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Lo Stato della Globalizzazione
Benedetto Vecchi intervista Saskia Sassen
Un'intervista con Saskia Sassen, in Italia su invito de Il Mulino e alla vigilia dell'uscita del suo ultimo libro «Territori, autorità, diritti». Il mutamento dello stato nazionale e l'emergere di una terra di nessuno «né globale né locale» dove si sviluppa l'azione dei movimenti sociali
Un testo ambizioso quello di Saskia Sassen su Territorio, autorità, diritti tradotto da Bruno Mondadori (pp. 596, euro 42. Quando il libro uscì negli Stati Uniti ne scrisse Sandro mezzadra il 3 Febbraio 2007). Ambizioso perché l'autrice si pone due obiettivi: da una parte spiegare la formazione dello stato moderno; dall'altra cercare di definire i contorni e le forze operanti in quel processo che vede lo stato-nazione essere uno dei maggiori protagonisti della globalizzazione, all'interno però di un paradosso: rimanere un protagonista rinunciando ad alcuni aspetti della sovranità nazionale. Per la studiosa di origine olandese vanno quindi respinte le tesi che annunciano la prossima e irreversibile scomparsa dello stato nazionale, ma allo stesso tempo muove forti critiche verso le posizioni che considerano lo stato-nazione l'ultima trincea per respingere l'attacco del capitalismo neoliberista, salvaguardando così le specificità economiche, sociali e politiche «locali», che comprendono gli istituti del welfare state. Né crede, come afferma in questa intervista, che l'attuale crisi economica favorisca una brusca frenata alla globalizzazione. Anzi, considera i provvedimenti presi dai vari governi nazionali, dagli Stati Uniti all'Inghilterra, dalla Germania all'Italia, propedeutici al mantenimento dello status quo, accelerando tuttavia quelle forme di coordinamento sovranazionale che individuano nei governi nazionali lo strumento per applicare localmente decisioni prese a livello globale.
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La globalizzazione? scientificamente infondata e concretamente perversa
Vittorangelo Orati
Esaminiamo i fatti che segnalano il rallentamento della vis capitalistica in termini di performance del ritmo di crescita.
Il primo fenomeno che si impone per la sua rilevanza è quello della progressiva “finanziarizzazione” del tardo capitalismo globalizzato. In termini generali per “finanziarizzazione” deve intendersi la tendenza immanente al capitalismo di ottenere profitto attraverso la riduzione quanto più possibile sino a saltarla, della fase della produzione, della creazione di valore (in realtà plusvalore) o valorizzazione del capitale. Marx la ebbe già ad individuare nella sua vivisezione del concetto di “valore di scambio” in quanto contrapposto al “valore d’uso” di una “merce”. Valore d’uso già in germe metabolizzato dalla logica del capitalismo come incidente necessario per ottenere il massimo profitto.
l teatro ove il fenomeno della finanziarizzazione trova la sua sede elettiva è la Borsa (contro cui si sono schierati i più conseguenti liberali ancorché agli estremi opposti della corrente “interventista” (Keynes) e “antinterventista” (Einaudi), la cui logica essenziale di “circo Massimo” della speculazione, rivelò a Marx il memento mori della carica progressiva del capitalismo nel senso visto.
Propagandato come il più efficiente dei mercati, la Borsa, in cui si acquistano e vendono capitali in forma meramente cartacea, che dovrebbe permettere l’afflusso di risparmio alle imprese direttamente dai risparmiatori senza la mediazione o intermediazione del sistema bancario, è in realtà il più grande Casinò del mondo dove si scommette (al rialzo o al ribasso) sulle sorti delle aziende. Di più, ove si scommette a spirale sugli esiti di tutte le scommesse che si succedono nel tempo futuro (“derivati”). La propaganda a questo punto dice che le “scommesse” fanno da sfigmomanometro della salute economica (produttiva) delle aziende, rappresentata dai loro “titoli” (azioni e/o obbligazioni) in Borsa. La realtà, dice da sempre, che le performance economico-produttiva è il solo giudice di ultima istanza di un fenomeno che nelle sue sublimazioni cartacee in Borsa si alimenta per gran parte di se stesso. Come ebbe a dire Keynes che accumulò una fortuna in proposito, in Borsa non vince chi prevede con sufficiente approssimazione l’andamento reale delle performances economiche delle società quotate, bensì chi indovina l’orientamento della maggioranza dei “giocatori”, che è quello che determina il corso dei titoli, corso mosso, in poche parole, dall’obiettivo di massimizzare la differenza di prezzo tra ciò che si è acquistato e ciò che si vende!
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La grande depressione del XXI secolo: il crollo dell'economia reale
di Michel Chossudovsky
La crisi finanziaria si sta aggravando, con il rischio di scompaginare seriamente il sistema dei pagamenti internazionali. Questa crisi è molto più grave della Grande Depressione. Ne sono interessati tutti i principali settori dell’economia globale. Le ultime voci riferiscono che il sistema delle Lettere di Credito e del trasporto internazionale, che costituiscono la linfa del sistema commerciale internazionale, sono potenzialmente a rischio.
Il “salvataggio” bancario proposto nel cosiddetto Programma di Aiuto dei Beni in Difficoltà (TARP) non è una “soluzione” alla crisi ma la “causa” di un ulteriore crollo.
