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materiali resistenti

Una storia impossibile: Gli Autonomi I, II e III. Aspettando il IV volume...

di Marcello Tarì

E parlavano di lui, scrivevano di lui / lo facevano più bamba che bambino / e parlavano di lui, scrivevano di lui / sì ma lui rimane sempre clandestino.
Gianfranco Manfredi, Dagli Appennini alle bande

Vi è un trito luogo comune delle scienze storico-antropologiche in cui si sostiene che solo una volta messe a distanza (in senso temporale o spaziale, innanzitutto, ma anche soggettivamente) si è in grado di indagare le vicende umane, ovvero riproducendole in quanto altro da noi. La Storia, indubbiamente, è uno dei più potenti dispositivi di produzione dell'alterità, nella sua capacità di separare ciò che è stato da ciò che è proiettandolo in un altro tempo, in un altro spazio, in un altro mondo. Ma l'alterità è una finzione, un trucco epistemologico tramite il quale lo storico e l'antropologo occidentale hanno provato nella modernità a collocare nello spazio dei saperi dominanti ciò che era ai margini dello sviluppo, ai bordi della norma, fuori dalla governabilità. In realtà non c'è mai nessun altro così come non vi è identità, se non in quanto produzioni di una epistemologia che nel moderno è stata quella del capitale armato. Tutte le lotte e i conflitti che hanno attraversato la modernità sono stati in questo senso altrettanti squarci inferti a quel sistema dei saperi; almeno questo lo si è capito, da una parte e dall'altra. Gli Autonomi e le Autonome hanno rivendicato la possibilità di non essere più l'Altro del/nel potere, l'Altro del/nel capitale, l'Altro della/nella società, bensì una densa, presente, possibilità di vita dislocata nel fuori di ogni dentro. Comunismo ora, qui: adesso o mai più. E se proprio un Altro doveva esserci, ebbene che lo fosse il padrone.

Anche a proposito della storia degli anni Settanta, o meglio, della sovversione negli anni Settanta in Italia, si è detto spesso che essa non potesse essere fatta se non dopo aver guadagnato una “giusta distanza” dagli avvenimenti, pur anche nel senso di far finire quella vicenda attraverso un'amnistia o comunque una qualche misura giuridica che mettesse la parola fine su quegli eventi consegnandoli così se non alla Storia quanto meno all'oblio. Sarebbe stata una amnesia positiva, liberando tutti dall'incubo ricorrente della giustizia ipermnesica.

Sappiamo tutti però che quella parola non è mai arrivata, che la “giusta distanza” non si è mai rivelata e che i sovversivi piuttosto che divenire delle alterità sono rimasti dei clandestini, nonostante gli sforzi per dargli una improbabile quanto stupida visibilità che li avrebbe consegnati definitivamente al passato, al mai più. E questi tre volumi, che ripercorrono comunque la vicenda degli Autonomi e delle Autonome, credo ci dicano che quella distanza che permetterebbe di farne veramente la Storia non solo non si è data ma è impossibile: Gli Autonomi volumi I, II e III non sono in alcun modo dei libri di Storia bensì, al limite, un possibile concatenamento storico in divenire. Non vi siete mai chiesti, al proposito, come mai i libri che raccontano vite, esperienze, desideri autonomi – quattro “a caso”: Taci, anzi parla. Diario di una femminista di Carla Lonzi, Insurrezione di Paolo Pozzi, L'ultimo sparo di Cesare Battisti e La banda Bellini di Marco Philopat – hanno prodotto molto più senso tra i giovani lettori che centinaia di saggi sociologici sulla stagione d'oro dell'Autonomia? Forse perché alludono, a differenza degli altri, a una «memoria pratica» raccontando di scioperi selvaggi e sabotaggi veri, di assemblee fatte di presenze e di giornali nel movimento, di amori e amicizie che non erano altro dalla politica, di differenze e separatismi, di nastri di molotov nel cielo della metropoli e di espropri lussuossisimi, di rapine in stile western e sparatorie contro le vetrine del capitale. In una parola sono riusciti a dare un'idea della forma di vita autonoma, piuttosto che perdersi in moralistiche analisi socio-culturali.

