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Tecnologia e potere nell’economia digitale

di Guido Smorto

Come apparirebbe ai nostri occhi un grattacielo se – anziché essere realizzato da un’impresa di costruzioni con capi cantiere che danno ordini e operai che eseguono – fosse innalzato seguendo le regole di organizzazione spontanea che hanno visto la nascita di Wikipedia o del software libero? Di questo ci parla Cory Doctorow in “Walkaway”, il suo ultimo e acclamatissimo romanzo.

Non è solo un problema di cantieri edili. In tutti i campi, da sempre, accettiamo le gerarchie – con il loro inevitabile portato di obbedienze e coercizioni – perché sappiamo che così possiamo raggiungere risultati (ad esempio, costruire un grattacielo) che sarebbero impossibili se fossimo lasciati soli e liberi di fare ciò che vogliamo. E spesso il modo più efficace per lavorare insieme è mettere qualcuno a comandare e supervisionare e gli altri a obbedire.

Ma se gerarchie, costrizioni, obbedienze, sono un male che accettiamo malvolentieri solo in quanto necessario, perché non pensare, sulla falsariga del modello Wikipedia, ad un mondo integralmente organizzato su forme di produzione decentralizzate e collaborative (commons-based peer production, secondo la dizione coniata da Yochai Benkler)?

Il debito di Doctorow nei confronti di Benkler e della teoria dei costi transattivi di Coase è dichiarato. Mercati e imprese sono strumenti alternativi di organizzazione della produzione: per ottenere una qualsiasi risorsa la scelta è produrla all’interno dell’impresa o rivolgersi al mercato: “make” or “buy”. E siccome agenti razionali tendono ad adottare la forma (organizzativa o contrattuale) che minimizza i costi, sono proprio questi differenti costi (di transazione) che plasmano l’attuale assetto dei mercati e delle imprese e ci spiegano, ad esempio, il trionfo della grande impresa novecentesca.

Tutto chiaro, dunque? Niente affatto, perché è qui che entra in campo la tecnologia. I cambiamenti tecnologici possono modificare l’efficienza relativa delle diverse scelte organizzative. E siccome internet, smartphone, big data, etc. etc., rendono il coordinamento e la collaborazione tra agenti indipendenti molto più semplice che in passato, ci sarà sempre più spazio per la produzione decentralizzata di beni e servizi attraverso contributi spontanei, resi al di fuori di un sistema di prezzi e senza bisogno degli ordini gerarchici di un’impresa.

Ma è davvero così? Il romanzo di Doctorow intende essere una metafora, più che una predizione, ma il dubbio è ormai insinuato e lascia aperti molti interrogativi. Così il simposio organizzato da Croocked Timber per celebrare l’uscita del libro ruota tutto intorno a questo dilemma. Se davvero l’innovazione tecnologica sta spostando gli equilibri tra le diverse forme di organizzazione a vantaggio di una diffusa collaborazione non retribuita, perché questa tendenza non esce dalle nicchie di Wikipedia e del software libero per realizzarsi finalmente su scala diffusa e globale, proprio come nel racconto?

Viene rispolverata per l’occasione la più celebre e longeva scommessa nata in rete, che da oltre dieci anni contrappone lo stesso Yochai Benkler a Nicholas Carr, celebre giornalista e scrittore, annoverato da sempre tra i più feroci critici della rete (autore in Italia de “Internet ci rende stupidi?” e “La gabbia di vetro”). In risposta alle prime formulazioni delle teorie sull’avvento di una nuova economia collaborativa tra pari, Carr ha sempre sostenuto che le forme di collaborazione spontanea e amatoriale fiorite all’inizio della rete sarebbero state presto irreggimentate entro il consueto sistema di mercato e di prezzi, con tanto di imprese, gerarchie e lavoratori salariati. Era solo questione di tempo. Fissarono così una scommessa. Era il 2006, avrebbero stabilito chi di loro avesse avuto ragione cinque anni dopo, nel 2011.

I patti sembravano chiari ma, nonostante siano passati oramai molti anni dalla data fatidica, i pareri su chi abbia vinto sono ancora oggi discordanti. Proclamandosi vincitore, Carr ha più volte sollecitato il pagamento della posta. Dai blog a Youtube – ragiona – quei siti che nel 2006 erano amatoriali sono diventati oggi professionali e gestiti secondo criteri di impresa. La maggior parte dei contenuti sono oramai distribuiti in rete secondo logiche aziendali (Hulu, Netflix, Pandora, Spotify, iTunes) e anche l’open software è affollato di grandi imprese che hanno soppiantato le comunità spontanee degli esordi. Certo – concede Carr – i contributi volontari sono il fulcro di siti di successo, da Facebook a Twitter, ma le piattaforme che ne facilitano lo scambio sono la quintessenza dell’impresa commerciale con scopo di profitto, e dietro molte pagine fb e altrettanti tweet ci sono spesso attori commerciali.