Il “salvataggio” contribuisce ad un ulteriore processo di destabilizzazione dell’architettura finanziaria. Trasferisce grandi quantità di denaro pubblico, a spese del contribuente, nelle mani di finanzieri privati. Porta ad un aumento vertiginoso del debito pubblico e ad una centralizzazione senza precedenti del potere bancario. Inoltre, il denaro del salvataggio è utilizzato dai giganti finanziari per mettere al riparo le acquisizioni societarie sia nel settore finanziario che nell’economia reale.
A turno, questa concentrazione senza precedenti di potere finanziario conduce al fallimento interi settori industriali e dell’economia dei servizi, portando al licenziamento di decine di migliaia di lavoratori. Le alte sfere di Wall Street sovrastano l’economia reale. L’accumulo di grandi patrimoni di denaro da parte di una manciata di conglomerati di Wall Street e dei loro hedge fund associati viene reinvestito nell’acquisizione di beni reali. La ricchezza di carta viene trasformata nella proprietà e nel controllo dei beni produttivi reali, tra cui l’industria, i servizi, le risorse naturali, le infrastrutture e via dicendo.
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Finale di partita
La moneta fittizia che consuma la fiducia
Luigi Cavallaro
La crisi che ha colpito il capitalismo non è dovuta a una superfetazione della finanza rispetto l'economia reale. La sua genesi va infatti cercata nel ruolo del credito nel funzionamento stesso del sistema capitalistico. Un sentiero di lettura a partire dal crack delle borse
«Questa contraddizione erompe in quel momento delle crisi di produzione e delle crisi commerciali che si chiama crisi monetaria. Essa avviene soltanto dove si sono sviluppati pienamente il processo a catena continua dei pagamenti e un sistema artificiale per la loro compensazione. Quando si verificano crisi generali di questo meccanismo, quale che sia l'origine di esse, il denaro si cambia improvvisamente e senza transizioni: da figura solo ideale di moneta di conto, eccolo denaro contante. Non è più sostituibile con merci profane. Il borghese aveva appena finito di dichiarare, con la presunzione illuministica derivata dall'ebbrezza della prosperità, che il denaro è vuota illusione. Solo la merce è denaro. E ora sul mercato mondiale rintrona il grido: "Solo il denaro è merce!". Come il cervo mugghia in cerca d'acqua corrente, così la sua anima invoca denaro, l'unica ricchezza».
Sostituite alla generica «merce» la parola «derivato» (o magari, se siete esterofili, termini come bond o collateralized debt obligation) e in questo passo del Capitale di Karl Marx avrete una rappresentazione fedele della crisi attuale. Una crisi nient'affatto semplice e che, nonostante tutti si sforzino di non accostare al famigerato 1929, rischia preoccupantemente di assomigliargli, soprattutto per il radicale fraintendimento della sua natura.
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Recensione a Lo Stato dei diritti di Luigi Cavallaro
Luigi Cavallaro, Lo Stato dei diritti. Politica economica e rivoluzione passiva in occidente, prefazione di Giorgio Lunghini, Napoli, Vivarium, 2005, pp. 280, € 32,00. Isbn: 88-85239-92-7.
Fin dal 1859 Marx caratterizzò la società nella quale predomina il modo di produzione capitalistico come una “enorme raccolta di merci”, e la merce singola quale forma nella quale, in tale società, si presenta il prodotto del lavoro. Il concetto di merce all’interno della sistematica marxiana ha un significato fondamentale, dal quale attraverso l’iniziale opposizione di cui essa è sinolo, – valore d’uso e valore – si sviluppa l’intero sistema della critica dell’economia politica.
Proprio prendendo le mosse dalla forma semplice assunta dal prodotto del lavoro, Cavallaro argomenta la necessità di pensare la forma di società, quale si è costituita nei paesi occidentali dal secondo dopoguerra fino verso la fine degli anni settanta, come una società nella quale hanno convissuto conflittualmente due differenti modi di produzione, quello capitalistico della produzione di merci e quello statuale della produzione di diritti.
L’idea forte che sottende tutto il libro è quella
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Le tesi di Bertinotti
Rossana Rossanda
Le tesi che Bertinotti ha presentato in questi giorni (cfr. Matteo Bartocci sul manifesto del 13/11) tentano di superare la collisione tra le due anime di Rifondazione comunista. Lo scoglio su cui urtano non è soltanto loro. E' un punto diventato problematico per tutte le sinistre, moderate o radicali, negli anni '70 e '80, e precipitato con la caduta del muro di Berlino: l'implosione del «socialismo reale» non rende obsoleto il paradigma marxiano della lotta di classe?
Esso aveva sorretto tutto il movimento operaio e pareva confermato dalla rivoluzione del 1917. L'implosione dell'Urss e il capitalismo divenuto sistema unico mondiale davano per finito anche il conflitto sociale. Fine è parola gravida di emozioni. Non alludeva a una attuale impossibilità, ma alla verificata insostenibilità di un errore del concetto stesso che aveva innervato la lotta politica in Europa per oltre cento anni.
«Fine della storia» proclamava Francis Fukujama negli Stati Uniti, «Fine di un'illusione» scriveva Francois Furet in Europa, fine del Novecento hanno scritto in molti, e non solo come del «secolo breve» ma come venir meno delle idee che lo avevano retto, prima di tutte l'affermazione marxiana secondo la quale la libertà politica di ogni cittadino non è possibile finché ne restano disuguali le condizioni. Al contrario, non pochi si sono spostati a sostenere che la libertà di impresa, luogo di condizioni disuguali per definizione, sarebbe la sola garanzia di tutte le libertà.