Uno dei meriti de Gli Autonomi I, II e III è infatti stato quello di mescolare gli stili, di rompere continuamente la narrazione attraverso un continuo cambio di registro stilistico che restituisce, anche se non completamente ma questo è un altro discorso, la pluralità irriducibile di quella insorgenza. Il titolo è in questo senso rivelatore, non c'è un'Autonomia come soggetto storico da cristallizzare in un racconto lineare bensì degli Autonomi e delle Autonome che hanno praticato un movimento, mimato un gesto comune, abitato un piano di consistenza: una molteplicità di divenire che si separavano dalla maledetta totalità del dominio, dalla società in quanto insieme dei governati, da ogni ruolo e identità ascritti, persino da quella di militanti di organizzazioni supposte rivoluzionarie. Autonomia è stato questo movimento di separazione dalla totalità capitalistica mentre ne disgregava ogni sua manifestazione nel quotidiano, nella microfisica del dominio, nell'economia politica della vita. Non ricorrono quasi mai nei discorsi autonomi le parole d'ordine del tipo “unità”, proprio perché essi sono la molteplicità di forze che la disgrega. Perché il piano di composizione delle forze procede non verticalmente – dal partito alle masse – e nemmeno nell'orizzontalità democratica – da individuo a individuo – ma per condivisione di una forma di vita: non una comunità radicata in un territorio, ma della comunità che circola, separandosi e moltiplicandosi, assembrandosi e poi ridividendosi per colpire ovunque. Vale qui quello che scriveva Carla Lonzi nel suo Sputiamo su Hegel: «Noi cerchiamo l'autenticità del gesto di rivolta e non la sacrificheremo né all'organizzazione né al proselitismo».

Una desoggettivazione selvaggia che si risoggettivava solo nei lampi del conflitto, non la produzione di nuovi soggetti al lavoro o al partito: rifiuto del lavoro, rifiuto dello Stato, rifiuto della famiglia, rifiuto della disciplina, rifiuto del patriarcato, rifiuto della cultura, rifiuto di tutto quello che la modernità capitalistica e socialista aveva costruito come dispositivi di soggettivazione. Si lotta per non essere più ciò che si era sempre stati costretti ad essere, non per confermarne l'identità per sempre. Il passamontagna per cancellare ogni segno di individuazione. Solo rumori, suoni, odori, sensazioni, flussi. La produzione di una soggettività nuova, con una sua verità, sarebbe stata possibile solo una volta create le condizioni comuni che ne avrebbero impedito un altrettanto nuovo assoggettamento. Stiamo ancora cercando.

É impossibile consegnare questo rifiuto, questo gesto della sovversione, al «bordello dello storicismo». La sconfitta storica dell'Autonomia, di fatto, non si è tradotta mai in una sua scomparsa definitiva. Anzi, della stagione degli anni Settanta è l'unica esperienza pratico-teorica che nella sua molteplicità rimane come paradigma ancora agente e per questo non ne se ne dà Storia, resiste al divenire-passato, si rifiuta di essere l'Altro da noi. Autonomia è ancora il nome che indica l'attualità del comunismo. E l'affanno con cui si cercano oggi sostituti nuovi-vecchi alla parola Autonomia sono tutti di corto e cortissimo respiro perché non sono espressioni di un piano di consistenza, gli manca la forza, il desiderio, la vita stessa, sono patetici nella loro assenza a sé prima ancora che agli altri. Il problema non è la sostituzione ma l'invenzione, non la capacità di riterritorializzarsi ma di aprire falle ovunque, non la gestione ma l'insurrezione, non la transizione ma la rivoluzione. In ogni caso questi tentativi, per quanto maldestri, sono un'altra evidenza dell'impossibilità di rendere alla Storia quell'avventura. L'Autonomia è ancora da pensare, gli Autonomi e le Autonome hanno ancora da vivere.

