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Italia. Una silenziosa “secessione reale”

di Sergio Cararo

Sembrano lontani gli anni della minaccia leghista della secessione della Padania, declinata poi con il federalismo introdotto nel 2001 nel Titolo V della Costituzione grazie al centro-sinistra, ma respinta nella sua versione come “Devolution” nel 2006 con un referendum costituzionale. Eppure in questi mesi, a cavallo tra le fine dell’esecutivo Gentiloni e l’arrivo del nuovo governo, i realizzatori “della secessione reale” hanno lavorato apertamente e stanno sistematizzando un apparato legislativo che sancirà, di fatto, una asimmetria inquietante nelle condizioni sociali e di vita tra chi vive in alcune regione del Nord e il resto del paese, con effetti pesantissimi soprattutto sul Meridione.

I referendum sull’autonomia celebratisi quasi un anno fa in Lombardia e Veneto, ai quali si è accodata – ma senza referendum – l’Emilia-Romagna (mentre qualcosa si agita anche in Toscana), hanno prodotto una situazione per cui queste regioni avranno la possibilità di decidere su una ventina di materie finora appannaggio dello Stato. Una convergenza bipartizan tra Lega e Pd che dovrebbe far riflettere.

La Regione Veneto, ad esempio, ha chiesto di avere potere esclusivo su materie che vanno dall’offerta formativa scolastica (potendo anche scegliere gli insegnanti su base regionale), ai contributi alle scuole private, i fondi per l’edilizia scolastica, il diritto allo studio e la formazione universitaria, la cassa integrazione guadagni, la programmazione dei flussi migratori, la previdenza complementare, i contratti con il personale sanitario, i fondi per il sostegno alle imprese, le Soprintendenze, le valutazioni sugli impianti con impatto sul territorio, le concessioni per l’idroelettrico e lo stoccaggio del gas, le autorizzazioni per elettrodotti, gasdotti e oleodotti, la protezione civile, i Vigili del fuoco, strade, autostrade, porti e aeroporti (inclusa una zona franca), la partecipazione alle decisioni relative agli atti normativi comunitari, la promozione all’estero, l’Istat, il Corecom (comitato regionale di controllo) al posto dell’Agcom (autority per le comunicazioni), le professioni non ordinistiche. Infine, ma non certo per importanza, c’è la questione fiscale con la pretesa delle regioni “autonome” di trattenere il gettito fiscale senza partecipare alla redistribuzione nazionale a cui è destinata la fiscalità generale. Nei fatti lo Stato verrebbe espropriato della competenza tutti i grandi servizi pubblici nazionali e verrebbe meno qualsiasi possibile programmazione infrastrutturale comune a tutto il Paese.

Gli effetti di questa secessione reale misurano varie grandezze. Ci sono le grandi ambizioni dei governatori di Lombardia e Veneto e le piccole ambizioni dei campanili. Italia Oggi riferisce di un esponente della Lega, Valter Zanetta, che è riuscito ad ottenere un referendum per staccare la provincia di Verbano-Cusio-Ossola dal Piemonte e annetterla alla Lombardia. Zanetta, in vista del referendum (si svolgerà il 21 ottobre), spiega consapevolmente gli effetti di questa operazione: “Il Piemonte rischia di non avere un futuro, mentre la Lombardia, di fatto, è uno Stato. E con i nuovi spazi di manovra concessi in seguito al referendum sull’autonomia può garantire ancor di più chi ne fa parte”.

La concezione della Lombardia come uno “stato autonomo” da quello centrale, in realtà sta marciando da tempo e con un passo felpato che ha sostituito le rodomontate sulla Padania.

Come abbiamo denunciato e documentato da tempo sul nostro giornale, da anni va avanti un processo “centrifugo” che vede alcune aree del paese (in particolare Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) marciare in proprio e alimentare una asimmetria che sta “meridionalizzando” tutto il resto del paese. Un Italia che diventa Baviera al nord e Grecia al Sud. Con effetti sociali e politici devastanti.