Non sarà mai sottolineata abbastanza l'influenza che questa ottica, in forme più o meno sottili, ha esercitato su tutte le sinistre. Tanto più che la messa in dubbio del conflitto di classe si dava mentre emergeva la percezione di altri conflitti, due dei quali innovativi: il femminismo, che andava oltre l'emancipazione e l'ecologia come scoperta della devastazione del pianeta ad opera dello sviluppo industriale.
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La sinistra secondo Massimo D’Alema
O è subalterna al riformismo o è inutile
di Dino Greco
In un’intervista a Piero Sansonetti del 30 luglio scorso, Massimo D’Alema, impegnato a contrastare la solipsistica (e autolesionistica) presunzione con cui Walter Veltroni aveva reciso ogni rapporto alla sinistra del PD, svolgeva il seguente ragionamento. Il PD è l’erede del più fecondo patrimonio politico e culturale del PCI: il riformismo. Il PRC, soprattutto quello uscito da Chianciano, rappresenterebbe invece la vocazione minoritaria, la fuga nell’estremismo protestatario, sterile di politica, unito all’arroccamento identitario, figlio di un’altra storia che, in ogni caso, del più grande partito comunista dell’occidente fu la parte più caduca.
Al contrario, D’Alema è propenso a concedere una chance al PRC purchè esso sia disposto ad interpretare il ruolo di una sinistra “compatibile”, enzima edulcorato, stimolo di un centrosinistra rigorosamente imperniato sul PD, utile soltanto in quanto necessario ad evitare che quest’ultimo sia ricacciato nel ruolo duraturo di una strutturale opposizione. Insomma, un PRC visto tutt’al più come contrappeso alle pulsioni più moderate che albergano nel partito di Veltroni. Ma niente di più.
La sinistra, per D’Alema, o è subalterna ad un disegno riformista o non serve a niente.
Ora, alla disinvoltura con cui D’Alema avoca a sé la migliore tradizione comunista si dovrebbe rispondere che non c’è identitarismo più sterile e malato di quello che si nasconde dietro il termine “riformismo”, artifizio letterario verso il nulla, scorciatoia verso la più indeterminata delle formule: la modernità, vero equivoco ideologico. O, per meglio dire, espressione della sudditanza ad un pensiero e ad una pratica politica essi sì ossificati, perché interamente racchiusi nella realtà data, assunta come immutabile nelle sue strutture portanti. Un pensiero di risulta, parassitario, rinunciatario, capace solo di mitigare, correggere, blandire lo stato di cose presente: è il “menopeggismo”, fatalmente nemico non solo del comunismo, nel senso marxiano del termine, bandito dalle categorie dalemiane come un’aporia, ma refrattario ad ogni ipotesi di radicale trasformazione.
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Un paese innamorato del feudalesimo
Considerazioni sulla stabilizzazione monetaria 1992-2008
Pasquale Cicalese*
In memoria di Sbancor
(...) L’intrinseca fragilità dell’equilibrio raggiunto dovrebbe suggerire l’accelerazione dei processi di privatizzazione, il conseguimento di un surplus primario più elevato, il completamento della riforma previdenziale e vincoli di spesa efficaci per le Regioni e gli enti locali. (...) Bisogna recuperare e consolidare i risultati del risanamento (...) stabilizzando il surplus primario a livelli compatibili con una riduzione adeguata del rapporto debito-PIL (...). Ciò comporta fare minore affidamento per la crescita sulla domanda interna. Vincenzo Visco
Think you’ve had enough- Stop talking, help us get ready Think you’ve had enough- Big business, after the shakeup David Byrne, Big Business
1. Sinistri manovratori
Tutto scritto, roba arci-nota, pubblicata nel 2004. Passano due anni. Siamo nella primavera del 2006, o forse nel 1926. Prodi è nuovamente al Governo con una maggioranza risicatissima. Dopo cinque anni di disastri del centro-destra, il centrosinistra non riesce nemmeno ad ottenere una maggioranza solida. Formato il Governo, ritornano l’ossessione deflazionista, le compatibilità con la Commissione Europea e la Banca Centrale Europea, le due istituzioni più antidemocratiche che ci siano nell’eurozona, baluardi dell’imperialismo tedesco. Dopo il banchiere centrale Ciampi, principale responsabile, con Prodi, Amato e Dini, dei disastri economici degli anni ’90, viene nominato al Ministero dell’Economia il bocconiano banchiere centrale Padoa Schioppa. Questi lancia subito l’allarme; i conti pubblici presentano una fortissima criticità, e informa gli italiani che siamo nell’emergenza come nel 1992. A giugno si fa la ricognizione dei conti pubblici con la Commissione Faini. Dopo qualche settimana arriva il verdetto: il deficit/pil nel 2006 è stimato al 4,1%, escludendo una serie di spese non conteggiate. Nello stesso periodo la Corte di Giustizia europea sentenzia che l’iva sulle auto aziendali deve essere detratta, una pillola avvelenata del precedente ministero Tremonti; la spesa prevista è di circa 16,4 miliardi di euro, una batosta.
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Perché Abbiamo la Testa Piena di Elefanti, Padri Severi ed altri Fantasmi
Un esercizio di logica dell’argomentazione
di Girolamo De Michele
Trascrizione della lezione aperta tenuta a Ferrara, Piazzetta Municipale, 11 novembre 2008, ore 17.00
1. George Lakoff in nuce, ovvero: perché non è possibile non pensare all’elefante fucsia (e neanche a Maurizio Gasparri).
Prima di cominciare, vorrei chiederVi di sottoporvi a un breve esperimento mentale. Qui davanti a me c’è una sedia vuota: vi chiedo di non pensare, per 15 secondi, che a questa sedia siano seduti un elefante fucsia e Maurizio Gasparri. Potete pensare a qualsiasi altra cosa, ma non all’elefante e a Gasparri.
