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pensieriprov

Immigrazione, Emigrazione, Sinistra di classe

di Sandro Arcais

In un recente post, Bill Mitchell illustra nei dettagli come l’Unione europea abbia “clonato” se stessa e la sua unione monetaria nell’Africa sub-sahariana (come se una non fosse sufficiente). Si tratta, perlopiù di paesi sottosviluppati un tempo colonie francesi. È impressionante leggere come anche questa unione di stati africani abbia le sue belle regoline di convergenza, regoline che impongono la parità di bilancio, regoline per il controllo della spesa, delle tasse e le relative belle sanzioncine per la violazione di tutte queste belle regoline.

Come se non bastasse, l’Ue ha imposto a questi paesi un trattato di libero scambio, che, nelle parole di Bill Mitchell, non è altro che

un gigantesco aspiratore, ideato per risucchiare risorse e ricchezza finanziaria dalle nazioni più povere, con sistemi legali o illegali, a seconda di quali generino i flussi maggiori.

E allora mi è venuto da pensare che non sono solo le guerre, le carestie, il terrorismo islamico, le bombe franco-anglo-americane ad aver dato la stura al recente aumento degli arrivi di immigrati provenienti dall’Africa occidentale sub-sahariana, ma anche le stesse dinamiche economico-istituzionali che presiedono all’emigrazione dei giovani italiani.

Nella più cristallina logica neoliberista l’Europa ha imposto a questi paesi la libertà di commercio, libertà dei capitali, libertà di spostamento della forza lavoro (con l’aggiunta della fissa teutonicordoliberista socialmente darwiniana della concorrenza: solo i più forti sopravviveranno).

Gli immigrati che arrivano in Italia sono perlopiù immigrati economici che si spostano all’interno di uno spazio allargato euro-subsahariano di libero commercio e di integrazione economica: le stesse logiche che presiedono alle sempre più marcate asimmetrie nell’area euro le si trova in questa unione di stati dell’Africa occidentale. Così come le stesse conseguenze: l’emigrazione è una di queste. Come emigrano gli africani sub-sahariani in Italia, così lo fanno gli Italiani in nord-Europa. In condizioni disperate i primi, più comodamente i secondi.

Gli arrivi totali di immigrati in Italia nel 2015 e nel 2016 sono stati rispettivamente 153.000 e 181.000; gli italiani emigrati sono stati rispettivamente 102.000 e 114.000. Dà da pensare, vero? Come inciderà questo travaso nella condizione di vita di chi rimane, volente o nolente, in questo paese?

Afferma il prof. Brancaccio in un recente intervento apparso sull’Espresso:

… in alcune frange della cosiddetta sinistra radicale montano istanze xenofobe che si pretende di giustificare con l’idea secondo cui gli immigrati contribuirebbero ad abbassare i salari e le condizioni di vita dei lavoratori nativi. Anche in tal caso, a nulla valgono le evidenze scientifiche sull’assenza di legami causali tra immigrazione e criminalità e sui controversi e modesti effetti dei flussi migratori sulle dinamiche salariali.

E magari c’è da credergli, dal momento che la logica austeritaria, neoliberista, ordoliberista e neodarwiniana che presiede all’impoverimento e sfruttamento dei paesi sub-sahariani (e quindi alla spinta a emigrare) è la stessa che presiede all’impoverimento e alla desertificazione industriale dell’Italia e di tutta l’Europa meridionale portati avanti dall’asse franco-tedesco (impoverimento e desertificazione che spingono i nostri giovani a emigrare). Probabilmente è vero: non sono gli immigrati ad avere contribuito ad abbassare i salari dei lavoratori italiani e ad indebolirne le tutele sociali. È stato il ceto dominante italiano liberale e azionista, attraverso golpe vellutati e con la sbavante complicità dei neo-convertiti al liberismo, al rigore  e al mercato, i nipotini deformi di Togliatti e Gramsci.

In questa storia di sfruttamento e spostamento coatto di popoli c’è chi persegue attivamente obiettivi e agende globali (vedi qui, qui e qui), chi si inserisce di buona voglia in questi progetti (vedi qui, qui, e qui), chi perseguendo politiche ondivaghe e di piccolo cabotaggio (vedi qui), chi si pensa tanto tanto astuto e pensa di poter torcere a suo vantaggio tali processi sostituendo i non conflittuali italiani con i più conflittuali (in prospettiva) immigrati, chi tiene ben ferma la barra dei valori universali dell’accoglienza senza se e senza ma e col dito giudicante e accusatorio puntato (vedi qui), chi non gli sembra vero di poter riconquistare la guida (sic!) di questo paese cavalcando sentimenti di insicurezza, insofferenza e stanchezza nei confronti di condizioni che diventano sempre più pesanti anche a causa del sempre maggior numero di immigrati e infine chi semplicemente quei progetti li subisce e ne sopporta tutto il peso, immigrati e nativi.

