripagare i loro debiti, dato che il loro ROI non copriva gli interessi sui prestiti contratti.
In un contesto storico completamente diverso e nel cuore del capitalismo contemporaneo, di stampo neoliberale, la bolla immobiliare degli USA mette in evidenza il ruolo dei mutui subprime nello stimolare la speculazione edilizia e nell’innescare la crisi economica del 2008, che ha ripercussioni in tutto il mondo.
Nella categoria dei muti subprime rientravano i creditori ad alto rischio, ossia coloro che si erano indebitati al 100% e non fornivano garanzie patrimoniali, ma le banche d’investimento statunitensi si erano rivolte ai clienti, con elevate probabilità di essere insolventi, poiché il mercato dei creditori prime (i primi) era saturo. L’obiettivo di costruire case per i più poveri, muovendosi all’interno della logica del mercato, attraverso l’espansione della produzione capitalistica, che si basa sul conseguimento del profitto, ha creato le premesse per l’esplosione di una crisi dilagante a livello mondiale.
Lo sviluppo delle forze produttive consentiva di soddisfare la domanda di case delle persone meno abbienti, ma il vincolo della proprietà privata ha arginato questa possibilità e nel concreto ha fatto sì che una mediazione sociale alternativa non intervenisse.
Le unioni di imprenditori, cioè i cartelli, rappresentavano un altro mezzo di “adattamento del capitale” e secondo Bernstein agivano nella direzione di estinguere l’anarchia produttiva e di prevenire le crisi.
Lo scopo ultimo dei cartelli è quello di influire, mediante la soppressione della concorrenza tra gli imprenditori in un determinato settore produttivo, sulla ripartizione delle quote di produzione per il mercato, in modo da fissare prezzi di vendita che assicurino i massimi profitti. Nella prassi si vengono a creare posizioni dominanti che di fatto impediscono l’accesso ad altri produttori.
I cartelli, però, spostano la concorrenza sul mercato mondiale, pertanto nella diminuita possibilità di trovare un posticino per sé sul mercato, ogni porzione di capitale privato preferisce tentare la fortuna per proprio conto: saltano le unioni imprenditoriali e si ritorna alla libera concorrenza.
In definitiva, dunque, anche i cartelli, come già il credito – precisa Luxemburg – si manifestano come fasi determinate dell’evoluzione economica che, paradossalmente, aumentano l’anarchia del mondo capitalistico.
In queste coordinate, le unioni imprenditoriali – continua Luxemburg – accrescono, da un lato, le contraddizioni tra il modo di produzione e di appropriazione, in quanto il capitale organizzato si impone e contrappone brutalmente le sue direttive economiche (salari, prezzi e profitti) alla classe operaia, mentre, dall’altro lato, rende più acute le contraddizioni tra il carattere internazionale dell’economia capitalistica e il carattere nazionalista dello stato capitalistico.
Quanto alla visione prospettica sul sindacato, l’analisi storico economica effettuata da Luxemburg differisce da quella di Bernstein, il quale avanza la tesi che l’organizzazione dei lavoratori è uno strumento in grado di influenzare la legge del salario, intervenendo nella contrattazione della vendita della forza lavoro, ai prezzi vigenti nel mercato.
In questa logica, i sindacati giovano ai lavoratori, al proletariato, poiché sfruttano le congiunture a favore della classe lavoratrice.
Non è proprio così! – puntualizza Luxemburg. Intanto la richiesta di forza lavoro dipende dallo stadio della produzione, mentre l’offerta è legata al grado di proletarizzazione dei ceti medi e dalla naturale moltiplicazione della classe lavoratrici, così come in questo quadro gioca un ruolo rilevante la produttività del lavoro. In altri termini, tutti questi fattori sono al di fuori della sfera d’influenza del sindacato.
Più che rovesciare la legge dei salari, dice Luxemburg, i sindacati, in condizioni favorevoli o ritenute “normali” possono mitigare il livello dello sfruttamento, ma in nessun caso possono eliminare gradualmente lo sfruttamento. Nel sistema capitalistico, la forza lavoro è e continua a rimanere una merce, il cui prezzo continua a fluttuare e che ha lo scopo di valorizzare il capitale, mediante il processo di scambio.
Ma al contrario di Bernstein, gli occhi di Luxemburg guardano lontano, oltre l’orizzonte dell’ordine esistente, poiché il suo pensiero analitico percepisce che non solo il sistema capitalistico vacilla, ma anche che i “mezzi di adattamento” lo porteranno al tracollo. La crisi del 29 spazzò via la i baldanzosi capitani d’industria e i suoi gregari finanziari, trasformò in un cumulo di macerie le vanità piccolo borghesi, che tracciavano la linea politica del partito socialdemocratico tedesco, partito che non riuscì ad arginare le spinte naziste e impedire la disintegrazione di quel gigante dai piedi di argilla che era la Repubblica di Weimar.