[seguono 15 secondi di silenzio]
Fatto? Bene: vedo dalle vostre facce che non ci siete riusciti. Non per mancanza di volontà: non era possibile che ci riusciste.
La prima parte di questa lezione è la spiegazione del perché. Per brevità farò affermazioni apodittiche, di cui mi scuso: in prossime occasioni [o utilizzando la bibliografia in appendice, n.d.a.] potremmo forse approfondire questi argomenti.
Quando parliamo, i nostri linguaggi riflettono la nostra visione del mondo. Questa visione si concretizza in insiemi concettuali, o frame, che veicolano una metafora: usare un linguaggio che riflette la propria visione del mondo è ciò che George Lakoff chiama framing. Queste metafore si radicano nel profondo della nostra mente, ed hanno la caratteristica di rimanervi anche quando i contenuti che veicolano sono andati via. Lakoff sostiene che il radicamento è addirittura sinaptico: possiamo dubitarne, ma non è poi necessario arrivare a questo livello neuro-linguistico per accettare il fatto che le metafore restano anche quando i contenuti sono andati via. Come l’immagine dei due animali che vi ho messo davanti agli occhi, e che non andava via anche quando voi cercavate di non pensarci.
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Per la critica della democrazia politica
di Mario Tronti
Avete fatto molto bene ad assumere il tema della democrazia attraverso una riflessione lunga, attraversandolo dal punto di vista teorico e attraverso gli autori che lo hanno approfondito. E concordo anche sulla preoccupazione che c’è nell’assumere questo tema attraverso una formula così decisa: per la critica della democrazia. Avete detto senza aggettivi. In realtà se dovessimo comporre tutta la definizione dovremmo dire: per la critica della democrazia politica. Che non è una aggiunta come le altre, ma è la specificazione del tema. E io la assumo in assonanza ad un’altra formula che è molto attinente a questa, molto simile, possiamo dire quella originaria. Voglio insistere sulla critica, che è poi la mossa marxiana che ha assunto l’atteggiamento alternativo e antagonistico verso la società capitalistica. L’assonanza è appunto per la critica dell’economia politica. Dirò poi del nesso che vi è tra democrazia ed economia, di come sia cresciuto e si sia sviluppato fino ad una sorta di scambio e nello stesso tempo di identificazione tra le due dimensioni.
Dire critica non è solo l’assunzione della formula, ma anche del metodo. Perché quando Marx diceva per la critica dell’economia politica, come sappiamo, assumeva tutta la tradizione teorica dell’economia politica, quando attraversava e faceva il grande lavoro anche di lettura dei testi degli economisti classici. Questo in un doppio senso: faceva sì critica di quell’elaborazione, ma assumendo poi contemporaneamente la sostanza del discorso. Per la critica dell’economia politica per lui voleva dire formulare la struttura della sua opera maggiore, Il capitale, nonché di tutti gli studi che lo precedevano, che usciranno come Grundrisse. C’era questo doppio livello: impegnarsi in qualcosa che deriva da una lunga storia moderna significa criticarla e assumerla come propria.
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La rivolta del lavoro cognitivo
Marco Bascetta
Forse i media non se ne sono ancora resi conto fino in fondo. Sicuramente il governo, l'opposizione parlamentare e perfino i sindacati sono ben lontani dal percepire quale sia la reale portata di questo movimento. Basterebbe ascoltare, in una qualsiasi delle sue articolazioni, l'assemblea nazionale degli studenti ancora in corso all' Università di Roma per capire che si tratta di una rivolta generale del lavoro cognitivo contro i dispositivi di sfruttamento subiti nei due decenni trascorsi. Contro quella condizione di frammentazione e ricattabilità imposta dall'ideologia e dalla pratica coatta del «capitale umano». Contro quell'idea gerarchica, piramidale, anacronistica della produzione e trasmissione del sapere che l'abusato termine di «meritocrazia» contiene già nella sua etimologia. Sono, quelle che abbiamo sentito riecheggiare nelle aule della Sapienza, le rivendicazioni e il programma di un soggetto che si sente pienamente forza produttiva e non, come lo si vorrebbe, una clientela chiamata all'acquisto della merce formazione. Si chiedono reddito, risorse, potere di decidere
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Politica economica europea
Le riforme necessarie contro crisi finanziaria e recessione
di Ferdinando Targetti
Introduzione
In presenza di libertà di movimenti di capitali i problemi di stabilità finanziaria e di equilibrio macroeconomico mondiale, non possono essere risolti a livello nazionale. A fronte di mercati internazionalizzati il semplice coordinamento è insufficiente, bisogna passare ad un livello di governo sovranazionale.
Questo è oltremodo difficile da conseguire a livello mondo e attribuire ad un organismo mondiale un ruolo di regolatore con poteri amministrativi è irrealistico, così come è irrealistico pensare ad un Tesoro mondiale, anche se c’è molto da fare sul piano di riforma del Fmi e di rafforzamento delle sue capacità di sorveglianza sulla stabilità dei mercati finanziari e sul superamento degli squilibri macroeconomici globali. Tuttavia un passo avanti verso un più corretto processo di governance dell’economia globale può essere realizzato da noi europei.
