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La rivolta dei Gilet gialli. Storia di una lotta di classe

di Gilles Dauvé

Come indica il sottotitolo, gli autori non credono affatto in un capitalismo che avrebbe inglobato, dissolto o superato le classi. Una delle novità messa in evidenza dal movimento dei Gilet gialli, è stata quella per cui delle categorie proletarie, fino ad allora poco attive nelle lotte e che si erano poco mobilitate politicamente («invisibilizzate», direbbe un lessico alla moda) sono entrate in scena dove nessuno se lo aspettava. A Parigi, ad essere significativo è che i Gilet gialli abbiano scelto di occupare gli Champs-Élysées e gli eleganti quartieri chic ad ovest della città, i quali, malgrado la crescente gentrificazione, conservano l'immagine desueta di una Parigi di lavoratori. Abbandonando quelle che erano le strade preferite della manifestazioni sindacali, i Gilet gialli si sono auto-invitati a forza nelle case dei ricchi ed il più possibile vicino ai luoghi del potere. D'altra parte - e ciò è avvenuto in relazione al loro comportamento sociale - sono state adottate delle forme di raggruppamento di organizzazione e di «socialità» relativamente inedite. Forse perché la loro rivolta e le loro rivendicazioni erano rivolte in maniera più diretta allo Stato piuttosto che ai padroni?

Principalmente, spiega il Collettivo, perché la parte più svantaggiata dei proletari si trova ad essere sempre più direttamente sottomessa ad uno Stato che paga quasi tre quarti del reddito dei più poveri, i quali dipendono per l'appunto più dallo Stato che da un salario diretto. L'aumento delle tasse e il taglio dei sussidi, aggiunto al deterioramento dei servizi pubblici, li colpiscono almeno quanto lo fa la stagnazione, o l'abbassamento dei loro magri salari - quando li ricevono. Il libro fornisce anche quelle che sono delle cifre eloquenti circa la riduzione dei redditi che coincide con l'aumento della parte vincolata della spesa (Vale a dire che anche i dipendenti delle aziende fanno regolarmente ricorso ai poteri pubblici, ad esempio, per chiedere ad essi di proibire i licenziamenti). Ora, nei confronti dello Stato chiunque deve sentirsi coinvolto: tutti vogliono pagare meno imposte e tutti vogliono essere trattati meglio negli ospedali. E per districare quale sia la relazione tra la «rabbia» popolare e il peso «dietro il popolo della lotta di classe», è indispensabile la cronologia. Il libro descrive in dettaglio l'evoluzione che ha portato dalle rotatorie alle assemblee, e dai blocchi alla parola d’ordine del Referendum di Iniziativa Cittadina (RIC). Se l'8 dicembre 2018 rappresenta «il culmine del movimento, in concomitanza con la fine del suo progredire verso un superamento rivoluzionario», ciò è avvenuto perché non è andato verso il luogo «della riproduzione dei rapporti sociali». La priorità che è stata data ai sabati e alle manifestazioni (sovente vere e proprie sommosse), ed il passaggio dalle rotatorie ai centri urbani hanno fatto sì che «il confronto con il potere continuasse senza che si intervenisse sulla routine quotidiana del lavoro».

A partire dalla fine di dicembre del 2018 e dall'inizio di gennaio del 2019, ci sono stati meno blocchi, e più posti di blocco filtranti, per cui la rivolta del 16 marzo segnerà un secondo picco di violenza (dopo quello del 1° dicembre), nel momento in cui i Gilet gialli hanno allentato la loro pressione sull'economia, diminuendo così la propria forza. In compenso, abbiamo visto moltiplicarsi gli appelli ad un assai improbabile sciopero generale. Malgrado la «crescente urbanizzazione del movimento», la partecipazione dei «proletari urbani, più precari, più giovani, meno attaccati al "valore del lavoro"», l'incontro (soprattutto nella regione parigina) tra i Gilet gialli e i proletari vittima del razzismo, e l'abbozzo di un incrociarsi con le rivendicazioni ecologiste («Fine del mese, fine del mondo, la stessa lotta!»), la convergenza rimarrà a livello di slogan. D'altronde, riunire degli elementi eterogenei non è stato sufficiente per far sì che ognuno andasse al di là della propria particolarità. Superare le separazioni presupporrebbe che si attaccasse quello che è il centro di gravità di questa società, il suo cuore. Diversamente, l'«orizzontalità» mette tutti sullo stesso piano: l'assemblea dei Gilet gialli, che nei fatti ha «soprattutto la vocazione di governare la rotatoria», serve più da «spazio di auto-comprensione deL movimento», piuttosto che come «spazio organizzativo». Se ci si interroga sul «programma» sottinteso dei Gilet gialli, allora ad esprimerlo meglio, probabilmente è stato un testo che ha circolato nel sud-ovest nel mese di gennaio 2019, in cui si immagina una Francia del 2024 dove continua ad esistere il lavoro salariato e il mercato, regolati però da una società autogestita e decentralizzata, che gode di efficaci servizi pubblici, ed è soprattutto paritaria: dal momento che ciascuno si trova ad essere «decentemente» ricco, e dove non ci sarebbero «più super-ricchi». Un programma, questo, assai vicino a quello della sinistra riformatrice di sempre.

