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Manolo Monereo, Intervista sulla questione catalana

di Alessandro Visalli

A fine settembre uno dei principali dirigenti di Podemos, Manolo Monereo, dopo aver parlato del tema dell’alleanza tra Unidos Podemos e i socialisti del PSOE (che potrebbe tornare di attualità in relazione all’avvitamento della crisi), si sofferma sulla questione catalana, che era già presente con forza al momento della formazione del movimento. Nell’intervista ricorda che al momento del 15M (Movimiento degli indignados, nel 2011) le forze di destra in Catalogna reagirono “con una fuga verso l’indipendentismo”. Quel che chiama il “pujolismo” (l’unione di settori della alta e piccola borghesia e di componenti della chiesa che cercano di mobilitare più ampi settori intorno al tema della ‘nazione catalana’) si sarebbe costituito, insomma, con l’espresso progetto di trasformare i disordini sociali, che ponevano la questione della ineguaglianza, in disordini nazionali.

La formazione di Unidos Podemos nasce in questo contesto, preso tra la forbice del PP e degli opposti nazionalismi spagnolo e catalano. E tenta di “giocare dialetticamente con due elementi che erano strettamente correlati: la difesa dei diritti nazionali e la questione sociale come elemento fondamentale”.

In altre parole il tentativo era di connettere le rivendicazioni di maggiore autonomia dal nazionalismo spagnolo con la questione sociale, ovvero, come dice “la questione di classe”.

Secondo il suo punto, viceversa, porre solo il tema della questione nazionale, in chiave interclassista, è deviante e distraente rispetto alla questione sociale, cioè ai diritti sociali, alle politiche dei tagli, del lavoro, della industrializzazione, della “legge della dipendenza”, etc. Invece, secondo l’esponente di Podemos, questa è stata di fatto usata, e in modo organizzato, per spegnere le rivendicazioni di maggiore giustizia, di eguaglianza che venivano dalla grande parte delle classi lavoratrici.

Fino a che questa agenda sociale, che tiene insieme il bisogno di autonomia e autodeterminazione, con quello di giustizia, è stata imposta Unidos Podemos ha ottenuto successi, in Catalogna in particolare, ma quando invece l’egemonia del discorso pubblico si è spostata sul tema del “freddo nazionalismo” allora i consensi sono declinati. Il movimento, cioè, non è più riuscito ad articolare la proposta di un “processo costituente” in grado di trasformare lo Stato Spagnolo in Stato federale, e non solo in Catalogna, ma anche in Andalusia, Estremandura, Galizia, ovvero ovunque.

Il progetto, in altre parole, prevede una “federazione di Stati e di popoli”, complessa ma annodata sia dal riconoscimento di diritti nazionali sia di diritti sociali e capace di porre fine allo strapotere della “trama” (del potere economico). Questo progetto non è indipendentista, e passa necessariamente per un processo costituzionale democratico nel quale siano bilanciati interessi ed identità (non solo nazionali, ma anche sociali).

Puntando sulla mobilitazione delle forze popolari e della democrazia (rispettandone, dunque, la proceduralità) il progetto di Podemos si differenzierebbe quindi da quello indipendentista per il focus e per l’esito, come dice Monereo: “nel nuovo Stato federale, nella Repubblica Federale Spagnola, vogliamo che comandino i lavoratori, i settori popolari, noi abbiamo una visione di classe”. Dunque il discorso che non è stato portato avanti (a partire dalla questione della monarchia), prevedeva “una Spagna federale in un’Europa confederale”.

Questo discorso ha evidentemente perso. Lo stesso Podemos si è piegato all’egemonia del discorso nazionalista che rischia di spaccare il paese. Monereo sottolinea come l’eventuale (ma improbabile) formazione di una Repubblica Indipendente di Catalogna determinerebbe l’immediata formazione di una corposa minoranza spagnola (circa il 40% della popolazione totale) che avrà immediate rivendicazioni. Il processo solleva i fantasmi della crisi jugoslava (che era anche essa, lo ricordo, “nel cuore d’Europa”).

Forse non accadrà, ma di certo questo asse “spagnolo-catalano” ormai imposto in modo assolutamente dominante “sovradetermina” l’asse “classe-nazione”, che liquida di fatto la sinistra sia in Catalogna sia in Spagna. Ovvero liquida i suoi temi.

Ora, nella parte più densa della sua intervista l’esponente di Podemos ricorda che i cosiddetti “diritti nazionali” sono un costrutto sociale che si maneggia e manipola politicamente. Anche se la Catalogna ha molti elementi per essere considerata una “nazione”, ed è anche abbastanza consapevole di esserlo (dopo lo spettacolo del referendum, lo è di più), ma ciò non significa necessariamente diventare uno Stato indipendente. Porre la questione solo in questi termini significa infatti dimenticare che non tutti hanno gli stessi interessi e significa imporre una divisione orizzontale, spaziale, dove ci sono invece differenze verticali (tra strati di classe e relativi interessi).

Né è inevitabile la coincidenza, anche se si è una nazione si può non avere uno Stato. Si possono infatti avere, e di fatto gli esempi sono innumerevoli, Stati plurinazionali, ed anche, talvolta, nazioni in più Stati (normalmente per ragioni esterne).