Finora la politica economica dell’Europa si era limitata alla indipendenza della Bce, al Patto di stabilità e all’uso del bilancio pubblico prevalentemente per la politica agricola comune. Tutto questo è largamente insufficiente sia per finalità di crescita, sia per finalità anticrisi. La risposta europea alla globalizzazione dei mercati e alla crisi finanziaria deve articolarsi in una serie di riforme economiche che si affiancano a quelle politiche e che richiedono, entrambe, la disponibilità a consentire da parte degli Stati nazionali deleghe di sovranità indispensabili per tradurre in pratica obiettivi che appaiono condivisi.
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Prime note per la riflessione dell'Onda
di Franco Piperno
Un’altra università non vuol dire l’università del futuro
1. L’Onda sta mutando la sua fase
Con la massiccia concentrazione del 14 novembre su Roma, si compie un ciclo del movimento, il primo. Tutto era cominciato con un decreto romano, illiberale e statalista che, trattando la formazione come un costo piuttosto che un investimento, tagliava drasticamente la spesa pubblica per scuola e università. Il 14 novembre è così la risonanza sociale provocata da quel decreto.
Ma tanto la pluralità quanto i numeri coinvolti testimoniano, con tutta evidenza, che l’Onda ha già prodotto una eccedenza che è fuori misura rispetto al gesto che l’ha provocata.
In altri termini l’orizzonte parasindacale incentrato sulla questione dei tagli risulta ormai limitato, anzi asfittico; ed emergono forme di vita attiva che hanno compiuto l’esodo dalla temporalità moderna dove il futuro è vissuto nel modo dell’attesa (nuove riforme, nuovi governi, nuove scienze, nuove ricerche, nuovo mondo ecc.) e s’impegnano «a strappare la felicità al futuro» praticando qui e ora il terreno della critica alla divisione disciplinare del sapere: la prassi dell’autoformazione ovvero un’altra università, in grado di richiamarsi all’origine, all’autonomia e unità del sapere.
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La 133 viene ritirata? La vostra condizione non cambia
E’ questa condizione che dovete cambiare
di Sergio Bologna
Nello spirito del ’68 – senza nostalgie nè tormentoni (dopo un incontro all’Università di Siena, organizzato dal Centro ‘Franco Fortini’ nella Facoltà di Lettere occupata, il 6 novembre 2008)
State vivendo un’esperienza eccezionale, l’esperienza di una crisi economica che nemmeno i vostri genitori e forse nemmeno i vostri nonni hanno mai conosciuto. Un’esperienza dura, drammatica, dovete cercare di approfittarne, di cavarne insegnamenti che vi consentano di non restarvi schiacciati, travolti. Non avete chi ve ne può parlare con cognizione diretta, i vostri docenti stessi la crisi precedente, quella del 1929, l’hanno studiata sui libri, come si studia la storia della Rivoluzione Francese o della Prima Guerra Mondiale.
Ho letto che l’Ufficio di statistica del lavoro degli Stati Uniti prevede che nel 2009 un quarto dei lavoratori americani perderà il posto.
Qui da noi tira ancora un’aria da “tutto va ben, madama la marchesa”, si parla di recessione, sì, ma con un orizzonte temporale limitato, nel 2010 dovrebbe già andar meglio e la ripresa del prossimo ciclo iniziare. Spero che sia così, ma mi fido poco delle loro prognosi. (dopo un incontro all’Università di Siena, organizzato dal Centro ‘Franco Fortini’ nella Facoltà di Lettere occupata, il 6 novembre 2008).
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Il liberismo è una fantasia
di Riccardo Bellofiore
Dopo il fallimento di tutte le strategie messe in campo nell'ultimo decennio, oggi la sinistra, in specie in quella "comunista", ha bisogno di andare a fondo nell'analisi. Cosa non scontata né semplice, perché significa rimettere in discussione letture del capitalismo contemporaneo e dei rapporti di classe politicamente inefficaci, oltre che rozze e ripetitive in molti casi. E rimettersi in discussione fa paura, come evidenzia lo stato desolante della discussione politica dentro e fuori Rifondazione Comunista dopo le elezioni, in cui ci si divide sull'inessenziale e non si affrontano i nodi di fondo.
In un recente articolo (Liberazione, 29 ottobre 2008) Luigi Cavallaro utilizzando la visione del capitalismo di Hyman P. Minsky - un autore, scrive, "il cui nome si ode nuovamente in questi giorni" - ci mette in guardia da chi riduce la crisi recente a conseguenza di una euforia irrazionale e non della "furia liberalizzatrice" degli ultimi due decenni. Le citazioni di Minsky ormai sono una valanga. Dal marzo 2007 si è tornato a parlare dell'approssimarsi di un "momento Minsky", e poi del rischio di un "collasso Minsky" del capitalismo. Questo sorprendente interesse alla riflessione dell'economista statunitense è venuta da subito da opinionisti tanto neoliberisti quanto social-liberisti, e non solo da circoli eterodossi.
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La moneta di conto
Intervista a Massimo Amato e Luca Fantacci*
L’incredibile vicenda dei mutui subprime, alla cui origine c’è la rescissione di ogni rapporto tra debitore e creditore. Il paradosso di una finanza che non riesce a pensare il suo oggetto, la moneta. La proposta originale e “pacifista” di Keynes, rimasta inascoltata a Bretton Woods
La crisi che stiamo vivendo appare contemporaneamente molto profonda nei suoi effetti e poco chiara nelle sue origini, partiamo da qui?
