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Aria frizzante. Un punto di vista dalla provincia sulla marea del «Blocchiamo tutto»
di kamo
0. Ci sono giorni che valgono anni. Le ultime settimane, dal 22 settembre al 4 ottobre, sono state tra questi. Anche a Modena.
1. Due scioperi generali che hanno travalicato le appartenenze (o non appartenenze) sindacali e fermato, rallentato, sabotato, la fabbrica della guerra che è nel suo complesso il sistema-Italia e di cui Modena è uno dei suoi reparti più avanzati. Una composizione eterogenea e trasversale di massa e diffusa che ha utilizzato strumentalmente e pragmaticamente le scadenze di sigle, collettivi e delle più svariate infrastrutture organizzative per scendere in mobilitazione permanente. Che, capillarmente, dai territori metropolitani a quelli provinciali, su livelli di intensità variabile da territorio a territorio, ha occupato le strade, le piazze, le facoltà, le scuole, i magazzini, gli stabilimenti, le stazioni, le tangenziali, tentando di praticare con slancio e determinazione l’obiettivo del “blocchiamo tutto”. Una oceanica manifestazione nazionale che ha fatto tremare, per la prima volta, un governo di postfascisti, atlantisti e sionisti – scappati fuori Roma – a digiuno di opposizione. Per non parlare, appunto, delle imbelli, inutili e ipocrite opposizioni della Sinistra, atlantista e sionista, saltate a bordo all’ultimo – citofonare Landini e Schlein – per timore di rimanere naufraghe.
2. L’avevamo percepito il lunedì di sciopero generale che l’aria non era più la stessa. Certe cose le senti: ti lasciano il sapore dell’elettricità in bocca. Il 22 settembre abbiamo assaporato un gusto che non sentivamo da molto tempo a Modena.
La manifestazione degli studenti è rumorosa e con numeri (circa 400-500) che non si vedevano da decenni – anche se a maggioranza liceali e con poco apporto di seconde generazioni – portati per la gran parte dal “lavorio invisibile” di un gruppo di giovani senza pregressi politici nato, più o meno spontaneamente, un paio di settimane prima, “Giovani di Modena per la Palestina”. Piazza Grande è ingrossata da lavoratori delle più disparate categorie: operai della logistica e non solo, professionisti e partite iva, insegnanti, impiegati dell’industria, tecnici, precari, operatori delle cooperative, tirocinanti, universitari, perfino i funzionari della CGIL. La manifestazione arriva a contare circa 3000 persone e si carica di un’energia che neanche i soliti, interminabili comizi al microfono riescono a spegnere.
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IA è compatibile con noi?
di Riccardo Fedriga
Immaginiamo di vivere in un mondo popolato da umani perfettamente razionali, chiamiamoli Penelope, che convivono con altrettanti Ulisse, macchine artificiali deferenti e utili: la convivenza tra le due specie non sarebbe un problema. Ulisse passa la vita a imparare, con discrezione e pazienza, le preferenze della sua padrona, diventandone l’assistente perfetto. Ma la realtà è ben diversa: l’umanità non è un blocco monolitico, bensì una costellazione di individui contraddittori, invidiosi, irrazionali, incoerenti e complessi. Una moltitudine che si evolve, si scontra, cambia direzione, pretende di ottenere tutto e subito per ciascuno. Qui nasce il dilemma. Come far coesistere preferenze individuali e interessi collettivi e istruire le intelligenze artificiali così che soddisfino i requisiti per il bene comune? Come può Ulisse prendere le misure per soddisfare i capricci egoistici e le pretese degli umani? Ce ne parla Compatibile con l’uomo, pubblicato oggi da Einaudi e uscito nel 2019 dalla penna di Stuart Russell, informatico e direttore del Center for Human-Compatible Artificial Intelligence a Berkeley. Insisto sul 2019 non per sottolineare ritardi dell’editore quanto per rilevare come sia incredibile che un volume, uscito solo sei anni fa, possa già essere considerato un classico.
Partendo da un dibattito filosofico che affonda le sue radici nelle ricerche sviluppate dagli utilitaristi tra la metà del XVIII secolo e il XIX, Bentham e Mill su tutti, Stuart Russell ripercorre per temi le tappe di un’area di studi, che certo non è nata nel 2020 con il lancio di GPT-3, ma che pochi oggi hanno la capacità di disegnare in modo organico. Dalle discussioni avviate da Alan Turing alla metà degli anni Trenta del secolo scorso (che sfociarono nel congresso del 1956 al Darmouth College - New Hampshire, con McCarthy, Minsky, Shannon, Rochester, Newell e Samuel) il libro, che per chiarezza, attendibilità e capacità di organizzare gli argomenti dovrebbe essere adottato ovunque si studi intelligenza artificiale, ne ripercorre la storia sino alle AI generative e ai modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM).
Compatibile con l’uomo, tuttavia, non è solo un viatico autorevole tra storia e problemi dell’intelligenza artificiale. È soprattutto una proposta su come l’uomo possa pensare non meglio o peggio ma con essa: una soluzione ‘compatibilista’ che presenta molti aspetti su cui vale la pena di soffermarsi.
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Il prossimo 14 ottobre, a Udine, si giocherà la partita di calcio tra Italia e Israele…
di Docenti per Gaza
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa presa di posizione di “Docenti per Gaza” su (e contro) questo prossimo evento sportivo, che di autenticamente sportivo avrà ben poco, e sarà al centro di un’ampia contestazione di massa. Quanto alle leggi e alla Costituzione del 1948, all’occorrenza, come in questo e altri mille casi, lo stato non esita a mettersele sotto i piedi. Carta straccia, come le infinite risoluzioni ONU di condanna dello stato sionista. (Red.)
Il prossimo 14 ottobre, a Udine, si giocherà la partita di calcio tra Italia e Israele valevole per le qualificazioni ai campionati mondiali del 2026.
Incuranti degli appelli che si susseguono, ormai da mesi, per chiedere la sospensione di questo evento, FIGC, prefettura e governo ritengono che non ci sia nulla di male a ospitare la squadra che rappresenta un’entità coloniale che da decenni occupa il territorio palestinese illegalmente, costringendo i suoi abitanti a vivere sotto assedio, e che negli ultimi due anni ha accelerato e inasprito a dismisura un progetto dichiaratamente genocidiario.