Interrogare questa impossibilità e questo rifiuto dell'alterificazione storico-antropologica è ciò che ci permette di rendere conto di questo strano senso di contemporaneità con quella determinata esperienza e che sempre ritorna nei nostri discorsi e nella nostra immaginazione, una precipitazione temporale a cui forse non è estranea appunto la forma letteraria, allegorica e quindi paradigmatica, che spessissimo accompagna quelle immaginazioni e quei discorsi.
Gli Autonomi e le Autonome come ingovernabili flussi di sovversione piuttosto che come “soggettività” a tutto tondo, come cesura antropologica dalla quale nasce una inedita forma di vita piuttosto che come formidabile “organizzazione”, come desiderio dispiegato piuttosto che come “programma”, come possibilità di interrompere la Storia piuttosto che dargli “continuità”, come latenza dell'insurrezione piuttosto che come “innovazione”. L'Autonomia come paradigma vivente di una rivoluzione possibile proprio perché disattiva attraverso una forma di vita tutti i significati che a quel significante erano stati conferiti dai sacerdoti dell'ortodossia comunista, intra ed extra parlamentare. L'Autonomia-paradigma, dunque, come «movimento che va dalla singolarità alla singolarità e che, senza uscire da questa, trasforma ogni singolo caso in esemplare di una regola generale che non è mai possibile formulare a priori» (Agamben). Ogni Autonomia – degli operai, dei giovani, delle donne, degli omosessuali, delle lesbiche, dei precari, dei marginali, dei prigionieri, dei militanti, dei bambini – è dunque una singolarità che mostra la regola comune della sottrazione violenta al rapporto di capitale che si ripete differentemente ogni volta nell'evento della sua effettuazione.

Ciò che questa impresa editoriale suggerisce a me sembra sia la possibilità di rientrare forse in una storia delle veridizioni, «intese come formule secondo cui, in un ambito di cose, si articolano i discorsi suscettibili di essere definiti veri o falsi (...) i suoi effetti sul reale e il modo in cui, legando un certo tipo di oggetto a certe modalità del soggetto, esso ha costituito, per un certo tempo, per un'area e degli individui determinati, l'a priori storico di un'esperienza possibile» (Foucault). Cosa è stato vero per quelle soggettività, e cosa lo è oggi. Cosa è stato falso e continua ad esserlo o magari si è rovesciato nel vero. E specialmente qual è il resto di quella esperienza, di quell'a priori senza fondamento, che abbia ancora effetto sul reale. In questo senso vale la paradigmaticità storica dell'Autonomia, cioè in quanto esperienza conoscibile incrociando passato e presente, diacronia e sincronia, tesi verso una ontologia dell'attualità. Il problema non è dunque quello di dire la verità della Storia, la verità della politica e nemmeno la verità sul potere bensì esprimere la verità di un esperienza, una verità contro il potere. È questo il criterio che propongo per chiedersi della riuscita o meno di questi volumi, se per riuscita intendiamo la capacità di essere detonatori di una qualche immaginazione, di inserirsi nel gioco di una qualche forma di vita a venire, di dire parte di quella verità. Di comprendere anche la verità della P38: perché si può costruire un castello di teoria semiotica sull'immagine della pistola degli Autonomi e tuttavia ciò non toglie la verità della presenza delle loro armi. O meglio la verità della loro distruttiva, struggente, creatività.