Luca Fantacci. Questa crisi, che è nata in un settore circoscritto di un paese specifico e si è poi estesa anche ad altri settori e ad altri paesi, viene definita come “crisi di liquidità” o “crisi dei subprime”, dove il termine subprime si riferisce a strumenti finanziari nuovi, che miravano ad estendere l’accesso al credito a strati sempre più estesi, in particolare per consentire l’acquisto della prima casa. L’aspetto problematico della faccenda, quello che è poi esploso con la crisi, è stato il modo in cui questo credito è stato erogato. Possiamo, infatti, convenire che permettere di acquistare una casa a chi non l’ha e non se la può permettere sia un obiettivo sociale condivisibile, ma il problema è che questo accesso è stato consentito a credito anche a persone che non avevano nessuna possibilità di generare un reddito tale da ripagare quel credito. Le banche, infatti, erogavano un credito nella prospettiva che potesse essere remunerato e riscattato non a partire dal reddito del debitore, e quindi dal suo lavoro, ma dall’incremento del valore di mercato della casa.
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La psicologia degli uomini d'affari
Intervista a Giorgio Lunghini*
Una crisi, quella finanziaria, che parte da lontano, per poi arrivare alla new economy e alla fine, forse, ai mutui subprime. Una globalizzazione che doveva portare benefici per tutti e invece ha creato crescenti disuguaglianze. Una lezione, quella di Keynes, che è stata del tutto dimenticata.
Come si è arrivati a questa crisi?
E’ una storia abbastanza lunga. Molti pensano che si tratti di una bolla finanziaria esplosa con una crisi sui mercati azionari. In realtà credo che questa sia l’ultima, per il momento, fase di una crisi che aveva colpito gli Stati Uniti da molto tempo e che era stata rinviata grazie a provvedimenti sostanzialmente di Greenspan, allora governatore della Federal Reserve che era riuscito a spostare via via la crisi da un mercato all’altro.
Il contesto nel quale queste crisi nascono e hanno questo epilogo è naturalmente quello della globalizzazione. La globalizzazione era stata vista a lungo come un fenomeno positivo che avrebbe portato prevalentemente benefici e questi benefici avrebbero riguardato un po’ tutto il mondo. Così non è.
La cosa importante da mettere in luce è che la globalizzazione è stata a sua volta un tentativo di reagire e di contrastare crisi precedenti, come già era successo con la globalizzazione degli anni ’15-20, a cui seguì la crisi del ’29 e dei primi anni Trenta. La crisi alla quale questa globalizzazione ha cercato di reagire è la crisi del modello fordista, che a sua volta era stato una reazione -prima americana poi europea- alla crisi degli anni Trenta.
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L'operazione è riuscita, il paziente è morto
Ruggero Paladini
L'osservazione delle altre crisi mostra che non si riassorbono da sole, è indispensabile uno stimolo pubblico per l'economia, tornando per esempio alle indicazioni del piano Delors. Se l'Europa insisterà a perseguire il pareggio di bilancio la recessione si aggraverà
Il 14 ottobre i giornali portavano due notizie: il premio Nobel a Paul Krugman e la dichiarazione di Berlusconi: “Bush passerà alla Storia”. Curioso accostamento, perché mentre per il nostro (purtroppo!) premier la Storia dovrebbe considerarlo un grande presidente, per l’economista la valutazione è esattamente opposta; la scelta tra Krugman e Berlusconi in effetti non è difficile. Il Nobel è stato assegnato a Krugman per i suoi lavori sul commercio internazionale, ma l’economista è da anni un editorialista del New York Times, da dove spara ad alzo zero sull’amministrazione Bush, da posizioni tipicamente keynesiane. E’ possibile che la stessa attribuzione del Nobel sia stata favorita dallo scoppio della crisi finanziaria.
Il nome di Keynes è tornato sulle pagine dei giornali, così come il paragone tra il “ventinove” e la crisi attuale. Lo scoppio di una bolla è ovviamente un elemento in comune alle due crisi, ma la lezione principale che la grande depressione ci ha dato è che, una volta esauritasi la bolla, il mercato non è in grado di risollevarsi da solo. Anche dopo gli interventi europei volti a rianimare il mercato del credito interbancario, siamo ben lontani dal ripristino di condizioni normali, anche se i tassi euribor hanno incominciato a flettere; del resto Stefan Ingves, attuale governatore della banca centrale svedese, che organizzò il salvataggio delle banche degli anni novanta, ha affermato che ci sono voluti tre anni per tornare alla normalità (e quindici anni perché il Tesoro svedese recuperasse i tre punti di Pil impegnati nel salvataggio delle banche).
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Obama e il disincanto. Un profilo antropologico
di Mcsilvan
Agli inizi del secolo scorso, la celebre prognosi di Weber sulla demagicizzazione del mondo definiva la comprensione di un processo secolare di crescita del disincanto nelle società occidentali quanto delle serie incomprensioni del fenomeno. Weber fissava, con delle categorie legate alla comprensione dei lunghi processi storici, il processo dello sgretolamento della presa del potere del magico e del sacro di tipo religioso sulla significazione dei fenomeni, sull’interazione sociale e sulla concezione del futuro. L’analisi weberiana sul quel processo di secolarizzazione, che riguardava non solo lo stato ma le radici stesse della società, è rimasta in questo senso un classico ineludibile. Ma, proprio a partire dall’analisi weberiana si sono registrate significative incomprensioni dei fenomeni politici non solo del ‘900 ma anche dell’epoca che stiamo attraversando. Infatti la crisi, definita irreparabile, della trascendenza nelle società contemporanee non solo ha di fatto semplicemente spostato i confini del trascendentale (dall’aldilà religioso all’aldiquà storico) ma ha anche ridefinito i poteri del sacro e del magico ricollocati entro questo nuovo spazio trascendentale ristrutturando i riti attraverso i quali questi poteri si riproducono. La capacità di attrazione del sacro e del magico, che ridefiniscono i tratti di ciò che è straordinario in una società oggi a prescindere dall’esistenza del divino, non rinvia quindi la fonte del proprio potere all’aldilà ma la colloca come un’ombra appena sopra un aldiquà che nel ‘900 fino ai nostri giorni è stato spesso marcato dalla politica che ha prodotto così una nuova dimensione trascendentale.