“Cosa c’entra lo sport?”, qualcuno si domanda. Tante, forse troppe persone non sono a conoscenza del fatto che molti dei componenti della squadra israeliana sono membri effettivi dell’esercito, e che non perdono occasione per esaltare le ignobili “imprese” dell’IDF; la propaganda sionista e la copertura al genocidio in atto passano anche per manifestazioni come questa.
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Gli “scontri” di Roma. Come ti cucino un falso
di Redazione Contropiano
Il governo Meloni non regge le critiche, si sa. I suoi quasi-avversari liberal fanno notare che non dà interviste da una vita (quelle di Bruno Vespa non possono onestamente essere considerate tali…), che non risponde mai a nessuna domanda, che il suo stile comunicativo è praticamente autistico.
Ma nella pratica di governo – nella concretezza delle decisioni, prima e più che nelle dichiarazioni – è solarmente evidente che sta velocemente passando dalla “tolleranza occhiuta” del dissenso alla repressione pura e semplice.
Pensare di fermare così un movimento di popolo capace di portare in piazza due milioni di persone in due giorni – oltre che di dar sostanza a due sciopero generali in meno di 15 giorni, che hanno portato realmente a “bloccare tutto” come promesso – è miope. Quasi autolesionistico.
Perché l’indignazione morale che ha mosso tanta gente davanti a un genocidio in diretta può solo crescere, se messa davanti a plotoni di celere che pestano gente inerme (anche se poi tutti – ma proprio tutti – i giornalisti li definiscono “scontri”; come del resto chiamano quel che accade a Gaza una “guerra”, anche se lì c’è un esercito tecnologicamente avanzato che martella su una popolazione civile e qualche miglio di combattenti armati al massimo di fucili, qualche bazooka e trappole esplosive mimetizzate tra le macerie).
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Da Roma a Gaza: Palestina vincerà!
di Militant
Il 4 ottobre è stata una giornata figlia di un lungo percorso, durato due anni, che ha visto nel suo corteo oceanico uno dei momenti di apice per un movimento che in questo autunno ha iniziato a dispiegare tutta la sua capacità di mobilitazione. Una settimana lunga e intensa, inedita, che ha portato milioni di persone in piazza in tutta Italia e che ha saputo esprimere numerosi momenti di conflitto. Questa settimana ha dimostrato plasticamente che la società italiana è schierata convintamente per la Palestina e contro le politiche terroristiche di Israele, contro il sionismo colonizzatore, e contro un sistema di relazioni internazionali marcio e complice, che permette da 70 anni al sionismo genocida di annientare un popolo senza Stato, senza esercito e senza economia, armato solo della convinzione e della necessità di dover resistere per sopravvivere.
Un movimento ormai composto dai più diversi settori sociali e che rivendica con forza il proprio sostegno alla resistenza palestinese. Che ha preso le mosse dalle organizzazioni della diaspora palestinese che per prime si sono organizzate all’alba del 7 ottobre e che hanno avuto la capacità di generalizzare, nel pieno di una crisi di mobilitazione che durava da un decennio, le ragioni della Palestina e dell’opposizione all’operato del governo Meloni, uno dei più filo-irsraeliani d’europa, in piena e sostanziale sintonia con quello di Netanyahu.
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Manifestare per Gaza significa
di Francesco Piccioni
Ai reazionari – dichiarati o camuffati – che in questi giorni fanno finta di chiedere “ma perché protestate per Gaza?” (sottinteso spesso urlato: “andate a lavorare!”) si può facilmente rispondere, e asfaltarli, mettendo in fila un po’ di notizie che in questi giorni di mobilitazione continua forse sono passate un po’ inosservate.
Prima notizia.
Nella vicinissima Grecia, che tanto ci somiglia da aver fatto coniare il detto “una faccia, una razza”, sono cominciati gli scioperi contro la nuova legge sul lavoro che il governo Mitsotakis sta cercando di far approvare dal Parlamento.
Non stupisce che si protesti. Il testo prevede – per i lavoratori che hanno un solo padrone, di innalzare l’orario di lavoro fino a 13 ore al giorno, per un massimo di 37 giorni all’anno, con l’unica limitazione formale (facilmente aggirabile, come sappiamo da sempre qui in Italia) che il lavoratore sia d’accordo e riceva un aumento del 40% della retribuzione.
Respirate un attimo, perché non è finita qui. Si prevede anche di innalzare l’età pensionabile a 74 anni, l’introduzione della settimana lavorativa di sei giorni, i licenziamenti senza preavviso nel primo anno di contratto, un periodo di prova fino a sei mesi, nonché sanzioni fino a 5.000 euro o sei mesi di carcere per chi blocca il lavoro altrui durante uno sciopero.
In pratica: lavorare sempre (se riesci a trovare un lavoro), fino alla morte (è davvero improbabile che lavorando 13 ore al giorno di possa arrivare a 74 anni), senza protestare mai se no finisci in galera.
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IL 7 ottobre è un altro e 1 milione di manifestanti lo sa
L’origine di un genocidio, di una flottiglia, di un “accordo di pace”
di Fulvio Grimaldi
Mentre scrivo dalla data di uscita dell’articolo nella mia rubrica di martedì manca qualche giorno. Distanza dovuta a un accumularsi di impegni, sanitari e di convegni, non rinviabili. Chiedo perciò scusa se avrò dovuto bucare qualcosa di importante inerente all’argomento del pezzo, cosa possibile data la tumultuosità degli accadimenti. Ho fatto in tempo, però, a vivere il privilegio di assistere, nelle notti e nei giorni attorno al cambio del mese, a una della più grandi, belle, valide espressioni di civiltà e coraggio umani. Civiltà e coraggio sulla Flotilla e parallelamente in Italia, vera avanguardia europea, la gigantesca sollevazione di popolo del 3 e 4 ottobre contro la barbarie genocida e i suoi sicari in Occidente e a dispetto del ratti in fuga che ci governano. Un ottobre come un maggio parigino di 57 anni fa. Allora grazie al Vietnam, oggi alla Palestina. E’ sempre dal Sud globale, quello che allora chiamavamo Terzo Mondo, che viene la salvezza.
