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Potenza ed eclissi di un sistema

di Matteo Gargani

Emiliano Alessandroni, Potenza ed eclissi di un sistema. Hegel e i fondamenti della trasformazione, con Introduzione di Remo Bodei, Mimesis, 2016, pp. 190, € 20, ISBN 9788857537436

Potenza ed eclissi di un sistema di Emiliano Alessandroni è un libro molto denso. L’autore ha l’innegabile merito di confrontarsi con oggetti e temi non semplici e nella cui comprensione si prodiga con impegno. Il volume – impreziosito da un’introduzione di Remo Bodei – è suddiviso in cinque capitoli.

Il primo affronta l’annoso problema del rapporto tra libertà e necessità in Hegel. La concezione hegeliana della libertà è difesa dall’autore contro le declinazioni «astratte» e «immediate» di quest’ultima, confrontandosi criticamente – tra le altre – con le tesi sartriane espresse nel 1943 ne L’essere e il nulla: “Il principale oggetto di riferimento di L’Être et le Néant risulta dunque la singolarità astratta, vale a dire una mistificazione che non può che generare un concatenamento di mistificazioni” (p.25). La radice filosofica di tale “mistificazione” sartriana è per l’autore da individuare in una linea teorica “egologica”, che partendo da Fichte e passando per Husserl, approda infine in Heidegger e per l’appunto in Sartre: “La strada per Sartre, come per Heidegger, era stata invero spianata dalla fichtiana fenomenologia egologica di Husserl, secondo cui ‘tutto ciò che esiste per l’io... esiste e vale all’interno della mia coscienza’, la quale ‘non esce mai da sé’” (pp.24-25).

Il pensatore invece che, a detta dell’autore, si sottrae al vicolo cieco della linea “egologica” e “coscienzialista” nel concepire la soggettività è Hegel. Questi soltanto riesce a cogliere la libertà nella sua autentica dimensione: “Libertà non costituisce dunque per Hegel un semplice far ciò che si vuole, ma un comprendere e sapersi muovere entro la struttura dei processi, dunque nell’afferrare i meccanismi interni della necessità, la quale richiede d’essere portata alla luce, a meno di non affidare interamente al caso la traiettoria del proprio agire” (p.36). È dunque sulla scorta di una tale immagine della libertà, poggiante sulla coscienza delle strutture determinate e dei condizionamenti oggettivi cui è sottoposto l’agire, che Hegel attinge un’adeguata comprensione sia della natura dell’intersoggettività sia delle sue istituzioni.

Il secondo capitolo guarda ancora a Hegel, cercando di liberarne la riflessione da alcuni – a giudizio dell’autore – sedimentati pregiudizi interpretativi. Alessandroni muove in tal senso un richiamo critico a quella “vulgata ermeneutica” che vede in Hegel il nunzio della fine della storia: “per Hegel il proprio presente non costituisce la fine della storia, quanto piuttosto l’inizio di una nuova epoca” (p.78). “Storicità della filosofia” e presunta tesi del primato ontologico – “Vi è dunque in Hegel un primato ontologico dell’Essere sulla Coscienza” (p.17) – sono così per l’autore i due veri punti di forza della riflessione hegeliana, contro la già citata lettura in chiave coscienzialistica “avanzata criticamente da Marx (sulla scia di Feuerbach) e diffusasi poi, con particolare fortuna, tanto a sinistra (cfr. “materialismo dialettico”) quanto a destra (cfr. Giovanni Gentile) nel corso del Novecento” (pp.69-70). In proposito è opportuno ricordare che proprio contro il presunto “coscienzialismo” hegeliano ha polemizzato già nel 2010 Domenico Losurdo, cui il libro di Alessandroni è non casualmente dedicato, attaccando sia l’interpretazione di Hegel che Marx offre nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 sia “la lettura di Hegel in chiave grottescamente coscienzialistica cui in Italia ha proceduto la scuola di Galvano della Volpe e di Lucio Colletti” (cfr. D. Losurdo, Hegel, Marx e l’Ontologia dell’essere sociale, «Critica marxista», 2010, 5, p. 41).