Anche Benkler è convinto di aver vinto. L’idea dei suoi avversari secondo cui la collaborazione spontanea sarebbe stata spazzata via da modalità di retribuzione dei contributi – osserva a ragione – non si è mai avverata. Digg – uno dei siti oggetto della scommessa – ha tentato la conversione in commerciale secondo il modello teorizzato da Carr, con il solo effetto di disperdere la propria comunità originaria a tutto vantaggio di Reddit. E poi Tumblr, Flickr, Tripadvisor, Yelp, Youtube, Vimeo, Reddit, e gli stessi Google Images, Facebook e Twitter, sono tutti esempi di contenuti nati dalla collaborazione spontanea e non retribuita. Anche se – ammette – spesso le piattaforme che facilitano questa modalità di produzione provano in tutti i modi a monetizzare questa collaborazione, e alcune ci riescono molto, molto bene.

Un bilancio contraddittorio, dunque. Per un verso, i contributi spontanei sono al centro dei modelli organizzativi di maggior successo in rete, niente affatto sostituiti da imprese e dipendenti. Per altro verso, questi contributi sono spesso irreggimentati da piattaforme che sfruttano la collaborazione spontanea per il proprio profitto, secondo un modello che Michel Bauwens ha efficacemente definito “netarchical capitalism”.

L’interrogativo aperto non riguarda solamente il successo relativo di modelli di organizzazione ma, più al fondo, il ruolo dell’innovazione tecnologica nell’organizzazione della società e cosa davvero spinga il cambiamento.

Il grande assente di questa riflessione – si osserva da più parti – è il potere. Eppure internet è il luogo dove il potere sulle risorse, sui mezzi di produzione e sulle loro possibilità di impiego si manifesta oggi nella sua forma più pura. La battaglia si gioca su diversi fronti: standard aperti o chiusi, proprietà privata o beni comuni, cooperazione o competizione, egoismo razionale o altruismo, forme di produzione decentralizzate o mercati e gerarchie.

Così, ad essere messo in discussione è l’impianto teorico su cui si fonda la costruzione della commons-based peer production. Credere che i cambiamenti della nostra società siano guidati dall’efficienza delle soluzioni organizzative alternative significa ignorare che qualsiasi scelta, cambiamento, decisione è innanzitutto una questione di potere. E che scelte più efficienti, ma poco attraenti per chi detiene il potere, saranno probabilmente bloccate da coloro ai quali non convengono. Insomma, la nostra società è lo specchio di ciò che vogliono i potenti, non di ciò che è più conveniente e razionale.

Un giudizio così sferzante è sicuramente ingeneroso nei confronti di una solida tradizione di pensiero – il potere è al centro delle migliori analisi in chiave di efficienza delle organizzazioni – ma colpisce nel segno se si guarda, invece, alla vulgata in voga in questi anni, che ha spesso abbracciato entusiasticamente il credo della produzione collaborativa, adottando una lettura deterministica del cambiamento tecnologico e trasformando così una solida teoria economica in una profezia dai toni a tratti mistici.

Se è il potere ciò che conta, chi sono i veri potenti oggi? Qui sono in molti a riconoscere gli errori di valutazione degli esordi. Mentre le prime letture puntavano il dito soprattutto sui giganti dell’industria del ventesimo secolo, dalle major di Hollywood all’industria musicale e delle telecomunicazioni – vecchi dinosauri che avrebbero ostacolato in tutti i modi il cambiamento – ben presto ci si è resi conto che erano i nuovi attori del mercato a diventare essi stessi i giganti di un’industria nuova, grazie a sistemi di controllo e dispositivi di potere nuovi – cloud computing, Internet of Things (IoT), fibra, big data, sistemi di sorveglianza e tecniche di marketing personalizzate – che hanno modificato l’architettura originaria di internet.

Tecnologia e potere, dunque. La tecnologia è centrale nel cambiamento perché definisce lo spazio del possibile: ci dice cosa si può e cosa non si può fare, quale azione è più facile intraprendere e quale è più difficile. La tecnologia favorisce certe azioni, relazioni, strutture organizzative, e ne frena altre. A parità di condizioni. Ma la parità di condizioni non esiste mai e una stessa innovazione tecnologica produce esiti molto diversi a seconda del contesto in cui si inserisce. La tecnologia lascia il campo aperto a modelli sociali differenti, ma quali di questi prevarranno dipende dalle scelte che compie la società nel suo complesso.

Di fronte a questo scenario in costante evoluzione, i fautori del libero mercato plaudono ad un sistema che – a loro dire – riduce i fallimenti del mercato e favorisce l’autoregolamentazione. Mentre nel campo progressista – proprio come nel romanzo di Doctorow – si combatte una battaglia tra una sinistra “prometeica”, che si affida alla tecnologia per elevare i contadini al rango di signori, e una “verde” che crede nella decrescita e promette di portare i signori al rango di contadini per salvare il pianeta.

Così la scommessa Carr-Benkler è più aperta che mai. La posta in gioco? Zero. Almeno su questo i due contendenti sono sempre stati d’accordo: la loro sfida, almeno quella, sarebbe esistita al di fuori di qualsiasi prezzo o commercio.

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