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sole24ore

La febbre del debito è ai massimi storici

di Marcello Minenna

Il debito globale ha raggiunto un nuovo picco, salendo a 260 trilioni di $ (260.000 miliardi) nel secondo trimestre del 2018. Il rapporto globale tra debito e prodotto interno lordo (PIL) ha superato il 320%. Del totale, il 61% (160 trilioni) è debito privato del settore non finanziario mentre solo il 23% è rappresentato dal tanto vituperato debito pubblico.

Gli USA hanno emesso oltre il 30% del debito pubblico in circolazione, con una decisa accelerazione negli ultimi 2 anni di gestione Trump seguiti da Giappone e Cina e, a distanza, dai Paesi dell'Eurozona. Il valore riportato dalle agenzie pubbliche cinesi va preso con le molle per via dei ripetuti casi di falsificazione delle statistiche, anche da parte di funzionari governativi. È verosimile dunque che non solo il debito pubblico del Dragone ma anche quello delle sue corporations, già il più alto al mondo, sia parecchio superiore alle stime ufficiali.

Ovviamente vale la regola generale per cui il debito, sia pubblico che privato, tende a crescere nel tempo insieme alle dimensioni dell'economia, a meno di improvvisi default. Dunque l'elevata dimensione del debito complessivo non può fornire informazioni sulla sua sostenibilità. Né è possibile inferire che un debito complessivo basso sia segno di stabilità finanziaria; anzi è più verosimile che implichi una completa mancanza di fiducia da parte dei mercati tale da escludere qualsiasi prestito, come è stato nel caso dell'Argentina nei 5 anni successivi al default del 2002.

Pertanto è opportuno valutare le dimensioni relative del debito rispetto al PIL.

Copia di GRAFICO debito

La situazione in questo caso si ribalta: il Lussemburgo finisce al primo posto con un debito totale pari al 434% del PIL, quasi tutto composto da debito corporate. A distanza appare il debito del Giappone con il 373% ed un peso preponderante della componente pubblica (216%). L'alta incidenza sia del debito pubblico che di quello privato pone Francia, Spagna e Regno Unito ai primi posti della classifica mentre l'Italia appare solo al 9° posto, con un rapporto debito totale/PIL ben bilanciato al 265% per via del basso debito delle famiglie e delle imprese che compensa l'alto debito pubblico.

Ma anche un rapporto debito/PIL basso non è sintomo di virtù o salute economica. Al fondo della classifica spiccano i casi paradossali di Argentina e Turchia. Nonostante entrambi i Paesi abbiano debiti sotto controllo (inesistente il debito privato argentino e quello pubblico turco, al 2,5% del PIL) stanno rischiando comunque di perdere l'accesso ai mercati per via di una crisi valutaria e di bilancia dei pagamenti. In un paradosso apparente, i tassi di interesse a breve termine sono al 70% nell'Argentina a basso debito e stabilmente negativi nel Giappone del debito monstre.

Fare riferimento al solo dato del debito pubblico, magari rispetto a soglie arbitrarie, per emettere sentenze sullo stato di un‘economia è sempre una cattiva pratica che porta a conclusioni erronee. I criteri che il mercato utilizza per valutare la solvibilità del debito sono multipli: la percentuale di debito detenuto da investitori esteri/nazionali, il fatto che il debito sia emesso sotto la legge nazionale/estera, la crescita dell'economia, la ricchezza finanziaria dei cittadini, l'efficienza della raccolta fiscale, la sovranità monetaria etc. Nel caso del Giappone ad esempio, il 90% del debito è nelle mani della banca centrale, dei fondi pensione e banche domestiche ed è controbilanciato quasi perfettamente da un'elevata ricchezza finanziaria delle istituzioni pubbliche. È quasi impossibile immaginare una crisi di fiducia sulla solvibilità del governo.

Allo stesso modo, il fatto che i Paesi dell'Eurozona non possano gestire la leva monetaria in maniera autonoma rende de facto tutto il debito pubblico come se fosse assoggettato a legge estera, e cioè enormemente più complesso da gestire. Inoltre questo debito è in media per oltre il 70% detenuto da investitori esteri, più reattivi nel negoziare sui mercati secondari e nell'alimentare fenomeni di vendita generalizzata.

Peraltro le statistiche ufficiali non considerano il tema scottante del c.d. “debito implicito”, rappresentato dal valore attuale degli impegni finanziari presi dai governi in tema di pensioni e salute. In generale questi debiti futuri non appaiono nella contabilità nazionale per fondati motivi legati alla difficoltà di stima di costi che sono spalmati su orizzonti temporali lunghissimi; se si dovesse tenere conto di questi oneri occulti il debito USA ad esempio quintuplicherebbe ad oltre 100.000 miliardi. Sorte peggiore toccherebbe a Spagna, Lussemburgo ed Irlanda che vedrebbero salire il proprio debito di oltre 10 volte, fino ad oltre il 1.000% del PIL nel caso irlandese. L'Italia invece dal punto di vista del debito implicito - a legislazione vigente - risulta il Paese europeo più virtuoso.

A livello globale è più che altro il debito corporate a preoccupare gli operatori sui mercati. Un settore privato molto indebitato è vulnerabile a tassi di interesse più elevati, dopo anni di tassi artificialmente bassi che hanno favorito l'espansione dei prestiti e la riduzione del capitale di rischio delle imprese tramite il riacquisto di azioni proprie. L'instabilità intrinseca del funding attraverso il debito rispetto alla raccolta di capitale azionario suggerisce che il prossimo rallentamento della crescita potrebbe ribaltarsi in modo insolitamente forte sulla spesa per investimenti delle imprese. In Italia è già successo durante la recessione del 2008-2009: ogni punto percentuale di discesa nella crescita del credito ha provocato una contrazione degli investimenti di 4 punti nelle imprese più dipendenti dal credito bancario e di 2 punti in quelle finanziariamente più indipendenti. Un disastro da non ripetere.


@MarcelloMinenna

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