Il nuovo paradigma: lo Stato sociale
L’ILO, nella Dichiarazione di Filadelfia del 1944, (4) con la Seconda Guerra Mondiale in corso, si spinse ad affermare uno dei suoi principi fondamentali: “Il lavoro non è una merce.”
Nel novembre del 1942 ci fu la pubblicazione del “Rapporto Beveridge”, che di fatto si diffuse nel 1943, cambiando, in qualche modo, le sorti del conflitto, sul fronte occidentale.
Sorvolando sulla distinzione tra lavoro e forza lavoro, senz’altro ci troviamo di fronte ad un’espressione dirompente: “Il lavoro non può essere trattato alla stessa stregua delle altre merci.”
Marx, a suo tempo, partiva dal presupposto che la borghesia non avrebbe mai accettato la fine della concorrenza tra i lavoratori e la negoziazione collettiva del salario.
Lo Stato liberale e i capitalisti dell’Ottocento non poteva accettare la contrattazione collettiva del salario, per questi motivi, come spiega Mauro Parretti, la lotta di classe si esprimeva con scioperi che mettevano a soqquadro il sistema produttivo e l’ordine esistente, impedivano ai “crumiri” l’ingresso nei luoghi di lavoro e finivano con l’essere repressi in modo violento. (4)
Nel Novecento, grazie al successo di alcune categorie di lavoratori e lavoratrici, che riuscirono a ottenere un riconoscimento della contrattazione collettiva del salario; tenendo conto dell’ascesa dei partiti socialisti prima e comunisti dopo, nonché dell’appoggio della dottrina sociale della Chiesa, si fece strada l’idea che il lavoro degli operai non era solo una merce, pagata al suo costo di sussistenza.
L’avvento della Grande crisi degli anni Trenta fece peggiorare le condizioni di vita di tutti, in particolare della classe lavoratrice, che fu colpita da elevati tassi di disoccupazione, soprattutto nei paesi capitalistici più sviluppati.
Fu solo all’apice e nel momento più cruento del Secondo conflitto mondiale che un conservatore come Beveridge ammise che il sistema liberale non poteva essere rattoppato: c’era bisogno di un nuovo paradigma, che sgorgava dalle crepe profonde degli assiomi liberisti e che si muoveva nelle falde sotterranee dei rapporti sociali di produzione.
La sintesi dei primi anni del dopoguerra è, per certi versi, quella raccontata da B. Bertolucci, in quel suo bellissimo affresco storico che prende il nome di Novecento, quando Olmo Dalcò, riferendosi alla sconfitta del potere oppressivo dei proprietari terrieri, urla: “Il padrone è morto!”
Ma in qualche fotogramma successivo, il regista fa riapparire Alfredo Berlinghieri, il proprietario terriero, il quale afferma sottovoce: “Il padrone è vivo!”
Dunque, sebbene non si assista “all’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione”, ma solo una limitazione della proprietà privata (Art. 42 della Costituzione), c’è un aspetto importante della nuova organizzazione sociale che conferma lo slancio del principio enunciato con la Dichiarazione di Filadelfia del 1944: il perseguimento e la realizzazione delle politiche di “piena occupazione” superano la condizione del lavoro di merce eccedente sul mercato.
Nel momento in cui fu possibile tenere a bada la concorrenza tra i lavoratori, in quanto non c’era un’offerta di lavoro eccedente, che strutturalmente faceva pressioni sulla prerogativa di tenere bassi i salari, allora, la contrattazione collettiva, sotto la spinta del movimento dei lavoratori, oltre a permettere il trasferimento degli aumenti di produttività ai salari, rese attuabile e praticabile, almeno per un determinato periodo di tempo, il principio – o l’illusione – che il “lavoro non fosse una merce” e se pur ricevesse un corrispettivo in denaro, rimaneva una “variabile indipendente”.
Note
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R. Luxemburg, Riforma sociale o Rivoluzione?, https://www.marxists.org/italiano/luxembur/1899/rif-riv/index.htm;
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Lea Ypi, Dalla riforma alla rivoluzione, https://jacobinitalia.it › dalla-riforma-alla-rivoluzione, 16-01-2019, ;
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. Luxemburg, Riforma sociale o Rivoluzione?
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https://www.ilo.org/media/314366/download
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Mauro Parretti, Le metamorfosi del capitalismo, formazione online, https://www.redistribuireillavoro.it







































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