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L’intellettuale combinatorio: Italo Calvino, l’impegno politico e la militanza culturale a cento anni dalla nascita (1923-2023)

di Alessandro Barile

italo calvino biblioteca di sanremo w630Introduzione

Viviamo anni di ricorrenze. Forse non potrebbe essere altrimenti: le vicende politiche, culturali e anche letterarie del primo Novecento ancora ci investono e ci interrogano. E così, a partire dallo scoppio della Prima guerra mondiale, è tutto un rincorrersi di ricordi e celebrazioni. Se ci fermassimo alla sola vicenda letteraria del nostro paese, nel solo 2022 si sono ricordati i cento anni dalla nascita di Luciano Bianciardi, Beppe Fenoglio, Raffaele La Capria, Giorgio Manganelli, Luigi Meneghello, Pier Paolo Pasolini... E nel 2023, va ricordato almeno il nome di Rocco Scotellaro. Autori su cui di fatto il dibattito critico e le iniziative editoriali si sono già compiutamente assestate molti anni or sono: alla fisiologica vastità della letteratura prodotta in occasione del centenario non ha corrisposto un valore significativo, di svolta o di ulteriore affermazione. Chi non era noto al grande pubblico tale è rimasto, mentre i “campioni” letterari (Pasolini su tutti) non hanno di certo avuto bisogno della ricorrenza tonda per sancire la propria popolarità. E poi c’è Italo Calvino, di cui si è celebrato il centenario della nascita proprio nel 2023.

Di tutte le ricorrenze, quella di (e su) Calvino è la più difficile da maneggiare. È l’autore italiano tra i più noti all’estero, e su cui tanto – forse troppo – si è scritto sin dalla metà degli anni Cinquanta. La bibliografia che lo riguarda è smisurata, contando diverse decine di migliaia di testi, monografie, articoli. Per di più, è un autore che ha trovato immediato riscontro positivo sia nella critica letteraria che nella ricezione pubblica di massa, stabilendo una felice quanto problematica relazione tra cultura pop e accademica. È d’altronde lui stesso a riconoscerlo, precocemente, nel 1956:

Tutti sono stati fin troppo favorevoli verso i miei libri, fin dal principio, dai nomi più autorevoli (amo qui ricordare De Robertis che m’ha seguito dal mio primo libro a oggi, e Cecchi [...] e Bo, Bocelli, Pampaloni, Falqui e anche il povero Cajumi che fu il mio primo recensore) ai giovani della mia generazione. I pochissimi critici sfavorevoli sono quelli che m’intrigano di più, quelli di cui m’aspetto di più: ma una critica negativa che sia seria e approfondita [...] non sono ancora riuscito ad averla1.

In seguito, un certo canone si assesterà sulla scorta di un filone critico-letterario fra cui spiccano i nomi di Alberto Asor Rosa, Mario Barenghi, Claudio Milanini, Giulio Ferroni2. Nonostante la “benevolenza” generalmente accordata all’autore, bisogna in ogni caso ricordare anche l’esistenza di un filone critico, a volte anche distruttivo, dell’opera di Calvino, per mano di importanti studiosi quali Franco Petroni, Renato Barilli, Alfonso Belardinelli o Antonio Moresco. Proprio Belardinelli reagirà all’alone celebrativo che avvolge l’opera di Calvino affermando che lo scrittore sanremese

È diventato[...]oggetto di un culto non di rado esclusivo e fuorviante. In lui molti scrittori e critici che hanno cominciato a pubblicare negli anni Ottanta hanno visto non tanto uno scrittore fra gli altri (uno scrittore particolarmente caratterizzato da alcune idiosincrasie: diffidenza per il romanzo, edificante moralismo umoristico, schematizzazione dei personaggi e delle situazioni ecc.) quando invece lo scrittore par excellence, l’incarnazione più perfetta e confortante dell’idea stessa di letteratura3.