* * * *
Nel milione di manifestanti del 3 e 4 ottobre non s’è udito nessuno azzardare una sola parola di biasimo, o di condanna, o di critica, a Hamas. Bella risposta a Travaglio e al suo inserto nel Fatto Quotidiano in cui ben 14 paginoni sono state riempite da firme ritenute illustri per ripetere l’assunto che Israele ritiene giustifichi l’orrore di Gaza: il terroristico pogrom di Hamas del 7 ottobre, con la carneficina di 1.200 civili e relativi stupri. A salvarsi è rimasta la sola Barbara Spinelli che, forse, ha intuito che se un milione di persone applaudono a un cartello con la scritta “Verità sul 7 ottobre” e se gli stessi israeliani di Haaretz rifiutano la fabbricazione del loro governo, qualche motivo per pensarci dovrebbe esserci.
Quelli che… poveri palestinesi ma quei terroristi di Hamas…”Il governo di Israele e il vertice di Hamas, cioè le due organizzazioni terroristiche…”, “”Israele appoggiava Hamas per cancellare la già debolissima ANP… “Entrambi, Israele e Hamas, i guardiani del loro inferno”…” E’ un genocidio, ma le atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre”…”La strage dei milleduecento innocenti perpetrata il 7 ottobre 2023 dai macellai di Hamas”… “Sentimenti ovviamente ignoti al terrorismo di Hamas”…
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È l’accademia, bellezza!
di Linda Brancaleone
1. “Oggi la precarietà è dappertutto”: un’introduzione necessaria
La precarietà è ormai la cifra del nostro tempo, si trova «dappertutto»[1], come ammoniva Bourdieu. Non è solo una condizione lavorativa: è una forma di vita, un destino imposto a una generazione che ha fatto dell’incertezza la propria biografia. Il “precariato” – fusione simbolica di precario e proletariato – definisce un nuovo soggetto sociale, sfruttato e vulnerabile, privato di garanzie e diritti, gettato nel limbo di contratti a termine, borse malpagate, rinnovi a singhiozzo. È una condizione «che si radica anzitutto nella sfera occupazionale»[2], ma si estende a tutte le altre: abitativa, relazionale, affettiva. Nulla sfugge al morbo della precarietà.
Né si tratta di una questione privata: la precarietà si fa istituzione, criterio di governo. Come nei sistemi neoliberali descritti dalla sociologia più critica, i meccanismi di welfare vengono piegati per “espellere” i lavoratori instabili, trasformando la mancanza di stabilità in colpa individuale. Il precario diventa, per usare le parole della dottrina, un «impossible group»[3], una moltitudine di esclusi accomunati solo dalla mancanza: di sicurezza, di diritti, di voce. Nessun senso di appartenenza, nessuna “comunità occupazionale”: solo la solitudine di chi naviga a vista in un mare di incertezze.
A rendere questa condizione più insidiosa è la vulnerabilità, intesa come «elevata esposizione a certi rischi»[4] unita all’incapacità di difendersi dalle loro conseguenze. Guy Standing ha descritto bene questa categoria: i precari non sono solo lavoratori poveri, ma cittadini dimezzati, esclusi dal tessuto sociale, privi di riconoscimento[5]. La loro esistenza è frammentata, il loro tempo sequestrato. È qui che la precarietà diventa biopolitica: il potere plasma i corpi e ne regola i ritmi, “autorizzando” solo forme di vita funzionali all’economia dell’incertezza.
2. Il ddl Bernini: la riforma che moltiplica la precarietà
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Trump: il difensore delle élite che le élite non amano
di Ferdinando Bilotti
Immaginate di essere un giocatore di roulette che prima si è arricchito, grazie a una serie di puntate favorevoli, ma cui successivamente è andata male per parecchie volte di seguito. Avete consumato quasi tutte le vostre fiches, e la prospettiva di doversi alzare dal tavolo con le tasche vuote si è fatta maledettamente concreta. Cosa fate? Chiaramente, le opzioni possibili sono due. Potete adottare una condotta di gioco molto cauta, in modo da potere continuare a puntare a lungo anche in questa situazione di difficoltà: con un po’ di fortuna, potreste riuscire a riguadagnare un piccolo gruzzolo. Oppure potete puntare in un colpo solo tutto ciò che vi rimane: se vi va male siete rovinati, ma se vi va bene vi siete rifatti abbondantemente delle perdite.
Eccovi spiegata la politica americana degli ultimi anni.
Come abbiamo già scritto nell’articolo del 21 agosto, a partire dagli anni Ottanta le grandi imprese hanno sempre più trasferito le proprie produzioni in paesi dove i salari erano più bassi che negli USA (Messico, Sud-Est asiatico, poi soprattutto Cina). Negli anni, la loro fuga ha assunto portata tale da determinare una vera e propria desertificazione industriale, con ricadute gravi sulla condizione delle classi lavoratrici (oggi diffusamente sottooccupate e malpagate, non trovando di meglio da fare che lavoretti precari e dequalificati… quando li trovano) e sulla solidità finanziaria del paese (in ragione del restringimento della base imponibile, determinato dall’impoverimento dei lavoratori). A quest’ultimo riguardo, ci si farà notare che il governo ha comunque mantenuto la possibilità di tassare le ricchezze dei proprietari delle aziende, nonché le attività che queste ultime hanno continuato a condurre in patria (come quelle finanziarie, generatrici di ingentissimi profitti). Vero: “la possibilità” ha continuato a esserci. In concreto, però, ai ricchi è stato consentito di non pagare più le tasse, in quanto l’imposizione sui profitti societari e sui redditi elevati è stata drasticamente ridotta.