Il terzo capitolo analizza il ripercuotersi della rimozione dei punti di forza della riflessione hegeliana sui presupposti metodologici della critica letteraria. Qui è la figura di Franco Fortini e la sua critica alle “negazioni a basso prezzo” (p.88) ad uscirne fortemente valorizzata. Il trionfo del postmodernismo metodologico in autori come Homi K. Bhabha – “uno dei più abili intellettuali ad aver trasposto la cultura del postmodernismo, con tutti i suoi caratteristici limiti, nell’ambito dei Postcolonial Studies” (p.86) – sono i bersagli polemici del capitolo. Il presente parrebbe dunque esibire una sorta di Wiederholung della parata d’irrazionalismi diagnosticati nella lukacsiana Distruzione della ragione. I “distruttori” di oggi però, molto lontani dalla statura intellettuale degli Schelling e Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche criticati a suo tempo Lukács, sono epigoni di un postmodernismo intellettualmente declinante che si abbevera alle fonti dei “cattivi maestri” Gilles Deleuze (p.84) e Jacques Derrida (pp.86-87). La “ragione dialettica” e l’“oggettivismo tramandato dalla tradizione hegeliana” (p.85) sono per l’autore i migliori antidoti contro la mistificazione costante della realtà e polverizzazione teorica della sue “contraddizioni” portata avanti dai critici della letteratura postmoderni. In proposito difatti si afferma: “lo strumentario concettuale hegeliano (con il ruolo centrale svolto dal concetto di contraddizione) costituisce un armamentario prezioso con cui rilevare i nessi profondi in vigore fra gli elementi di un testo (senza i quali, ricordiamolo, questi stessi elementi non esisterebbero) e rivelare attraverso di essi l’essenza fenomenologica dell’opera, o ciò che potremmo definire il Werkgeist” (p.93). Il quarto capitolo – che avrebbe meritato maggiore spazio di discussione – affronta la delicatissima questione sia filologica sia filosofica della “alienazione” in Hegel. “Entäußerung” ed “Entfremdung”, che l’autore, seguendo la soluzione di Vincenzo Cicero che in casi come questi inevitabilmente implica pesanti ipoteche interpretative, traduce rispettivamente come “esteriorizzazione” e “estraniazione” (p.101). La contrapposizione tra una negativa «alienazione esclusiva» (rappresentata dalla Entfremdung) e una positiva «alienazione inclusiva» (rappresentata dalla Entäußerung) è ciò che Alessandroni cerca di mettere in luce soprattutto nella Fenomenologia dello spirito, ma anche in altri testi e lezioni hegeliane.

L’ultimo capitolo del libro copre più di settanta pagine. Benché collegato ai precedenti dall’argomento hegeliano, è connotato da un’autonomia strutturale e argomentativa che lo rende per molti versi una sorta di appendice al testo. I principi della trasformazione hegeliana tra Giovanni Gentile e Arturo Massolo analizza criticamente la lettura hegeliana di Gentile, cercando di andarne a discuterne i presupposti teorici. Il capitolo guarda anche attentamente all’evoluzione dell’interpretazione hegeliana di Arturo Massolo. Partendo da una prima fase più influenzata da Gentile e attraversando una fase intermedia vicina a Heidegger, Massolo giunge infine ad una netta valorizzazione di Hegel, che molto si distanzia dall’alveo interpretativo gentiliano entro cui aveva mosso i primi passi filosofici. L’ultima difesa hegeliana condotta da Alessandroni è contro l’attacco di Severino: “Il Divenire hegeliano resta imbrigliato in una forma di ‘nichilismo’, che costituisce per Severino ‘l’ontologia dell’Occidente’, consistente nell’affermare che ‘nel divenir altro il qualcosa diviene niente’, ovvero che ‘qualcosa è altro perché è nulla (è quell’altro che è il nulla)’” (p.116). Il “divenire” hegeliano si sottrae per l’autore al “nichilismo” entro cui Severino – “ciò che concorre a rendere non convincente la filosofia severiniana è il suo carattere eminentemente alienato, quel carattere poco incline a misurarsi con gli eventi del mondo” (p.137) – include l’intera tradizione metafisica post-parmenidea.

Al libro di Alessandroni ci sentiamo di muovere tre rilievi. Il primo è di carattere formale: l’autonomia dei cinque capitoli è tale da rendere il libro de facto più una raccolta di saggi uniti da un comune filo conduttore che una monografia. In alcuni casi, penso soprattutto all’interessante terzo capitolo sulla critica letteraria, lo scarto di temi e autori cui va incontro il lettore è troppo brusco rispetto alle parti precedenti e successive del libro. Il secondo rilievo è di carattere metodologico: l’autore si muove quasi esclusivamente a livello di fonti primarie. Sarebbe stato invece opportuno collaudare criticamente le tesi interpretative proposte confrontandosi – comunque se ne voglia giudicare la natura – anche con la più recente letteratura hegeliana a livello internazionale, che invece nel libro risulta assente. Così facendo si sarebbero potuti evitare generici riferimenti a “incauti esegeti hegeliani” (p.71) e a “una certa vulgata ermeneutica” (p.78), che restano invece nel libro riferimenti in larga parte indistinti.

Infine, una riflessione sull’odierno disarmo dell’ “hegelo- marxismo”, vero sfondo problematico – implicito – del libro di Alessandroni. Marx non solo ha affermato che «le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti», ma anche che “le categorie esprimono forme d’esserci, determinazioni d’esistenza”. Soprattutto su quest’ultimo punto è opportuno riflettere con il massimo disincanto. Se il postmodernismo costituisce l’espressione a livello culturale dell’odierna forma di produzione della ricchezza, l’imporsi delle sue categorie teoriche costituisce una conseguenza necessaria di un oggettivo spostamento degli equilibri e dei rapporti di forza sia a livello globale sia nei paesi occidentali. A fronte di ciò, l’ipotesi che un recupero dello strumentario concettuale hegeliano possa indicare da solo la strada per un cambio di rotta a livello politico-culturale rischia di risultare tesi ottimistica, forse in maniera eccessiva.

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