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maelstrom

La radice del populismo è il «disagio» della libertà?

Un libro di Mattia Ferraresi

di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Mattia Ferraresi, Il secolo greve. Alle origini del nuovo disordine mondiale (Marsilio, pp. 175, euro 16.00), è apparsa su "Avvenire" il 20 febbraio 2018

Nel corso del primo anno trascorso alla Casa Bianca, i mutamenti della squadra di governo, le gaffe, i veri e presunti scandali hanno accompagnato quasi quotidianamente il cammino di Donald Trump. Non è d’altronde ancora chiaro quale impronta il miliardario newyorkese darà alla sua presidenza. E qualcuno dubita anche che riuscirà a portare a termine il suo mandato. Ciò nonostante Trump ha già lasciato una traccia profonda nella cultura americana. Non certo perché The Art of the Deal e gli altri suoi libri in cui spiega come avere successo nella vita siano entrati nel pantheon della letteratura d’Oltreoceano. Ma perché la sua vittoria alle presidenziali del 2016 ha causato per molti intellettuali un vero e proprio shock. Qualcuno ha iniziato a contestare il nuovo inquilino della Casa Bianca con un vigore sconosciuto nella politica americana, indicando nel «populismo» una minaccia per la democrazia e per i valori del pluralismo. Altri hanno invece cercato di trovare la spiegazione di quel successo dentro le trasformazioni della società. E – un po’ come faceva Erich Fromm in Fuga dalla libertà per spiegare l’ascesa dei fascismi – ne hanno rinvenuto le cause più profonde nel fallimento della promessa liberale al cuore dell’american dream.

È proprio questa la strada che segue anche Mattia Ferraresi, corrispondente dagli Stati Uniti per «il Foglio» e raffinato osservatore della politica americana nel suo Il secolo greve. Alle origini del nuovo disordine mondiale (Marsilio, pp. 175, euro 16.00). L’obiettivo è innanzitutto contrastare l’immagine di una democrazia liberale assediata dai «barbari» e portare alla luce quei processi che consentono di spiegare per quale motivo una fetta consistente della società americana abbia visto in Trump un credibile portavoce del proprio disagio. La fortuna dei leader e dei partiti populisti nasce infatti da quella che Ferraresi non esita a definire una «crisi esistenziale». Una «crisi» che ha innanzitutto motivazioni economiche L’immagine di un’America in forte ripresa economica, capace di lasciarsi alle spalle i ricordi della vecchia crisi, ha infatti qualcosa di vero, ma secondo Ferraresi finisce col dimenticare una serie di aspetti. Per esempio non considera l’esclusione dal mondo del lavoro di cui è vittima una parte tutt’altro che residuale della popolazione adulta, risucchiata dalla disoccupazione di «lungo periodo». Ma occulta anche la dilatazione della «classe criminale», composta da circa 2,3 milioni di detenuti nelle prigioni a stelle strisce (per un rapporto di 707 detenuti ogni 100 mila abitanti), la diffusione di oppiacei e di sostanze stupefacenti, la crescente solitudine di cui si sentirebbe vittima il 28% degli americani. Il successo di Trump, secondo Ferraresi, sarebbe invece venuto proprio da qui. Nelle elezioni del 2016 non è comunque emersa una «coscienza della classe disperata». Più semplicemente, la forza distruttrice del personaggio ha fatto breccia in un elettorato che si è lasciato sedurre dalla promessa di restaurare un passato perduto. 

Il senso di disperazione che Ferraresi ritrova in America è in realtà una condizione più generale, che anche nel Vecchio continente è alle radici della fortuna delle formazioni «populiste». La «crisi esistenziale» non ha però solo una matrice economica. La «grande disillusione» contemporanea sembra infatti il sintomo di un disagio più radicale, per il quale il liberalismo non ha alcuna cura. Si tratta, in altre parole, del riflesso di quella contraddizione che lacera ‘strutturalmente’ la promessa liberale. È la condizione che scaturisce dalla disillusione rispetto alle promesse di auto-compimento della modernità: una sistematica frustrazione che «deriva dalla scoperta che perfino il più duttile degli ideali, grandioso propulsore di prosperità materiale e diritti, non ha strumenti per rispondere adeguatamente alle domande intorno al senso dell’esistenza, non crea rapporti umani duraturi, non genera certezze esistenziali, ma ingigantisce ansie e fragilità».
La spiegazione ‘filosofica’ che Ferraresi propone coglie senza dubbio alcuni aspetti di una crisi che effettivamente non si può ridurre né alla dimensione economica né tantomeno al risentimento nei confronti dell’establishment. Ma la novità – che alimenta la frustrazione dinanzi all’ottimismo dell’umanesimo progressista – è soprattutto che per l’Occidente la «Storia» sembra davvero finita, come voleva lo slogan di Fukuyama. La democrazia e il liberalismo definiscono un orizzonte privo di alternative. E il «populismo» – o comunque si voglia chiamare l’insieme di tensioni che attraversano le nostre società – diventa allora la forma di un disagio incapace di formulare risposte e di pensare il «progresso» in modo diverso dall’evoluzione tecnologica e dalla dilatazione del presente.

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