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Per Bruxelles la guerra è l'ultima possibilità e i giornali di regime vi si adeguano
di Fabrizio Poggi
La situazione internazionale, scrive la signora Alessandra Ghisleri su La Stampa del 7 ottobre «genera smarrimento, confusione e – forse più di tutto – paura», anche perché le persone sono costrette a «navigare un’informazione parziale, frenetica e spesso polarizzata». Vien da rispondere con la locuzione oraziana “de te fabula narratur”: è dei vostri giornali di regime che si parla, impegnati ad alimentare un clima di guerra, per preparare le coscienze ai “necessari” tagli a salari, pensioni, sanità e per convincere le masse che, come ha proclamato l'ex Segretario NATO, Jens Stoltenberg: «Un miliardo per la difesa dell'Ucraina è un miliardo in meno per assistenza sanitaria o istruzione. Ma, un prezzo più alto, sarebbe quello di permettere a Putin di vincere. Pertanto, dobbiamo farci carico dei costi e pagare per la pace».
E voi, giornali del bellicismo eurogovernativo, fate a gara a infuocare quella “confusione” e quella “paura”, bramosi di fare da megafono alle parole di Vladimir Zelenskij che, dite, «hanno avuto un effetto deflagrante. L’avvertimento che la guerra in Ucraina potrebbe estendersi oltre i suoi confini ha toccato le corde profonde delle paure collettive». Come no: è il vostro mestiere quotidiano, da mesi, quello di rinfocolare le “paure collettive” per alimentare la corsa al riarmo e alla militarizzazione della società. Così che non vedete l'ora di proclamare che «il 39,7% degli italiani teme che anche il nostro Paese possa diventare un potenziale obiettivo della Russia di Vladimir Putin» e per moltiplicare quei timori, non trovate niente di meglio che citare anche l'attuale segretario NATO Mark Rutte: «Siamo tutti minacciati dalla Russia, anche l’Italia». Orsù dunque, armiamoci e prepariamoci alla guerra, per difendere i «cieli e i confini della NATO» dalle fameliche orde iperboree.
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Meloni: il governo della deindustrializzazione italiana
E la sinistra esorcizza i suoi tradimenti con il genocidio di Gaza
di Luigi Tedeschi centroitalicum.com
È in corso un processo di deindustrializzazione dell’Italia che rischia di divenire un Paese condannato al sottosviluppo. Ma la politica economica del governo non incontra alcuna opposizione da parte della sinistra. Strumentalizzando la protesta popolare, la CGIL di Landini vuole autoassolversi dalle sue responsabilità inerenti la devastazione dello stato sociale messa in atto dai governi (specie di sinistra), sin dal sorgere della seconda repubblica
Se esaminiamo la politica economica del governo Meloni alla luce del processo di dismissione delle imprese strategiche in atto, i risultati si rivelano devastanti. Assistiamo infatti alla progressiva decomposizione della struttura industriale italiana, con la cessione da parte dello Stato di imprese essenziali alla salvaguardia della sovranità e dello sviluppo economico del paese, con pesanti ricadute per la crescita e l’occupazione. Appare evidente che per le esigenze di equilibrio dei conti pubblici, l’azione governativa è finalizzata a fare cassa. Il governo Meloni non ha implementato alcuna strategia di sviluppo per l’economia italiana. Vogliamo dunque proporre un elenco sommario delle più rilevanti dismissioni industriali messe in atto dal governo negli ultimi tempi.
1) Ilva. Trattasi della seconda acciaieria europea per dimensioni produttive. Il suo destino appare oscuro. Dopo l’arresto di Emilio Riva e il susseguente commissariamento statale, fu ceduta nel 2017 all’indiana Arcelor Mittal, a cui subentrò nel 2021 l’agenzia governativa Invitalia e fu rinominata “Acciaierie d’Italia S.p.a”.
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Tsunami di occupazioni nelle scuole, gli studenti continuano a bloccare tutto
di Redazione - OSA, Opposizione Studentesca d'Alternativa
Questa mattina forse Giorgia Meloni si è svegliata pensando che il “weekend lungo” – come lo ha chiamato lei – dei solidali con la lotta dei palestinesi fosse finito. Invece, sono tante le scuole che in varie città d’Italia stanno venendo occupate da studentesse e studenti. I più giovani sanno bene che non bisogna distogliere l’attenzione dal genocidio in corso in Palestina, e non permetteranno che ciò accada.
Gli studenti continuano a fare proprie le parole lanciate dai portuali di Genova del CALP e poi fatte proprie dall’intero paese durante i due scioperi generali del 22 settembre e del 3 ottobre, chiamati dall’Unione Sindacale di Base e altri sindacati conflittuali: bloccare tutto, per imporre al governo di rompere tutti gli accordi con Israele e di porre fine al terrorismo sionista che colpisce tutto il Medio Oriente.
Il governo è alle strette, sotto il peso della sua complicità e della corsa verso il baratro del riarmo e della guerra fatta propria, chi più chi meno, da tutto l’arco parlamentare. I giovani stanno tenendo attiva un’opposizione reale in un paese in cui le coscienze si sono risvegliate, saldando la propria lotta con quella dei lavoratori.
Riportiamo qui sotto il comunicato nazionale diffuso dall’OSA – Opposizione Studentesca d’Alternativa in merito allo tsunami di occupazioni in corso.
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L'era dell'effimero e le sue conseguenze
di Il Chimico Scettico
Come osservava Georg Christoph Lichtenberg, o secondo la versione più nota attribuita ad Albert Einstein, "L'educazione è ciò che rimane dopo che si è dimenticato tutto ciò che si è imparato a scuola". Non si tratta quindi di accumulo mnemonico, ma di qualcosa di più profondo e strutturale. Io me la ricordo in un'altra versione, dai tempi del liceo: la cultura è quel che rimane dopo aver scordato.
Erano tempi diversi in cui "analfabetismo funzionale", per esempio, era una locuzione inesistente. Mentre qualche volta veniva usato l'aggettivo "incolto".
Mutuando dalla Treccani:
incólto agg. [dal lat. incultus, comp. di in-2 e cultus «cólto»]. – 1. Non coltivato: luoghi, terreni i.; molti poderi più dell’ordinario rimanevano i. e abbandonati (Manzoni). Anche sostantivato (sottint. terreno): pianta che cresce negli i.; i. produttivo, quello che ha qualche possibilità di utilizzazione agricola. Di pianta, lasciata crescere senza alcuna cura: ulivi incolti. 2. Che non ha, o non ha avuto, le cure necessarie: stile i., sciatto, poco curato; più com., riferito all’acconciatura, alla cura della persona, negletto, trascurato: capelli i., barba i.; incolta si vide e si compiacque, Perché bella si vide ancor che incolta (T. Tasso). 3. Che manca di cultura, non ingentilito dall’educazione e dallo studio: uomini i., popolazione incolta. Con accezione più partic., ingegno i., vivace ma non disciplinato, che ha perciò qualcosa di selvaggio, di primitivo. ◆ Avv. incoltaménte, soprattutto con il sign. 3, in modo rozzo, che rivela scarsa cultura: parlare, scrivere incoltamente.