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Stato e mercato, un rapporto da ripensare
Felice Roberto Pizzuti
Evitare anche fughe oniriche in altri mondi indefiniti, ma anche i complessi che hanno portato una parte della sinistra ad essere più “realista del re” in tema di liberismo. Nessuno sa ancora come si evolverà la crisi, ma questi problemi devono essere al centro del dibattito
Per le dimensioni qualitative e quantitative che la crisi finanziaria ed economica in corso ha già assunto finora (non sappiamo come andrà a finire) possiamo dire che questa è la terza grande crisi degli ultimi ottant’anni, dopo quella del ’29 e quella degli anni ’70 normalmente associata agli shock petroliferi. Non sarà la fine del capitalismo (anche perché non si vede da cosa e ad opera di chi oggi sarebbe sostituito), ma sicuramente sta crollando la forma che era andato assumendo negli ultimi tre-quattro decenni.
Così come si sta manifestando, la crisi attuale ha origine nella vorticosa moltiplicazione delle attività finanziarie avvenuta negli ultimi decenni, nel loro collegamento sempre più flebile con la base patrimoniale su cui si regge la “leva” di creazione delle attività creditizie che è fortemente cresciuta, sulla riduzione delle garanzie richieste per la concessione dei crediti e sul progressivo allentamento delle regolamentazioni e della vigilanza delle imprese operanti nel settore. Si può pensare ad una piramide rovesciata in continua espansione, poggiata su una base relativamente sempre più ristretta e con strutture interne sempre meno adeguate ed affidabili.
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Scene da un patrimonio… che non c’è più: banche e non solo.
di Vladimiro Giacchè
“Quando la musica si fermerà le cose diventeranno complicate. Ma fintantoché la musica dura, devi restare in piedi e danzare. Stiamo ancora danzando”
(Chuck Prince, amministratore delegato di Citigroup, 10 luglio 2007 [Chuck Prince è stato licenziato nel novembre 2007])
“In questi anni eravamo andati troppo oltre. L’ingordigia dei banchieri, soprattutto americani, ha fatto sì che le banche siano state distruttrici di ricchezza” (Luca Cordero di Montezemolo).
Continuiamo a leggere cose del genere. Le spiegazioni psicologico-moralistiche hanno avuto e hanno tuttora largo corso in questa crisi: ancora il 12 novembre scorso sul Financial Times essa era addebitata nientemeno che alla “fragilità umana” (sic!). Una settimana dopo, un articolo pubblicato sullo stesso giornale giustamente attaccava la parzialità di spiegazioni basate unicamente su “regolatori lassisti, agenzie di rating disattente, e istituzioni finanziarie avide”.1 Lassismo, disattenzione, avidità: sono tutte motivazioni psicologiche. Chi può seriamente pensare che un cataclisma che ha già fatto perdere alle sole banche 1.000 miliardi di dollari abbia questa origine? È l’entità stessa della crisi, e la sua drammatica accelerazione, a confutare i tentativi di minimizzarne la portata e di spiegarla facendo ricorso a fattori psicologici o morali.
Ovviamente, l’utilizzo di spiegazioni psicologiche della genesi della crisi è del tutto coerente con l’economia neoclassica, tuttora egemonica. Così come lo è l’impostazione secondo cui gli attuali sviluppi della crisi sarebbero dovuti ad una “perdita massiccia di fiducia da parte degli investitori e dei consumatori”, come ha ripetuto ancora di recente il commissario europeo Günther Verheugen. Sono tutte sciocchezze. Le vittime più illustri di questa impostazione riduttiva, che vede soltanto errori e imprudenze individuali, sono stati il governatore della Federal Reserve Bernanke e il ministro del Tesoro Usa Paulson: di fatto il loro approccio di intervento “caso per caso”, durato sino al fallimento di Lehman Brothers, nasceva proprio dall’ostinato aggrapparsi all’idea di una crisi nata da imprudenze individuali commesse da alcune banche e dai loro manager e dal rifiuto di riconoscere che i problemi erano invece strutturali.2
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Il capitalismo sotto la tenda a ossigeno
di Jean Paul Fitoussi
Il capitalismo sotto la «tenda a ossigeno». L’espressione è di Joseph Schumpeter, e sta a designare l’economia mista, le cui condizioni a suo parere non potevano che essere flebili. Fu contro quest’anomia che la cosiddetta rivoluzione conservatrice diede battaglia, alla svolta degli anni 1970-1980. A un dato momento (1984) c’è stato persino chi ha esclamato: «Viva la crisi!». Era«soltanto» l’insorgenza, in tempi di pace, di una disoccupazione di massa; una pura e semplice crisi occupazionale! Per parte mia, non sono disposto ad associarmi agli entusiasti della crisi finanziaria, precisamente in ragione dei suoi potenziali effetti sull’occupazione. Se ho fatto riferimento a quel periodo è perché il 1984 è stato l’anno della conversione (coincidenza o conseguenza?) della maggior parte dei Paesi europei, Francia in testa, alla deregulation finanziaria (lo smantellamento della tenda a ossigeno). Oggi, dopo più di due decenni, un’esigenza di segno diametralmente opposto è ribadita insistentemente in tutti i discorsi, e tradotta in fatti concreti. Chi avrebbe immaginato allora che la nazionalizzazione, sia pure parziale, si sarebbe rivelata la miglior via d’uscita da uno stato di crisi, persino nei Paesi anglosassoni? Come si è arrivati a questo punto? La storia, a un tempo banale e complessa, è ricca di insegnamenti.