Ora facciamo un esperimento mentale e poniamoci la domanda: cosa rimane da fare in questo contesto di capitalismo selvaggio e rinnovato imperialismo e neocolonialismo occidentale a chi in occidente si ostina a difendere il lavoro nei confronti di un capitale autodistruttivo, psicopatico e cocainomane? Se l’immigrazione e la destrutturazione di ogni qualsivoglia organizzazione comunitaria, che siano quelle di provenienza degli immigrati che quelle di arrivo, avviene come necessaria e ricercata conseguenza dell’ingabbiamento di economie dal diverso livello di sviluppo in schemi rigidi votati alla convergenza attraverso la concorrenza e la libera circolazione di capitali, mezzi e forza-lavoro; se tutto ciò è vero, allora, cosa resta da fare a una forza politica che voglia rappresentare il mondo del lavoro, il suo benessere, il benessere di una comunità in un contesto complessivo di giustizia sociale ed eguaglianza?

A me viene in mente una unica e semplice risposta: recuperare la sovranità nazionale e popolare, chiudere e ristabilire i confini e i controlli di ciò che passa attraverso tali confini, merci, capitali e uomini. Una sinistra che recuperi i concetti di classe e di lotta di classe (quei concetti che i padroni non hanno mai dimenticato e smesso di praticare) non può fare altrimenti. Una tale sinistra che si proponga come forza di governo per salvare l’Italia e, nel suo piccolo, il mondo dall’imbarbarimento capitalistico non può

lasciare nelle mani degli industriali la gestione dell’afflusso e del reclutamento della manodopera (A. Barba, M. Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, pag. 134)

Sì, perché, a dispetto delle sinistre moderniste, antagoniste, universaliste e umanitarie,

l’ostilità del lavoro dipendente indigeno all’immigrazione, la dimensione più immediata e “fisicamente” percepita della mondializzazione, ha di fatto determinato il suo distacco definitivo dalla cosiddetta sinistra del continente. (idem, pag. 133)

Queste cose le aveva capite il partito comunista francese che alla fine degli anni Settanta e durante la campagna presidenziale del 1981 (quella che porterà alla vittoria Mitterand) insistette

sulla questione, cogliendo ogni occasione per difendere le condizioni di vita dei salariati francesi sempre più compromesse dalla presenza dei «moderni schiavi, super sfruttati e sottopagati». Ma i comunisti si ritrovarono completamente isolati. La stampa, tanto di destra che di sinistra …, insieme a schiere di intellettuali e artisti, fecero a gara nel denunciare «il razzismo del Pcf». … Marchais fu ridicolizzato e insultato e … il Pcf capitolò, rinunciando a combattere l’immigrazione … (idem, pag. 141)

Questa capitolazione

difficilmente avrebbe potuto prodursi se già da diversi anni la maggior parte della cultura francese di sinistra non avesse cessato di riconoscersi nell’analisi di classe della società (idem, pag. 113)

e se non si fosse verificato un

progressivo allontanamento della cultura di sinistra dall’analisi marxiana dei fenomeni sociali. (idem, pag. 113)

ampiamente agevolato e sfruttato dai servizi segreti americani (la fonte è ancora una volta il blog di Bill Mitchell, che vi consiglio di seguire con costanza).

Ciò che la sinistra modernista e antagonista, antinazionalista e globalista, antirazzista e multiculturalista, cosmopolita e meticciara non capisce è

Il fatto che tra lavoratori indigeni e lavoratori immigrati non può esserci che concorrenza e conflitto quando i secondi siano disposti ad accettare salari e condizioni di lavoro e di vita inaccettabili per i primi. Tutta la storia del capitalismo mostra in modo chiaro che tra lavoratori di diversa provenienza e coscienza di classe non può esservi alcuna unione o solidarietà. (idem, pag. 142)

Ecco perché sono contro una immigrazione incontrollata e selvaggia e contro il supposto diritto a immigrare: perché sono strumenti efficacissimi nelle mani del capitale per dominare, controllare, dividere e sfruttare più facilmente i salariati.

E in alternativa non si tratta di “aiutarli a casa loro”, ma di mettere le briglie in casa nostra a quel capitale che ci sta facendo il culo (scusate, volevo essere esplicito ed espressivo), a noi e a loro che arrivano tutti contenti con i loro bei smartphone col sogno illusorio di partecipare anche loro al “grande consumo”. Citando per l’ultima volta Barba e Pivetti

vi sono forme diverse dall’ “accoglienza fraterna” degli emigrati per esprimere la solidarietà di classe nei confronti dei lavoratori dei Paesi mano sviluppati. Opporsi … a ogni forma di aiuto a quei Paesi che non sia subordinato al perseguimento effettivo di politiche di crescita dell’occupazione e rivendicare l’erezione di barriere doganali contro le importazioni da Paesi ad infimo costo del lavoro sono due forme concepibili di tale solidarietà. (idem, pag. 143)

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