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"La passione della ragione"
recensione di Claudia Rotondi*
Bellofiore R. (2024), La passione della ragione. Scienza economica e teoria critica in Claudio Napoleoni, Milano: Mimesis, pp. 586, ISBN: 9791222313948
Una premessa. Per leggere questo volume occorre avere passione per la ragione, passione per il ragionare. Con questo viatico vi si può accostare anche chi non è esperto di Claudio Napoleoni o dei lavori di Riccardo Bellofiore su Napoleoni ma ha “passione” per il metodo nello studio dell’economia, per l’economia intesa come scienza sociale, per la ricerca di senso nell’esercizio della propria professione.
Il volume scritto da Riccardo Bellofiore è diviso in due parti. La prima parte è la riedizione – con modifiche e integrazioni – del testo dallo stesso titolo pubblicato nel 1991 per Unicopli e comprende cinque saggi redatti tra il dicembre 1985 e il febbraio 1991. La seconda parte riprende, anche in questo caso integrandoli, sette saggi scritti tra il 1992 e il 2024. Un testo impegnativo, frutto di oltre quarant’anni di studi attorno al complesso rapporto di Claudio Napoleoni con l’economia intesa come scienza sociale e dunque con tutto ciò che ruota attorno a questa concezione: con la teoria economica, con la storia dell’analisi e del pensiero economico, con la politica economia, con la metodologia della ricerca, con la filosofia. Il tanto tempo dedicato al pensiero di questo autore ha dato i suoi visibili frutti e i saggi compongono un insieme articolato che riflette anche i diversi accenti che Bellofiore ha voluto e saputo dare alle sue analisi.
Ripercorrere sia pure sinteticamente i tanti capitoli del volume aiuta a cogliere l’unità sottostante alla apparente frammentarietà.
Il primo capitolo della prima parte ci parla di Napoleoni “economista critico”, autore di un pensiero volutamente “radicale” perché, come ricorda Bellofiore, teso ad andare alla radice delle questioni. Qui possiamo ricostruire il suo percorso scientifico così come scandito da fasi individuate e denominate da Bellofiore: “Dalla guerra alla ricostruzione”; “Gli anni Cinquanta e il Dizionario di Economia Politica”; “Il periodo della Rivista Trimestrale”; “Il ritorno a Marx e il dibattito sulle riforme”; “La critica della teoria del valore”; “Oltre la centralità dell’economico”; “Scienza e critica”.
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Alcune riflessioni a caldo su “Blocchiamo tutto”
di Infoaut
È quasi impossibile fare un bilancio organico di queste giornate incredibili. Il movimento “Blocchiamo tutto” ha rappresentato una vera discontinuità politica e sociale nella storia italiana
Milioni di persone in piazza in tutta Italia. Due scioperi generali effettivi nel giro di una settimana, cortei spontanei, blocchi diffusi ovunque e una composizione tanto eterogenea e trasversale che è difficile fare paragoni con il passato recente. Il movimento “Blocchiamo Tutto” ha in pochi giorni attraversato ogni ambito dell’agire sociale nel nostro paese, dalle carceri dove alcuni detenuti hanno scioperato, fino alle ambasciate italiane in giro per il mondo. E potenzialmente, a date condizioni, le possibilità per un’ulteriore generalizzazione ci sarebbero. Il movimento potrebbe crescere ancora in territori e settori sociali poco lambiti dalla politica sia istituzionale che di movimento. La dinamica che si è attivata grazie alla generosità degli attivisti e delle attiviste della Global Sumud Flotilla, alla determinazione dei portuali del CALP e al colpo di reni del sindacalismo conflittuale sta condizionando l’intero quadro politico italiano ed europeo. Forse addirittura quello globale. Senza farsi troppe illusioni il timing del Piano Trump suggerisce che l’onda montante dell’indignazione dell’opinione pubblica contro il genocidio del popolo palestinese ha svolto un ruolo tutt’altro che marginale. D’altronde per chi come noi continua a riflettere sulla lezione operaista la cosa non è così strana, il capitalismo e le sue forme istituzionali si ristrutturano anche sulla spinta delle lotte sociali, persino quando le mistificazioni capitaliste non permettono di coglierne limpidamente il nesso causale.
L’accelerazione a cui stiamo assistendo non ha precedenti storici recenti ed è qualcosa di molto diverso da altri cicli di mobilitazione, pure di massa e trasversali che però avevano caratteristiche ben codificate nelle tradizioni dei movimenti sociali.
Bisogna assumere fino in fondo questa constatazione. Prendere atto della cesura storica e comprendere che le piazze hanno di gran lunga superato le capacità organizzative delle strutture di movimento, sebbene queste abbiano avuto un ruolo tutt’altro che secondario nel permettere che questa alchimia si verificasse.
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Ripartire da zero
Finlandizzazione 2,0?
di Aurélien
Ho scritto diverse volte della situazione scomoda derivante dall’imminente sconfitta in Ucraina e delle spiacevoli conseguenze per l’Europa che potrebbero derivarne. Ora vorrei avanzare alcuni suggerimenti provvisori su come potrebbe essere sensato per l’Europa reagire. (Gli Stati Uniti sono diversi, e semplicemente non conosco abbastanza il Paese per poter esprimere un parere adeguato.) Il mio scopo qui non è quello di dare consigli non richiesti ai governi (a meno che non abbiate lavorato nel governo, non avete idea di quanto possa essere irritante), ma piuttosto di esporre in termini semplici ciò che potrebbe essere fattibile. Inizio con la situazione strategica, passo ai vincoli e poi espongo alcune possibili vie da seguire.