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Il codice della continuità
La crisi tra passato e presente
Ugo Mattei
L'altalena delle borse non coincide con la fine del capitalismo, ma con un suo assestamento per riportare ordine e integrare così le periferie dell'impero. La crisi letta attraverso le tesi di Guy Debord sulle «società dello spettacolo»
Provare ad utilizzare le categorie di Guy Debord per riflettere sulle grandi trasformazioni in corso apre percorsi di ricerca che possono essere solo accennati in un articolo, ma sui quali occorrerà tornare in futuro. È noto come il «dottore in nulla» nella sua Società dello Spettacolo avesse introdotto due modelli contrapposti, lo «spettacolo concentrato» proprio delle società totalitarie e dittatoriali, e lo «spettacolo diffuso» proprio delle democrazie occidentali, dominate dal consumismo. Successivamente nei Commentari, scritti nel bel mezzo del terremoto che fece crollare la più spettacolare epifania dello spettacolo concentrato (l'Urss), Debord tracciò il percorso che avrebbe portato alla nascita di ciò che definì «spetacolo integrato». Il crollo del modello sovietico e l'apparente discioglimento dell'equilibrio del terrore avrebbero necessariamente trasformato le «democrazie occidentali», togliendo loro ogni incentivo alla virtù (o alla «moralità» per dirla con Laura Pennacchi). Il sistema si sarebbe così trasformato in una combinazione fra i due modelli precedenti, uno spettacolo integrato caratterizzato da cinque punti: «Il continuo rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente».
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Perché ancora Marx
di Marcello Musto
Nel corso delle ultime settimane, da quando la crisi finanziaria internazionale si è sviluppata così violentemente da sradicare, con le furie dei propri venti, non solo alcune delle più grandi istituzioni del capitalismo americano, ma lo stesso modello neoliberale spacciato come pensiero unico fino a pochi mesi fa, tutti i principali quotidiani internazionali, non importa se di tendenza riformista o liberale, hanno reso omaggio a Karl Marx e alle sue tesi. Egli è ritornato a essere citato negli editoriali dei maggiori quotidiani finanziari mondiali e a essere ritratto sulle copertine di diffusissimi e autorevoli settimanali di Stati Uniti ed Europa.
Alcuni di questi hanno sostituito il viso della Statua della libertà con un profilo soddisfatto di Marx, mentre l'Economist di due settimane fa raffigurava il presidente francese François Sarkozy, in visita a New York, intento a leggere avidamente una copia de Il capitale mentre, sullo sfondo, i palazzi di Wall Street crollavano inesorabilmente.
In tutte le descrizioni e le immagini in cui ho visto ritratto Marx durante queste settimane, egli appariva sempre sorridente e, nonostante il passar degli anni, mi è sembrato piuttosto in forma, anche quando a fare i conti con le sue analisi erano giornalisti che non possono certo essere definiti suoi seguaci.
È per questo motivo che sono rimasto davvero perplesso quando ho letto, invece, proprio sul quotidiano di Rifondazione Comunista, in un articolo a firma del suo direttore Sansonetti sulla crisi del capitalismo e la manifestazione dell'11 di ottobre (che ha visto sfilare 300.000 partecipanti ed è stata definita da tutti a sinistra come un successo), le seguenti parole: “Non mi pare che ci sia altra via percorribile se non quella di ripartire da zero”; non bisogna “pensare per dogmi”, ma “capire che il marxismo, che è una gigantesca teoria politica, non è più sufficiente”.
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La grande crisi dei mutui spazzatura
di Giorgio Gattei
Nel 2001, quando al collasso della new economy si è aggiunto l'attentato terroristico dell'11 settembre, gli Stati Uniti se la sono vista brutta. Che potesse prendere piede una economia della paura capace di bloccare la crescita futura del PIL? A rimedio la scienza economica consiglia di aumentare i consumi delle famiglie mediante l'aumento dei salari (che vanno però a discapito dei profitti), di favorire gli investimenti delle imprese con l'abbassamento dei tassi di interesse, di aumentare la spesa pubblica anche in deficit spending, ossia senza copertura finanziaria.
E se in quest'ultimo caso i incontrano difficoltà politiche insormontabili, c'è sempre la spesa militare che non ha mai sofferto d'opposizione.
Sulla base di queste opzioni il governo di Bush «il piccolo» ha scelto da subito la via della guerra (prima in Afghanistan e poi in Irak), avendo per obiettivo il rilancio del PIL mediante le commesse belliche e la riduzione del prezzo del petrolio che si sarebbe guadagnata quando, a vittoria conseguita, sarebbero affluite sul mercato le ingenti riserve irakene. Ma pure la Federal Reserve ha fatto la sua parte abbassando il tasso di sconto dal 6,5% del gennaio 2001 all'1% del giugno 2003. Tuttavia qui è stata necessaria una modifica rispetto alla teoria, perché in epoca di globalizzazione non si poteva più fare tanto affidamento sugli investimenti delle imprese che, avendo delocalizzato all'estero dove il costo della manodopera è più basso, col credito concesso avrebbero investito sì, ma all'estero.
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