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Il corpo è mio e non è mio

Ida Dominijanni

In ”Vite precarie”, un libro di ormai dieci anni fa, Judith Butler infranse il principio femminista della assoluta e intangibile sovranità individuale sul proprio corpo – ”il corpo è mio e lo gestisco io” – scrivendo che ”il corpo è mio e non è mio”, perché se è vero che ognuna ne è titolare e può deciderne, è altrettanto vero che ogni corpo è inserito in una rete di relazioni e di significati dai quali nessuna, nel deciderne, può prescindere. Affermazione tanto più rilevante in una pensatrice in cui, a torto o a ragione, si è voluto vedere il vessillo della possibilità individuale di scegliere liberamente perfino l’appartenenza a un sesso o a un altro. Ma si sa che a Butler è toccato lo strano destino di essere sbandierata finché sembrava una paladina dell’onnipotenza individuale e di esserlo molto meno da quando si è capito che non lo è affatto: cose che capitano ai pensieri complessi in tempi di alternative semplici semplici. Tipo quella fra ”femminismo moralista” e ”femminismo libertario” in cui la semplicità dilagante, la chiamo così per essere gentile, ha deciso di gettarci.

Le parole di Butler mi sono tornate in mente di fronte al derby femminil-femminista che si è scatenato di recente a seguito della ormai famosa foto con cui Paola Bacchiddu, addetta alla comunicazione della Lista Tsipras, ha pensato di squarciare il colpevole silenzio dei media sulla lista suddetta scraventando su Facebook e sul mercato mediatico elettorale una foto di se stessa in bikini banco lato B.

L’operazione, peraltro perfettamente riuscita perché i media hanno abboccato alla trovata di Bocchiddu dandole perciò stesso ragione, a me non era piaciuta in primo luogo perché mi pareva una contraddizione in termini: quella foto pretende di fare pubblicità a una lista che si caratterizza per la sua opposizione netta al discorso neo-liberale con un manifesto ambulante dell’uso neoliberale del corpo femminile, controfirmato e fatto proprio da una donna sul proprio corpo. Ma proprio perché era un uso in prima persona avevo sospeso il giudizio: non perché pensi, come spiegherò meglio fra poco, che ognuna col proprio corpo ci fa quello che vuole, ma perché confidavo che Bacchiddu stesse tentando – per stare ancora al lessico di Butler – una risignificazione ironica, un capovolgimento parodico, dell’uso massmediatico corrente del corpo femminile. E che volesse altresì dare una scossa al moralismo da cui le candidature, femminili e maschili, della lista Tsipras sono tutt’altro che esenti, e non solo in materia di uso del corpo femminile. Aggiungo che tuttavia questo doppio supposto tentativo di Bacchiddu mi pareva incauto, perché destinato a essere fagocitato dal tritacarne mediatico che l’avrebbe a sua volta risignificato in modo prevedibilmente non favorevole né a lei né alla lista Tsipras (che, lo dico per inciso, mi sta a cuore e mi accingo a votare con convinzione).

Senonché mi sbagliavo. Un’altra foto di Paola Bacchiddu, anzi un selfie con in mano il libro di Annalisa Chirico ”Siamo tutti puttane” e a fianco l’autrice, mi informa che non c’era proprio nessuna risignificazione ironica né parodica: c’è invece la salda convinzione che col proprio corpo una ci fa quello che vuole, convinzione peraltro ribadita in questi giorni da un buon numero di mie amiche, armate della (prima) foto di Bacchiddu contro ”il femminismo moralista”. Ora intendiamoci: col femminismo moralista, quello targato ”Se non ora quando” che durante il Berlusconi-gate impugnò la dignità delle donne contro le escort, le ragazze-immagine e le Olgettine ”indegne”, la sottoscritta non ha mai mancato di polemizzare. Né all’epoca, perché la divisione fra ”degne” e ”indegne” era non solo bacchettona ma depistante per l’analisi della condizione e della soggettività femminile in tempi di post-patriarcato, di mercato del lavoro post-fordista e di biopolitica neoliberale. Né oggi, perché considero l’attuale cooptazione paritaria e neutralizzante delle donne (degne) nella rappresentanza ”paritaria” à la Renzi figlia di quel femminismo perbenista. Il che però non mi basta affatto a iscrivermi al partito del ”tutti felicemente puttane” facendomi scudo di una crociata antimoralista.

Nel generoso battage televisivo sul suo libro, non si può dire che Chirico non sia stata esplicita: si tratta, l’ha detto papale papale, di rivendicare non solo il diritto di fare del proprio corpo ciò che si vuole, ma anche l’ambizione di farsi strada, di sgomitare, di imporsi nel mercato del sesso, del lavoro e della politica con ogni mezzo, primo fra tutti per l’appunto l’uso del proprio corpo e delle connesse risorse della bellezza, della seduttività eccetera. Bisogna esserle grate di questa chiarezza, che associa il mito femminista dell’assoluta proprietà del corpo alla precettistica neoliberale dell’autoimprenditorialità e dell’autosfruttamento del proprio capitale umano, corporeo e sessuale. Siamo infatti precisamente a questo punto, come il Berlusconi-gate aveva già dimostrato: al rischio della completa sussunzione della libertà femminile nella libertà di mercato. E’ questo che vogliamo? E se sì, è lecito usare a questo fine l’antica bandiera femminista dell’autodeterminazione? ”Il corpo è mio e lo gestisco io”, slogan inventato quarant’anni fa per esprimere la volontà di riappropriarsi del corpo femminile sequestrato dal patriarcato, può servire oggi a legittimarne spensieratamente la prostituzione nel post-patriarcato? Il radicale cambiamento del contesto in cui viviamo rispetto a quarant’anni fa non cambia anche il significato delle enunciazioni di allora, o non ci obbliga a precisarle? L’idea della sovranità assoluta sul nostro corpo, tipica della baldanza del primo femminismo, non dovrebbe cedere il passo a una concezione più matura del soggetto non-sovrano, come ci invita a fare Butler? L’allegra esibizione del nostro corpo in gonne a fiori nelle manifestazioni separatiste di mezzo secolo fa può trasferirsi oggi nella continua esibizione di selfie allineata al narcisismo mediatico maschile e femminile dilagante? L’uso mediatico del proprio corpo da parte di una donna può far conto su una padronanza su di esso ignara della guerra dei segni e dei significati in cui inevitabilmente si infila? E dove sta, in tutto questo, la differenza femminile? Da nessuna parte, evidentemente: tutti – neutro maschile: la lingua non mente mai – puttane, e così sia.

Qui mi dispiace, ma il moralismo non c’entra proprio niente, o se c’entra c’entra in posizione marginale e residuale. C’entra invece l’adesione piena, non so quanto inconsapevole e quanto opportunista, all’etica neoliberale del mercato e della competizione. C’è del godimento femminile in questa adesione, e se sì, potrebbe cortesemente porsi in ascolto di quante non ne godono affatto? Proporrei, se vogliamo confrontarci, di discutere di questo e di non confondere le acque parlando d’altro.

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