In primo luogo, i paesi europei si troveranno in una situazione senza precedenti nella loro storia. Ricordiamo che, nonostante l’Europa venga pigramente definita il “Vecchio Continente”, la sua struttura politica attuale è molto recente. La Germania, nella sua forma attuale, risale solo al 1990, la Repubblica Ceca e la Slovacchia al 1993. La disgregazione dell’ex Jugoslavia in nazioni indipendenti non si è realmente conclusa fino all’indipendenza del Kosovo nel 2008. (A proposito, la Norvegia ha ottenuto la propria indipendenza solo nel 1905). Ma soprattutto, lo Stato nazionale non era tradizionale in Europa: nel 1914, la maggior parte degli europei viveva in imperi, come aveva sempre fatto. Inoltre, ampie zone dell’Europa sudorientale si erano liberate solo di recente da secoli di dominazione dell’Impero Ottomano: il colonialismo durò più a lungo in Europa che nell’Africa subsahariana, ad esempio.
Quindi, l’unico momento vagamente paragonabile nella storia europea a quella odierna è tra, diciamo, il 1921 e il 1938: tra la fine della guerra russo-polacca e l’inizio dell’espansione territoriale tedesca. Quel periodo fu caratterizzato da una disperata ricerca di alleati per evitare di essere circondati o isolati, e da una grottesca e complessa danza diplomatica che coinvolse, tra gli altri, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Cecoslovacchia, Unione Sovietica e Giappone, in varie combinazioni.
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Approvato il primo scheletro di una finanziaria tutta improntata alla guerra
di Stefano Porcari
Presi dall’enorme mobilitazione che ha interessato il paese in questi giorni in solidarietà con la lotta palestinese e in sostegno della rottura del blocco illegale di Gaza da parte della Global Sumud Flotilla, è passato momentaneamente sullo sfondo il dibattito sull’approvazione della prossima manovra finanziaria, che si avvicina inesorabilmente con la fine dell’anno.
Giovedì, però, il Consiglio dei Ministri ha varato il Documento programmatico di finanza pubblica (o Dpfp), che ha sostituito la vecchia Nadef. La funzione è più o meno la stessa: serve a fare il punto della situazione dei conti pubblici e delle previsioni di crescita, e a dare così una cornice definita entro cui scrivere in maniera dettagliata la legge di bilancio per l’anno a venire.
Le previsioni di crescita tendenziale del PIL sono ancora più striminzite di qualche mese fa: +0,5% quest’anno, invece di +0,6%; +0,7% nel 2026 e nel 2027; +0,8% nel 2028. Il ministero dell’Economia mette però in chiaro che “tali dati si basano su stime assai prudenziali che allo stato risentono anche del contesto geopolitico internazionale“, innanzitutto dei dazi ‘amichevoli’ di Trump.
Rimane invece inflessibile la gabbia dei vincoli europei, e dunque dell’austerità imposta da Bruxelles. La spesa primaria netta, cioè quella che esclude gli interessi sul debito e componenti cicliche, è diminuita: la solerzia del governo Meloni nel tagliare spese e servizi pubblici ha fatto sì, dalla stima dello scorso aprila che lo dava al 3,3%, ora il deficit è proiettato sul 3%.
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Lezioni dalla Palestina
di Gaetano Colonna
Le decine di migliaia di vite umane sacrificate in Palestina non sono vite perdute. Spetta però a tutti noi il compito di dare a questo olocausto un significato durevole: valido quindi non solo per il presente ma anche per l’avvenire.
È questa la responsabilità che ci impegna tutti d’ora in avanti, se non vogliamo limitarci alle comprensibili reazioni emotive di sdegno e riprovazione: se riversati solo nelle piazze, questi sentimenti corrono infatti il duplice rischio di essere utilizzati per fini di partito, o di svanire non appena nuovamente assoggettati alla quotidianità.
La prima lezione è che, nel primo quarto del primo secolo di questo terzo millennio, è caduto dagli occhi dell’umanità intera il velo di retorica steso dalle potenze che, attraverso l’imperialismo coloniale e la vittoria in due guerre mondiali, dominano dalla fine del XIX secolo il mondo contemporaneo. Parole chiave come libertà, umanitarismo, democrazia, vengono utilizzate per santificare le guerre, per mascherare il dominio attraverso la forza — economica, tecnologica, militare e mediatica, sistematicamente utilizzata dalle grandi potenze dell’Occidente a guida anglosassone.
Da questo punto di vista, Israele non ha fatto altro che dare la dimostrazione più diretta ed evidente di questa logica, applicandola laddove è stato più facile farlo: vale a dire contro un popolo schiacciato da decenni di impiego sistematico della violenza di Stato, a ogni livello e in ogni occasione, con la complicità della potenza egemone mondiale, gli Usa, nel crescente silenzio di una Europa, sottomessa a quel dominio grazie a due spaventosi conflitti mondiali.
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Joe Trump, i preveggenti “volenterosi” e l’inevitabilità del conflitto
di Norberto Fragiacomo
Non abbiamo mai dubitato dell’imprevedibilità di Donald Trump, ma speravamo che, una volta in carica, si sarebbe mostrato meno aggressivo del predecessore e che non avrebbe scatenato guerre. Si trattava non di una certezza, ma di una scommessa – e salvo ulteriori colpi di scena possiamo serenamente ammettere di averla persa.
A gennaio affermai, nel corso di una puntata de il Processo del giovedì, che nei riguardi della Russia il nuovo Presidente USA avrebbe potuto assumere tre atteggiamenti alternativi: seguire il modello Biden, cioè demonizzare l’avversario e rifornire costantemente di armi l’Ucraina senza troppi clamori (tante minacce, ma di rivendicazioni manco l’ombra); porre fine al conflitto riconoscendo le ragioni dei russi e patrocinando un compromesso realistico; terza possibilità, reagire alla (pronosticabile) fermezza di Putin con un “fallo di frustrazione” e dare il via a una definitiva escalation. Trump è stato all’altezza della sua fama, perché nel breve volgere di nove mesi è riuscito a percorrere un tratto della prima strada (conferma iniziale delle decisioni già assunte dai democratici), poi a imboccare d’impeto la seconda – fino all’incontro in Alaska – e infine a invertire repentinamente la rotta, annunciando l’invio di missili a lungo raggio e il sostegno satellitare “per colpire in profondità la Russia”.