E «l'ora dello sciopero?», chiede il Collettivo. Lo sciopero del 5 febbraio 2019, nelle grandi aziende e nella pubblica amministrazione, non è che poi sia stato molto diverso dalle solite «giornate di azione» sindacali. Globalmente, anche se hanno incitato ed aiutato i lavoratori ad interrompere il lavoro in diversi settori, i Gilet gialli si sono ridotti ad essere un supporto a dei movimenti a cui il loro intervento non ha dato alcuna energia.

Tuttavia, la bontà di un libro che consigliamo vivamente di leggere, rende necessario esprimere delle riserve riguardo alcune affermazioni. Secondo il Collettivo, in tutto il mondo «è arrivato il momento della rivolta»: «appare sempre più chiaro come la manifestazione-rivolta tenda ad imporsi in quanto forma contrapposta alle abitudini del "movimento sociale".» I Gilet gialli sono dei proletari - spiegano gli autori - e il loro lavoro li avvicina alla «vecchia classe operaia», ma il loro «mondo sociale» rende loro difficile pensare ed agire da lavoratori salariati che si contrappongono ad un padrone: pertanto, nel loro caso, a «produrre un comune» non sarebbero le relazioni di sfruttamento. Ma allora tutta questa comunanza da dove proviene (o proverrebbe)? Dal fatto di essere precari, senza un lavoro regolare che offra un reddito minimo per poter vivere, o dall'essere totalmente esclusi? Una povertà estrema e permanente porterebbe i proletari a rimettere in discussione un capitalismo, in un modo tale che i salariati impantanati nel lavoro non sarebbero stati in grado neanche di tentare di immaginare? È difficile crederci!

Per arrivare a poterlo ammettere, si dovrebbe indubbiamente ragionare come se si fossero succedute due fasi del capitalismo. La prima sarebbe stata definita a partire dalla produzione all'interno di economie quasi del tutto nazionali: fabbriche gigantesche, concentrazioni operaie, occupazione, se non garantita quanto meno di massa, classe operai inquadrata nei sindacati e nei partiti del lavoro.

Ma oramai saremmo entrati in una seconda fase dominata dalla circolazione che si svolge in un'economia globalizzata: delocalizzazione industriale, priorità dei flussi e della logistica, occupazione sempre più rara e sempre più degradata, tracimazione delle organizzazioni sindacali. La prima fase sarebbe caratterizzata da dei conflitti che avvengono in un mondo strutturato attorno a delle grandi imprese e nel contesto di un movimento operaio organizzato. La seconda vedrebbe quest'ultimo cancellato, ed il passaggio dallo sciopero alla rivolta come principale mezzo di lotta.

La correttezza di una simile teorizzazione non è dimostrata dai movimenti sociali contemporanei, e l'esperienza stessa dei Gilet gialli ci ricorda che niente di decisivo è possibile finché quelli e quelle che si trovano «nella produzione» continuano a produrre. Inoltre, l'analisi svolta dal Collettivo lo conferma per la Francia del 2018-2019: è a partire dal «vero cuore dell'organizzazione sociale», vale a dire nello «sfruttamento del lavoro» che si renderà possibile una una rottura decisiva: il blocco e l'interruzione del lavoro rimane un momento necessario. Ma non per rinchiudersi nell'azienda, ma per uscirne e partecipare alle rivolte. La questione teorica non riguarda tanto il fatto di mettere a confronto quelli che sono i limiti rispettivi dello sciopero e del blocco, quanto quello di chiedersi a quali condizioni i 150.000 lavoratori del porto di Singapore e i 200.000 operai ed operaie della Foxconn di Shenzen potranno agire insieme ai 100.000 dipendenti del cluster logistico di Chicago. E per fare cosa?

L'insurrezione diviene comunista solo nella misura in cui non si accontenta di impadronirsi degli strumenti di produzione, ma comincia a trasformare tutto ciò di cui gli insorti si impadroniscono. Si tratta quindi di trasformare sé stessi, si tratta di creare collettivamente quelle che saranno le condizioni di un'altra vita, per gli altri e per sé stessi. Si tratta di rimettere in discussione il sistema salariale, e non di chiedere un'altra forma di reddito. E non si tratta solo di attaccare la relazione esistente tra salario e profitto, ma l'esistenza stessa del salario e del profitto, vale a dire la loro interdipendenza. Come scrivono giustamente gli autori: «La rivoluzione, la si fa attaccando [...] tutto ciò che ci rende ciò che siamo. La si fa, accettando e provocando una situazione nella quale si ignora di cosa sarà fatto il futuro». Uno dei punti di forza di questo libro consiste nel fatto che ogni parte è basata su dei casi specifici, spesso ben dettagliati, ripresi dalla stampa o dai giornali di lotta: rimane indimenticabile il resoconto di ciò che accadde l'8 dicembre 2018, a Tolosa, a Marsiglia e a Parigi.


Gilles Dauvé - pubblicato il settembre del 2020 su DDT21 Douter de tout…
fonte: DDT21 Douter de tout…

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