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Come funziona il populismo?

Istruzioni per l'uso e la disattivazione

Tania Rispoli

Cosa accomuna la proposta politica di Podemos, quella di Corbyn in UK e in Francia di Mélenchon? E ancora Trump, Grillo, Macron e in tutt’altro emisfero Morales? Poco e nulla se non l’accusa di aver flirtato con il populismo. Con lo sguardo diretto a queste realtà, Augusto Illuminati nel suo ultimo libro Profeti e populisti. Istruzioni per l’uso e la disattivazione (Manifestolibri, 2017) scrive solo a prima vista un pamphlet del tutto politico, che invece scava nel pensiero storico-filosofico cercando il punto di incontro tra politica e storia. Il tempo si dipana, al limite si ripete, seguendo lo schema delle sole strutture sottoposte alla contingenza. Non si tratta, si badi bene, dell’adesione quasi religiosa all’ontologia del materialismo aleatorio, ma di una metodologia integralmente althusseriana, dove dirimente non è tanto il modo con il quale si guarda alla storia, oppure come la si usa, ma la reazione minima tra un evento (al limite storico-teorico) e il suo effetto politico (quello che fu nella storia e che suscita ora nel presente).

Quali sono allora le caratteristiche strutturali del populismo? Per un verso, è l’espressione manifesta della crisi della democrazia rappresentativa.

La sfiducia dilagante nei partiti, il superamento della classica opposizione destra-sinistra, la sconfitta del keynesismo di prima e seconda generazione, la democrazia del web, sono state le condizioni di scollamento del «patto» rappresentativo e il sistema di cause plurali dell’emersione del populismo. Per un altro verso, invece, il populismo è sempre stato l’awkward guest della rappresentanza: i due fenomeni non coincidono, ma si somigliano, l’uno può assumere anche le sembianze dell’altro. La rappresentanza e il populismo, infatti, condividono quantomeno dei leader e un popolo (quasi sempre più simbolico che reale). È il tratto eminentemente profetico (l’autorizzazione o l’affidamento che permettono di prendere parola al «posto di» qualcun altro) a renderli spesso indistinguibili dal punto di vista della loro organizzazione interna.

La genealogia proposta in Profeti e populisti ripercorre a ritroso il tempo, andando più indietro rispetto al punto d’origine segnato dal classico Populism di Margaret Canovan. Prima ancora del People’s party statunitense e dei naròdniki russi, il profeta delle religioni monoteiste orientali e occidentali è il punto intermedio di trasmissione tra la verità divina e il popolo, come riconoscerà più tardi anche Machiavelli essere la caratteristica di Mosè, «mero esecutore delle cose che gli erano ordinate da Dio», istanza di combinazione tra la materia di un popolo già predisposto e una forma politica contingente. Eppure, proprio sul rapporto tra i bolscevichi e i populisti agrari, o se vogliamo, tra populismo e comunismo, l’ipotesi di Illuminati si fa (politicamente) più interessante, quando sottolinea il ruolo dell’óbšina nelle tarde lettere di Marx e nell’edizione russa del Manifesto (1882), considerato come il punto di partenza del comunismo attraverso l’esperienza comunitaria. I bolscevichi erano teoricamente contrari alla linea populista, ma praticamente la utilizzarono nelle loro rivendicazioni.

Il suggerimento è puramente pragmatico, e invita specialmente a misurarsi con la complicata realtà dei neo-populismi in atto, ovvero a riorganizzare alcune di quelle forze con tutt’altri mezzi, come d’altronde è già accaduto per guardare ai tempi più recenti con le manifestazioni globali di Ni Una Menos, e teniamo presente che anche quella rivendicazione contro la violenza maschile è a suo modo oggetto diviso tra la sua riduzione rappresentativa nei media e l’organizzazione di comitati, assemblee, gruppi e corpi. In nessuno di questi casi vale la contrapposizione pura e semplice tra l’assolutamente simbolico e il reale, tra il profeta (quasi sempre falso) e il popolo (quasi sempre inesistente), ma l’interazione concreta tra i due aspetti. Con alcune specificazioni.

Come il populismo somiglia alla rappresentanza, così ex parte populi, il risentimento popolare somiglia all’indignazione di spinoziana memoria. Ma con alcune differenze sostanziali, che qualificano per traslitterazione anche la diversità tra il popolo del populismo e un movimento politico e sociale. Nel primo caso, infatti:

Il rancore dissolve una comunità malata ma non ispira quella sana che le subentra, punta sull’ostilità invece che sulla fraternità, sulla persistenza della cicatrice e non sulla sua guarigione. Conserva il carisma – del prete, del pastore amorevole, non del profeta rivoluzionario – e lo conserva nella rappresentazione di un’unità mitologica (il popolo) che dovrebbe subentrare alla giustamente odiata e rovesciata élite. Spariscono le classi e la natura moltitudinaria degli oppressi […] Ci si assopisce nella nuova legittimità del popolo, mentre l’indignazione creativa della moltitudine e la stessa politicizzazione del dolore e del desiderio inclinano piuttosto a un potere illegittimo.

Questa distanza etica e passionale (relativa alla qualità delle passioni che si mettono in comune) ha un’immediata ricaduta anche sul piano dei contenuti politici, perché inaccettabile diventa dal punto di vista del «potere illegittimo» quella comunanza che lega nella forma dell’identità o dell’esclusione aprioristica dello straniero e del migrante, così tipiche delle opzioni politiche che troppo in fretta rivendicano confini, territorialità, stati. E ancora, si ribadisce che essenziale per lo sviluppo di quell’indignazione moltitudinaria è la messa in opera comune sul terreno del lavoro, della solidarietà, del mutualismo. Così se, da un lato, questa recente pubblicazione di Illuminati invita a confrontarsi con il populismo senza alcuna lente pregiudiziale, anzi con una buona dose di cinismo stilistico, dall’altra individua una serie di pratiche concrete, che hanno già prefigurato il superamento del problema della disintermediazione dei corpi intermedi senza per questo ricadere nella rivendicazione di essere un certo popolo o un certo partito.

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