E quello della violenza o, come preferiscono alcuni, della forza, rimane un nodo tanto aspro quanto inaggirabile, tanto più oggi che sembra che la non-violenza sia diventata, senza nemmeno teorizzarlo apertamente, la pratica comune dei movimenti italiani, o di ciò che ne rimane. A me pare che la battaglia culturale apertasi alcuni anni or sono su questo punto sia stata perduta dal movimento, almeno per il momento. Apparentemente anzi sembra ritornato di moda il contrario di come l'Autonomia praticava la piazza: ci sono di nuovo i cordoni di maschi davanti che dovrebbero “difendere” i cittadini dietro (che poi, quando mai l'Autonomia, per non parlare del marxismo, ha avuto come referente questa patetica figura “comunopatica” così neutra da essere un nulla?), ma senza avere la forza bruta dei katanga né la allegra spensieratezza con la quale la banda del Casoretto fronteggiava poliziotti e stalinisti, laddove le Autonome e gli Autonomi agivano su diversi livelli di attacco e di difesa che però consideravano tutti i componenti di una manifestazione come combattenti attivi. È come se il loro piano di consistenza si potesse concentrare tutto nell'espressione della violenza “spontaneamente organizzata” dei cortei per poi dileguarsi in ogni quartiere a estendere e difendere la propria forma di vita. Ecco, forse una discussione maggiormente approfondita sulla questione della forza, della “riappropriazione della violenza”, è qualcosa di cui i volumi di cui parliamo avrebbero avuto necessità. Insieme però, cosa anche più importante, a un più chiaro tentativo di definire cosa è una forma di vita autonoma, con tutte le problematiche affettive e pratiche, politiche e spirituali che essa comporta. Come si sta insieme senza opprimersi? Come ci si ama? Come ci si finanzia contro il capitale? Come si condivide una vita nella sovversione? Come si fa a marcare la linea che separa gli amici dal nemico? Come fare una politica che non è mai altro da quello che si vive quotidianamente? Se nei volumi vi sono solo accenni sparsi a tali questioni, oggi come oggi le risposte alle domande di cui sopra sono asfittiche quando va bene e le esperienze più significative del recente passato, come quelle dei centri sociali, non godono di grande vitalità e nemmeno hanno più la carica “innovativa” di un tempo, a meno che non lo sia “essere” in myspace.com come sembra essere il nuovo trend...

Un limite interno tutto teorico dell'operazione Gli Autonomi, a mio avviso abbastanza evidente, non risiede comunque in ciò che manca, anche se sarebbe utile interrogarsi sul perché manca ciò che manca, ma su di una sottintesa continuità che dall'operaismo arriverebbe sino al '77 e oltre, sino ad arrivare all'oggi. Nonostante si rivendichi la rottura epocale del movimento del '77, nonostante sia evidente la sua estraneità al Movimento Operaio, si cerca spesso e comunque di riportarlo all'interno di una Storia, di una Teoria e di un Soggetto che hanno concluso la loro “missione” esattamente nel momento in cui è nata la forma di vita detta Autonomia. Se di Tronti resta la strategia del rifiuto portata alle estremissime conseguenze, il testo degli anni Settanta più autonomo di Negri è anche quello meno operaista di tutti, ovvero Il dominio e il sabotaggio. Sì, proprio quello dove si legge: «Immediatamente risento il calore della comunità operaia e proletaria, tutte le volte che mi calo il passamontagna». Ma se l'operaismo è una fase ben delimitata dentro la storia teorico-pratica del comunismo, l'Autonomia è qualcosa di diverso, una tendenza della sovversione che compare ogni volta, in un tempo X, a rompere la continuità di ogni presupposta tradizione che fa da blocco all'espansione della potenza del rifiuto e a quella di creare comunismo.

Perché, chiedo ai curatori, questa specie di storicismo senza necessità? Perché alimentare ancora un equivoco che non cessa di produrre pseudo-scuole di partito che si contendono ancora oggi la diretta ascendenza da un operaismo che i suoi stessi padri fondatori hanno dichiarato morto e sepolto? E se invece si trattasse di liberare gli Autonomi e le Autonome da ogni tutela ereditaria per lasciare che il loro essere clandestino possa circolare ancora più liberamente per preparare il prossimo assalto alla metropoli?

Il IV volume per come me lo immagino dovrebbe raccontare quasi in presa diretta questo nuovo assalto che da alcuni anni è ricominciato a manifestarsi a macchia di leopardo, fortunatamente non rimanendo circoscritto ai confini di un'Italia che anzi mai più di oggi avrebbe necessità di sprofondare di nuovo in mano a loro: a quei bambini clandestini, a quei banditi metropolitani, a quelle urla di gioia e di rabbia, a quelle baccanti selvagge, a quelle notti di fuoco, a quegli amori impossibilmente veri, a quei non-soggetti, a quel calore plebeo, al comunismo giovane e nuovo. All'Autonomia del XXI secolo.

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