La spiegazione (più) logica dell’ultimo voltafaccia è che, a questo punto, il tycoon consideri l’uso della forza militare l’unico mezzo idoneo a imporre alla Federazione una tregua che altrimenti giammai sarebbe accettata, poiché per il presunto “aggressore non provocato” essa equivarrebbe a una sconfitta strategica.
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La Palestina può svegliare l’Occidente?
di Stefano Stella
La questione palestinese può divenire la fiamma che risveglia le coscienze collettive occidentali?
Questa è una domanda fondamentale da porsi in una fase storica in cui la politica occidentale sembra essersi confinata in un convergere di sentimentalismi. Come riportato infatti da Zygmunt Bauman:
“Per l’individuo, lo spazio pubblico non è molto più che un maxischermo su cui le preoccupazioni private vengono proiettate e ingrandite senza per questo cessare di essere private o acquisire nuove qualità collettive; lo spazio pubblico è il luogo in cui si rende pubblica confessione di segreti e intimità privati.”
Il privatismo di matrice post-modernista tende a frammentare qualsiasi appartenenza comune, ogni forma di comunità reale e di senso di valore intersoggettivamente condiviso. Si crea quindi un “nichilismo che avanza”, un moralismo senza morale che, attraverso una retorica vittimistica ed emergenzialista, tende a sopprimere ogni forma di reale dissenso emergente. Questo abisso profondo, non bisogna farsi illusioni, è ancora estremamente egemone negli ambienti delle sinistre post-marxiste; tuttavia la questione palestinese qualche speranza la accende.
In effetti, movimentazioni di questa portata non si vedevano da decenni in Occidente e il valore umano e politico che esse rappresentano non è qualcosa che possa essere sminuito. Le manifestazioni e gli scioperi pro-Pal non sono rivoluzioni; leggerle in questo senso non può che rafforzare il potere costituito.
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Il New Start – il trattato sulla riduzione delle armi nucleari. Un “Nuovo Inizio”?
di Francesco Cappello
Quali conseguenze avrebbe il mancato rinnovo del trattato sulla limitazione delle armi nucleari strategiche?
Malgrado i leader degli Stati Uniti, della Russia e della Cina abbiano spesso dichiarato che una guerra nucleare non possa essere vinta e non dovrebbe mai essere combattuta, il mondo assiste a una convergenza di follia politica e diserzione diplomatica che sta rischiando di riportare le lancette dell’orologio dell’apocalisse ai momenti più bui della Guerra Fredda. È ormai prossima la scadenza del trattato “New Start”, l’ultimo baluardo contro la ripresa di una corsa agli armamenti tra Washington e Mosca. La data fatidica è il 5 febbraio 2026, e le conseguenze del suo mancato rinnovamento, in questo momento critico della storia dell’umanità, sarebbero potenzialmente catastrofiche. I due più grandi stati nucleari del mondo tornerebbero a non avere, dopo due generazioni, alcun tetto ai loro arsenali atomici.
Secondo alcune analisi, alla cessazione del trattato, gli Stati Uniti potrebbero essere pronti a più che raddoppiare il proprio arsenale nucleare schierato, passando dalle attuali 1.550 testate a una cifra compresa tra 3.000 e 4.000 in poco tempo.
Un articolo della Arms Control Association cita uno studio della Federation of American Scientists (FAS) che valuta che, se il Trattato New START venisse scaduto o non rispettato, gli USA e la Russia potrebbero raddoppiare le loro testate strategiche dispiegate entro uno-due anni usando le testate di riserva già esistenti e caricandole sui vettori esistenti.
Il comandante del Air Force Global Strike Command ha dichiarato che, alla scadenza del New START, “potrebbe arrivare l’ordine” di aumentare la capacità nucleare USA, sia per la componente dei missili terrestri (ICBM) sia per quella dei bombardieri.
Questa capacità di rapido riarmo non è un’ipotesi, ma una condizione che il Congresso americano impose per la ratifica stessa del trattato. La reazione della Russia sarebbe inevitabile e speculare, al fine di mantenere una parità strategica, col risultato che il pianeta cadrebbe in una nuova corsa agli armamenti.
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La Sinistra Negata 03
Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980)
a cura di Nico Maccentelli
Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale
Parte seconda. Gli Anni Settanta.
1. I “GRUPPI”
Il superamento della crisi del 1963-66 è reso possibile soprattutto da un mutamento nella composizione della domanda estera e da una posizione conseguentemente diversa assegnata all’Italia nell’ambito della divisione internazionale del lavoro. L’entrata in scena di paesi produttori di beni di consumo a basso costo costringe l’Italia a modificare le proprie esportazioni, spostando l’accento sui beni finali d’investimento dell’industria pesante e della meccanica leggera1. Acquistano dunque un inedito peso le imprese chimiche, petrolchimiche, siderurgiche, nelle quali le dimensioni degli impianti e gli enormi bisogni finanziari, rendono necessaria la partecipazione statale. È da notare che le industrie di questo tipo, malgrado le proporzioni colossali degli stabilimenti, assorbono quote ridottissime di forza-lavoro2. Il primo effetto della ristrutturazione, seguita alla crisi è dunque quello di contenere l’occupazione in alcuni dei rami industriali trainanti, producendo, con l’esclusione delle figure “deboli” (anziani, giovani, donne), un’ulteriore selezione a favore degli operai delle fasce centrali di età, più di tutti inclini a intraprendere azioni rivendicative.
È dunque un proletariato di fabbrica ridotto ma estremamente compatto, al cui interno continua a detenere l’egemonia (politica anche se non numerica) l’operaio-massa, a dar vita al lungo “autunno caldo” del 1969-1971. È in queste lotte che si sperimentano, con i Comitati Unitari di Base, le prime forme di organizzazione autonoma della classe operaia; ed è in queste lotte che i gruppi sparsi della sinistra rivoluzionaria trovano il cemento necessario alla loro unificazione, dando vita, dopo i convegni delle avanguardie di fabbrica del 1968 e del 1969 a due vaste organizzazioni: del Potere Operaio e Lotta Continua.