In queste tre regioni del nord si concentra l’80% dell’export e del valore aggiunto prodotto dalle imprese. Un modello di successo dovuto alla laboriosità? Piuttosto un risultato agevolato anche dal continuo afflusso di risorse economiche ed umane da parte del resto del paese e dallo Stato. I finanziamenti pubblici arrivati in queste aree da tempo superano quelle redistribuite nel Meridione. E’ stato un processo silenzioso ma reale che da un anno a questa parte è diventato più rumoroso e sta diventando realtà.

Più volte abbiamo sottolineato come questo processo sia stato incentivato nei fatti dalla divisione del lavoro realizzata all’interno dell’Eurozona e dell’Unione Europea. Le aree del nordest lavorano in strettissima connessione con la filiera produttiva tedesca estendendo a dismisura il sistema della sub-fornitura. L’attrazione magnetica delle regioni italiane più ricche verso il nucleo duro centrale europeo (basti pensare alle euroregioni) è diventato via via più potente in questi anni di totale obbedienza ai diktat della Ue.

Pochi sembrano aver prestato a tutto questo la dovuta attenzione, mentre forze centrifughe e poteri forti logoravano le prerogative dello Stato e la sua funzione di redistribuzione delle risorse e attenzione alla coesione sociale del paese, una “mission costituzionale” che il Patto di Stabilità europeo, nazionale e locale ha demolito, fino a introdurre nel 2012 nella stessa Costituzione quell’art.81 (obbligo del pareggio di bilancio) imposto dalla Bce e votato da tutti i partiti di centro-sinistra e centro-destra.

Al momento l’unica reazione politica è stata una petizione lanciata da Gianfranco Viesti, economista e docente dell’università di Bari e che ha raccolta circa seimila firme. Il comitato promotore della petizione è composto per lo più da docenti universitari ma l’hanno sottoscritta anche alcuni esponenti politici, tra cui Saverio de Bonis e Maria Marzana, parlamentari M5s, Roberto Speranza, deputato LeU, Elena Gentile e Andrea Cozzolino, eurodeputati Pd, Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, Luigi Famiglietti e Eugenio Marino della direzione Pd, Miguel Gotor, ex senatore Pd.

Alcuni di questi firmatari sono giovani e magari non hanno determinato le scelte fatte dai governi del centro-sinistra dagli anni ‘90 al secondo governo Prodi. Ma alcuni, ad esempio, erano in parlamento quando è stato votata l’introduzione dell’art.81 in Costituzione.

Una volta dichiarata la nostra totale opposizione a questa secessione reale del paese perseguita dalla Lega, dai suoi governatori e dalla borghesia “imprenditoriale” delle regioni del nordest, non possiamo esimerci dal rammentare a tutti che il grimaldello rimane quella legge sul federalismo del 2001 approvata con referendum confermativo (al quale fummo tra i pochissimi a votare NO) e che porta il nome di Bassanini. Aver inseguito allora la Lega sul suo terreno invece che difendere le prerogative dello Stato (anche a brutto muso), è una delle cause per cui oggi il ceto politico e sociale più reazionario ed egoista è al governo. Tant’è che regioni come l’Emilia-Romagna e la Toscana (più defilato per ora è il Piemonte) stanno perseguendo la strada di Lombardia e Veneto.

E’  tempo che si prenda coscienza del pericolo di questa secessione reale, possibilmente non solo nel Meridione, e si cominci ad agire concretamente per invertire un processo del quale va colta, nel merito, tutta la gravità. La parola d’ordine delle nazionalizzazioni contiene in sè un elemento generale e generalizzabile che va gestito in termini democratici, di classe e di riaffermazione della coesione e dell’uguaglianza in questo paese. Ma anche su questo è difficile immaginare il Pd come “compagno di strada” nella battaglia.

