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micromega

Quale futuro per la socialdemocrazia?

di Carlo Formenti

Dopo trent’anni di offensiva ininterrotta e trionfale l’ideologia liberal liberista, screditata dalle clamorose falsificazioni che i suoi dogmi stanno subendo ad opera della crisi, sembra perdere qualche colpo. Il che non basta tuttavia a dettare un cambio di politica economica a una Unione europea che corre imperterrita verso il disastro. Per invertire la rotta occorrerebbero alternative politiche che né le sinistre radicali, ridotte al lumicino, né i sindacati, arroccati su posizioni difensive, appaiono oggi in grado di imporre. Possiamo almeno sperare che le socialdemocrazie, scuotendosi dal letargo in cui le hanno precipitate i teorici della “terza via” blairiana, tornino a svolgere un ruolo di “limitazione del danno”?

Qualche segnale in tal senso – sul piano culturale se non ancora su quello politico – si intravvede: penso al dibattito internazionale innescato dalla pubblicazione del libro di Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, che ha restituito legittimità alle tesi neokeynesiane; penso, anche, al rinnovato interesse per un autore come Karl Polanyi, riscoperto dai teorici dei beni comuni e della decrescita, che ne hanno riproposto l’analisi sulle catastrofi umane ed economiche che devastano le società abbandonate ai meccanismi spontanei del mercato (colgo l’occasione per segnalare che, nel gennaio prossimo, uscirà per i tipi di Jaca Book Una società umana, un’umanità sociale. Scritti 1918 – 1963, un’antologia che ricostruisce le tappe della maturazione intellettuale del grande storico dell’economia).

Tradurre questi fermenti intellettuali in proposte politiche è però tutt’altro discorso, per cui ho affrontato con curiosità e non senza una certa aspettativa la lettura del nuovo libro di Colin Crouch, Quanto capitalismo può sopportare la società, appena uscito da Laterza. In lavori come Postdemocrazia e Il potere dei giganti, Crouch aveva tracciato un quadro lucido e spietato dei meccanismi attraverso i quali il capitalismo contemporaneo sta annientando la democrazia, per cui mi aspettavo di trovare nel nuovo saggio una risposta radicale all’interrogativo sollevato dal titolo: i limiti della quantità di capitalismo socialmente sopportabile sono ristretti. Invece, pur citando a più riprese Polanyi, la sua risposta appare decisamente più moderata di quella data a suo tempo dal sociologo ungherese. Ma procediamo con ordine.

Prima di valutare criticamente la ricetta che Crouch propone alle socialdemocrazie per riconquistare il centro della scena politica, è opportuno esaminare la sua analisi delle contraddizioni del neoliberismo. Crouch distingue tre tipi di neoliberismo:

1) il neoliberismo puro, fondato sulla convinzione che la società funzioni bene solo se e quando tutte le sfere della vita umana sono governate da mercati perfetti; 2) il neoliberismo critico, che pur riponendo piena fiducia nei meriti del mercato in economia, ne riconosce l’incapacità di far fronte alle esternalità (per esempio al degrado ambientale) e di gestire i beni pubblici (per esempio alcuni servizi sociali di base); 3) il neoliberismo “reale” che è quello che oggi domina incontrastato il mondo. È stato quest’ultimo a tradurre la ricchezza in potere politico, non limitandosi a sovvertire il funzionamento delle democrazie rappresentative (trasformate in plutocrazie), ma arrivando a ignorare le stesse “leggi” del libero mercato.

Quest’ultimo aspetto è emerso, scrive Crouch, allorché la crisi ha evidenziato la dipendenza delle élite economiche dallo Stato, il quale, per salvare il capitalismo dalle sue stesse contraddizioni, ha imposto ai poveri di soccorrere i super ricchi. Una perversione non meno evidente nei casi di privatizzazione dei servizi pubblici: la loro l’esternalizzazione fa sì che lo Stato divenga il cliente di imprese che producono servizi in regime di monopolio, mentre i cittadini si trovano ridotti alla condizione di utenti privi di ogni potere.

Perché le socialdemocrazie (al pari dei sindacati, loro principali alleati) non sono state in grado di opporsi? La risposta di Crouch è articolata e complessa, ma mi pare che le ragioni fondamentali da lui indicate siano due. In primo luogo, la transizione al postfordismo, con la conseguente, drastica riduzione del peso numerico e politico della classe operaia, ha indotto le socialdemocrazie a cercare una nuova base elettorale, rivolgendosi a una massa interclassista di individui. In questo modo la cultura di questi partiti si è inevitabilmente avvicinata a quella delle controparti liberali, privilegiando le esigenze individuali dei singoli rispetto a quelle collettive dei raggruppamenti sociali. È nata così la Terza via dei Blair, dei Clinton e degli Schroder, di fatto appiattita sui dogmi liberisti. Quanto al sindacato, il suo indebolimento deriva dall’aver scelto una linea difensiva a esclusiva tutela delle residue minoranze di lavoratori industriali “garantiti”, ignorando le masse di lavoratori terziari sottoposti ai nuovi regimi di lavoro precario e flessibilizzato (in particolare donne, giovani e immigrati). Da questa impasse, sostiene Crouch, la socialdemocrazia, può uscire solo attraverso un drastico cambiamento di visione, passando cioè da una logica difensiva a una logica assertiva.

Tuttavia è proprio in questa pars costruens che il discorso di Crouch si rivela, a parere di chi scrive, deludente. In primo luogo, perché della Terza via blairiana viene criticato l’eccesso di appiattimento sulle posizioni liberiste, senza metterne in discussione il riconoscimento della necessità di adattarsi alle esigenze dell’economia globalizzata (per quanto ammetta che la globalizzazione non è un evento naturale, ma il frutto di precise scelte politiche, Crouch sembra accettarla come un processo non solo ineluttabile e irreversibile, ma anche ricco di potenzialità positive). Al punto che, in più occasioni, scrive che fra il neoliberismo di secondo tipo (quello critico) e la socialdemocrazia non esiste conflitto antagonistico e nemmeno differenze che non possano essere ricomposte in un compromesso sociale e politico.

Dove sta, dunque, il cambio di visione? Si riduce alla ricerca di un parziale riequilibrio dei rapporti di forza fra libero mercato e regolazione statale, sul modello delle socialdemocrazie scandinave, che Crouch cita ad esempio soprattutto per la loro capacità di gestire la rivoluzione postfordista attraverso regimi di flessi-sicurezza (allentare le tradizionali tutele giuridiche al lavoro dipendente in cambio di un reddito minimo garantito per tutti). Insomma, la montagna ha partorito un topolino. Mi pare inoltre che Crouch – pur consapevole del fatto che i rapporti di forza remano in direzione opposta, con super ricchi, governi nazionali, istituzioni transnazionali e media uniti nell’alimentare l’inerzia neoliberista e nel garantirne la schiacciante egemonia ideologica – non si renda conto del carattere utopistico del suo progetto politico.

A onore del vero, nelle ultime pagine del libro, si lascia scappare che l’impresa può sembrare disperata, ma poi si appella alla necessità e alla speranza di imporre una svolta attraverso un “cambio di retorica”. Nessun cenno all’eventualità che, piuttosto, la svolta debba e possa essere imposta attraverso nuove forme di lotta di classe. Non a caso, i rari riferimenti ai movimenti di opposizione popolare alle politiche europee sono associati ai timori per la loro caratterizzazione populista, xenofoba o neo estremista di sinistra. Per concludere: se qualcuno cercasse la conferma che fra cultura socialdemocratica e cultura liberal liberista non c’è più alcuna reale differenza, questo libro è in grado di offrirgliela.

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