La prima metà degli anni ‘70 reca l’impronta di questi due raggruppamenti, che si dividono le spoglie dell’operaismo del decennio precedente e che, unitamente a gruppi di diversa matrice (Avanguardia Operaia, Il Manifesto, i vari “Partiti” di ispirazione maoista, ecc.), danno vita al complesso arcipelago della cosiddetta “sinistra extraparlamentare”.
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La congiuntura americana mentre si accende l'ottavo fronte israeliano
di Alastair Crooke* - Strategic Culture
Putin può convivere con la "schizofrenia di Giano" di Trump, mentre le forze russe avanzano su tutti i principali fronti di battaglia
La seconda fase del passaggio di consegne della guerra in Ucraina da parte di Trump agli europei è stata chiaramente delineata nel suo post su Truth Social del 23 settembre. Nella prima fase del passaggio di consegne, Trump si è ritirato dal ruolo di principale fornitore di armamenti a Kiev e ha indicato che d'ora in poi l'Europa avrebbe dovuto pagare praticamente tutto, acquistando armi da produttori statunitensi.
Naturalmente, Trump sa che l'Europa è "in bancarotta" dal punto di vista fiscale. Non ha i soldi per finanziarsi, figuriamoci per una guerra su larga scala. Poi ha "aggiunto sale" a questa crisi fiscale sfidando gli stati della NATO a essere i primi a sanzionare tutti i carburanti russi. Ovviamente, anche questo non accadrà. Sarebbe una follia.
In questo ultimo post su Truth Social, Trump porta la linea di Keith Kellogg alla sua reductio ad absurdum . "L'Ucraina, con il sostegno dell'UE, può riportare il Paese [Ucraina] alla sua forma originale, facendo sembrare la Russia una 'tigre di carta'... e chissà, forse potrebbe spingersi anche oltre !"
Certo, Kiev sta avanzando verso Mosca? Prenditi gioco di lui, signor Trump. Certo che sta prendendo in giro Kellogg e gli europei.
Poi, in seguito all'incontro di Trump con Zelensky, Francia, Germania e Regno Unito all'ONU, è stata proposta una bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che riecheggiava la richiesta esplicita di capitolazione russa avanzata dagli europei e dalla Coalizione dei Volenterosi . Trump ha permesso ai funzionari statunitensi di partecipare attivamente alla discussione sulla risoluzione, ma poi, all'ultimo momento, ha fatto sì che gli Stati Uniti ponessero il veto.
In questo modo contorto, Trump riesce – come Giano – a guardare due direzioni contemporaneamente: da una parte, sostiene al 100% l'Ucraina, esaltando il "Grande Spirito" dell'Ucraina e adottando la linea di Kellogg secondo cui Putin è in grossi guai. Ma "dall'altra parte", Trump si impegna al contrario a "non limitare la possibilità di colloqui di pace, né a far sì che le tensioni si inaspriscano ulteriormente ".
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Il mondo finanzia il deficit degli Stati Uniti
di Jaime Bravo - Jorge Coulon
Nell’agosto del 1971, Richard Nixon annunciò la sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Ciò pose fine a un ciclo iniziato con gli accordi di Bretton Woods, che avevano concesso agli Stati Uniti – l’unica potenza industriale e finanziaria emersa dalla guerra con le proprie capacità intatte e in qualità di creditrice del resto del mondo – la possibilità di rendere la propria valuta la riserva di valore globale.
Ma, anche con questo potere americano, fu necessario fare concessioni riguardo alla copertura aurea e, quindi, concentrare le riserve dei paesi occidentali. Nessuno era disposto a consegnare la stampa della valuta di riserva a un singolo paese.
Con il gesto di interrompere la convertibilità – il cosiddetto Nixon Shock – il sistema di Bretton Woods, che aveva fornito stabilità al commercio internazionale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, collassò. Il gold standard, che garantiva che ogni dollaro potesse essere scambiato per una quantità fissa di metallo prezioso, fu abbandonato. Da allora, il dollaro è stato sostenuto esclusivamente dalla “fiducia” nell’economia degli Stati Uniti e dal potere politico e militare che la sostiene.
Ma non è tutto. La coercizione per imporne l’uso portò alla nascita dei petrodollari. Lo stesso Nixon firmò un accordo con l’Arabia Saudita, in base al quale quel paese – il più grande esportatore di petrolio dell’epoca – avrebbe accettato pagamenti solo in dollari statunitensi. In cambio, gli Stati Uniti avrebbero garantito la sicurezza dell’Arabia Saudita.
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Trump, il piano zoppo per la pace e l’Europa a zero
di Barbara Spinelli
Quest’articolo è stato scritto subito dopo l’annuncio del Piano di pace, prima della reazione di Hamas e della risposta di Trump, ambedue comunicate il 3 ottobre
Non è chiaro se il piano di pace annunciato il 29 ottobre da Trump e Netanyahu (“Il più grande evento nella storia della civilizzazione”) sia oppure no un Truman Show, una realtà parallela e perversa allo stesso modo in cui fu parallela e perversa l’esultanza di Bush jr (“Mission accomplished!”) quando pretese di aver vinto in poco più d’un mese la guerra in Iraq e insediò a Bagdad il catastrofico protettorato Usa diretto da Lewis Bremer.
Tra i tanti disastri accaduti dopo quella guerra – incoraggiata da Netanyahu – c’è l’assalto di Hamas del 7 ottobre 2023: una strage cui Israele ha risposto con l’uccisione in massa di civili palestinesi a Gaza (“tutti terroristi” secondo il Presidente Herzog). Quest’uccisione è l’evento unico di questi anni: unico nella storia delle civilizzazioni, non della civilizzazione suprema menzionata da Trump.
Netanyahu si finge vincente, avendo ottenuto modifiche a proprio favore del piano, ma in cuor suo lo sa: o il genocidio continua fino a quando Hamas accetterà la resa incondizionata, oppure i suoi giorni al governo potrebbero esser contati. L’America non lo salverà se i suoi ministri terroristi (Smotrich, Ben Gvir) lo affosseranno. Per Smotrich il piano è il “tradimento di tutte le lezioni del 7 ottobre, e finirà in lacrime”.
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