Comments

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Eros Barone
Saturday, 08 September 2018 18:54
Dal punto di vista della “lunga durata” di stampo braudeliano, è possibile affermare che i risultati delle elezioni del 4 marzo hanno riproposto una situazione storica di questo tipo: abbiamo al Nord gli eredi delle “Pasque veronesi” (1797) e al Sud gli eredi dei sanfedisti (1799-1814). Spingendo ancora più a fondo l’analogia storico-geografica, è possibile risalire al periodo dell’Alto Medioevo, più precisamente al VI secolo e, ancor più precisamente, al 568, quando, esauritasi la “renovatio Imperii” giustinianea a causa della guerra gotico-bizantina (535-553), ebbe fine l’unità politica della penisola italiana con l’invasione dei Longobardi e con le aspre lotte (ma anche con i taciti accordi) che seguirono fra questi e i Bizantini, laddove l’equivalente attuale dei primi è rappresentato dalla Lega e l’equivalente attuale dei secondi dal M5S. Una singolare coincidenza (la Pasqua del 568 cadde l’1 aprile, esattamente come la Pasqua del 2018) contraddistingue i limiti estremi di un periodo intermedio di 1450 anni, quasi che, ad una simile distanza cronologica, il ciclo della disunione, esaurita la breve parentesi dello Stato nazionale unitario (1861-2018), riprenda, implacabile, a svolgersi. La silenziosa "secessione reale", oltre a confermare il fallimento politico dell’unità d’Italia, sembra prefigurare, nel caso, sempre possibile e tutt’altro che da escludere, di una grave crisi politica internazionale, la spaccatura e la separazione dell’Italia: il Nord alla Germania e il Sud agli USA (come parve possibile nel periodo 1943-1945 con il separatismo siciliano), i quali USA, è bene ricordarlo, detengono proprio nel Sud le loro principali basi militari. Su questo tema cruciale quali indicazioni si possono ricavare dai classici del socialismo scientifico? Federico Engels nella sua “Critica del progetto di programma del Partito socialdemocratico tedesco” (1891) distingue, con rigore materialistico e dialettico, le differenti situazioni della Germania, degli Stati Uniti d’America, della Svizzera e della Francia. Per gli Stati Uniti Engels riconosce che “la repubblica federale ancora oggi, nel complesso, è una necessità, data la gigantesca estensione territoriale” di quel paese. Il federalismo “sarebbe un progresso in Inghilterra”, perché “sulle due isole vivono quattro nazioni” [Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda]. Invece, la repubblica federale “già da tempo è divenuta un ostacolo nella piccola Svizzera, sopportabile soltanto perché la Svizzera si accontenta di essere un membro puramente passivo del sistema degli Stati europei”. Per quanto concerne la Germania, il giudizio di Engels è netto: “A mio parere, il proletariato può utilizzare soltanto la forma della repubblica una e indivisibile”. Per la Germania, una imitazione del federalismo svizzero sarebbe “un enorme passo indietro”. Ciò che divide “lo Stato federale dallo Stato unitario”, osserva Engels, è “il fatto che in ogni singolo Stato federato, ogni Cantone ha la propria legislazione civile e penale”. Ma, in un paese nel quale non convivano nazioni diverse con lingue e culture diverse (è questo il caso dell'Italia, oltre che della Germania), la legislazione dev’essere unitaria: e ciò corrisponde all’interesse di tutti i lavoratori. La conclusione a cui si giunge è che in uno Stato che attraversa una crisi profonda, quale l’odierno Stato italiano, il federalismo, aggravato dalle dinamiche divaricanti che l'Unione Europea ha innescato in questi ultimi decenni con le sue politiche economiche di taglio ultraliberista, è doppiamente pericoloso, perché nutre il germe del secessionismo, oggi voluto dalle forze più reazionarie delle regioni ricche dell’Italia del Nord a svantaggio dei lavoratori e della popolazione delle regioni più povere. I comunisti non possono dunque che avversare risolutamente il federalismo e il secessionismo, strumenti politici che mirano a separare e dividere i lavoratori. Lotta per l'unità nazionale e lotta per il socialismo tendono oggi a coincidere. La nazionalizzazione può essere quindi una delle parole d'ordine unificanti che promuovono e realizzano tale coincidenza.
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