Nel recente referendum, in un clima molto violento, hanno ad esempio votato 2,2 milioni di persone su 5,3 milioni di elettori (più o meno il 40% degli aventi diritto) e lo hanno fatto al 90% per la secessione alla quale dovrebbe seguire nei prossimi giorni una dichiarazione unilaterale di indipendenza del Parlamento Catalano.

Ora, questo atto è chiaramente illegittimo sul piano della legalità spagnola, ovvero dell’unica esistente. Ed è un atto che in uno Stato che da cinquecento anni è chiaramente plurinazionale andrebbe condiviso in modo molto più ampio, dovrebbe essere, appunto parte di un nuovo progetto costituente di tipo federale (o di una dissoluzione confederale condivisa). La trattativa dovrebbe coinvolgere anche le altre parti della famiglia spagnola, e gli altri temi.

La domanda che pome lo “spagnolo plurinazionale” Monereo è quindi semplice: “spagnolo, catalano, basco, vuoi che la Spagna avii un processo costituente per diventare uno stato federale?” E quindi, “come vuoi articolare la tassazione? Come i trasferimenti? Come l’equità sociale?”, come gli abitanti della Extremandura devono essere trattati?

Ovvero, quale è il progetto di paese? E come si inserisce nel contesto europeo?

Sono tutte domande difficili, e sostanzialmente eluse.

La conseguenza è che mentre tutti i politici si affrettano a gettare benzina sul fuoco (a partire dal discorso del Presidente catalano Carles Puigdemont che proclama lo Stato Indipendente e chiede aiuto all’Unione Europea per ottenerne il riconoscimento), la legalità formale è completamente stracciata da ogni parte. La legge del referendum è stata promulgata in modo illegale dal Parlamento Catalano (senza i pareri preventivi necessari e senza le maggioranze previste) e dichiarata incostituzionale dalla Corte di Madrid. Il voto si è tenuto in condizioni altamente illegali, con seggi ritirati, violenze della polizia, voti incontrollati e incertezze di ogni genere.

Ma l’illegalità non è un problema che la democrazia possa sottovalutare, senza il rispetto delle procedure (ed anche la loro modifica in base ad un processo ordinato) resta solo la forza. Senza l’autorità resta la violenza, il puro fatto.

E resta anche l’egoismo di chi, avendo la metà del Pil della Spagna, reputa utile dividersi dai poveri per non dover condividere con loro (unilateralmente).

Se quindi mercoledì il Parlamento Catalano dovesse scegliere la linea dura le conseguenze sarebbero imprevedibili: la Spagna potrebbe reagire revocando l’autonomia e mandando commissari, potrebbe anche mandare l’esercito in caso di disordini; l’Unione Europea non potrebbe accogliere il nuovo Stato in cerca di riconoscimento (la Spagna porrebbe un ovvio veto, ma anche altri paesi potrebbero temere le conseguenze: in Italia, in Sicilia, in Sardegna ed in Lombardia, o nel sud Tirolo; in Francia in Corsica, negli Occitani, o Bretoni; in Belgio; in Germania; in Inghilterra, l’Irlanda e la Scozia).

Insomma, potrebbe essersi aperto il Vaso di Pandora.

Comments

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Eros Barone
Friday, 06 October 2017 23:50
Non è dai socialdemocratici opportunisti di “Podemos” che possono scaturire né un'analisi corretta né tampoco indicazioni valide per una soluzione. La prospettiva che tali forze perseguono, come emerge anche da questa intervista, è quella di una rigenerazione del capitalismo spagnolo e catalano, che non mette in discussione le basi del sistema (monarchia, UE e NATO).
La verità è che un’autentica proposta di referendum per l’autodeterminazione dei popoli non verrà mai presentata né dal governo spagnolo né da quello catalano. Entrambi i governi difendono la NATO, l’euro e l’Unione Europea. Nessun governo difende la sovranità della Catalogna o dello Stato spagnolo. Nessuno di questi governi borghesi difende gli interessi della classe operaia e dei settori popolari. Tutte le strade portano, in questo momento, alla stessa destinazione: il capitalismo, la dittatura della borghesia e l’imperialismo. Ma una cosa è certa: la classe operaia non deve essere una pedina della scacchiera in cui si giocano i rapporti di forza tra “i fratelli massoni del capitale” (Marx) ed i comunisti non devono lavorare per il re di Prussia. Nel frattempo, la classe operaia catalana, gran parte della quale proviene dalla Spagna, parla spagnolo e non appoggia la secessione anche a causa del fondamentalismo etnico dei suoi fautori (non la borghesia catalana che egemonizza quel movimento, non la borghesia castigliana che si appresta a reprimerlo 'manu militari'), sta subendo, ad opera dei secessionisti di quella regione, una delle più nefaste operazioni di divisione che siano mai state poste in atto. In Italia vi è, rispetto al processo innescato in Catalogna, solo una differenza di grado ma non di qualità, poiché lo scopo finale del referendum del 22 ottobre è, dal punto di vista politico-propagandistico, lo stesso. Si tratta, cioè, di un progetto cripto-secessionista, i cui effetti divisivi colpiscono, in prima istanza, la classe operaia italiana, laddove quel progetto, a causa dei bassi livelli di coscienza politica dei lavoratori e delle politiche concertative perseguite dai sindacati collaborazionisti e dalle forze opportuniste, non sembrano risultare sgraditi, in nome dei localismi manifatturieri, a buona parte delle sue frazioni lombarda e veneta.
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