Se questo è lo stato dell’arte, come scrivere un articolo su Calvino? Quale punto d’osservazione, e quale taglio dare a un contributo che, inevitabilmente, non potrà che ribadire quanto già stato scritto, e che costitutivamente non potrà condurre ad alcuna acquisizione originale, pure circostanziata e marginale? In realtà il ricordo di Italo Calvino permette di tornare a riflettere su di un aspetto specifico della cultura italiana del Novecento, di rievocare quella figura dell’intellettuale “impegnato” così tipica di una stagione particolare dello scorso secolo, e da tempo declinata. I caratteri dell’impegno politico-culturale di Calvino negli anni che vanno dalla Resistenza ai primi anni Sessanta (1944-1964) incrociano la stagione più animata del partito nuovo togliattiano (di cui coincidono di fatto i limiti cronologici del 1944 – svolta di Salerno e “rifondazione” del Pci come partito di massa – e il 1964, anno della morte del segretario del Pci Palmiro Togliatti), ma al tempo stesso se ne distaccano, in forme vieppiù progressive a partire dai primi anni Cinquanta. Calvino è dunque al tempo stesso sia un tipico “prodotto” della nuova cultura italiana scaturita dalla Resistenza, sia un suo contestatore, dal suo avamposto (biografico e ideale insieme) settentrionale. Un avamposto segnato da una cultura parzialmente aliena ai riferimenti culturali e letterari del partito comunista, e sin da subito (pensiamo alla vicenda Vittorini, di cui Calvino fu sempre amico e sodale), in latente polemica4. Questo dunque lo sguardo che vogliamo dare, forse ancora utile alla comprensione di alcuni fatti culturali dell’Italia del Novecento.

 

Partigiano, intellettuale, militante: il multiverso culturale del giovane Calvino

Le notizie biografiche sul giovane Calvino sono ampiamente note. Ci interessa, qui, individuare alcuni motivi che incideranno sulla sua peculiare formazione culturale e poi politica. In primo luogo, l’ambiente familiare. Calvino è infatti figlio di una borghesia massonica, antifascista, moderatamente libertaria, dedita al proprio lavoro scientifico e poco interessata al posizionamento politico. Il padre, Mario Calvino, è un agronomo di Sanremo, per lunghi anni fuori d’Italia (in Messico e poi a Cuba), poi al rientro in Italia (1926) professore di agricoltura tropicale a Torino dopo aver prestato giuramento al Re e al fascismo e aver preso la tessera del Pnf. La madre, Eva Mameli, sarda, è anch’essa accademica, professoressa di botanica all’Università di Cagliari. Il giovane Calvino è quindi immerso in un ambiente culturale particolare, periferico anche se nel nord Italia, e di scienziati atei e “razionalisti”, laddove incontrastata dominava una cultura nazionale, d’ascendenza gentiliana e crociana, pressoché fondata sulle scienze umane e sulla figura del letterato-umanista, imbevuta di retorica e di vichiano “senso della storia”.

Il disinteresse familiare all’engagement politico si riflette sulla formazione di Calvino, che arriva allo scoppio della guerra e alla Resistenza senza un chiaro coinvolgimento politico, forte piuttosto dello scetticismo illuminista appreso dai genitori. Eppure, sin dal luglio-agosto 1943, darà vita al Movimento universitario liberale, segno soprattutto della difficoltà di accettare, dopo tanta retorica, una fine così ingloriosa e “burocratica” del fascismo5. Poco dopo, in seguito all’uccisione di Felice Cascione (medico e comandante partigiano) per mano fascista, Calvino aderisce alla Resistenza, entrando poi a far parte della seconda divisione garibaldina intitolata proprio a Cascione (dal giugno 1944). Calvino si avvicina da subito alle formazioni partigiane comuniste, pur non nutrendo, in questa fase, alcuna specifica convinzione politica, men che meno in senso marxista. In questi anni, tra il 1941 e il 1944, Calvino suole definirsi anarchico, ma altre volte si dice liberale, il tutto, però, senza vera cognizione dei problemi e delle differenze:

A quel tempo le mie idee politiche e i miei scritti si orientavano verso un anarchismo non sostenuto da alcuna preparazione ideologica. Con Scalfari e gli altri amici, nell’estate del 25 luglio 1943, trovammo come piattaforma comune quella di dirci “liberali”, [...] il che era una cosa altrettanto vaga come il mio anarchismo. [...] La politica era ancora un gioco [...]. Venne l’8 settembre [...]. Dopo pochi mesi io entrai nell’organizzazione comunista clandestina6.

Anche la scelta di entrare nella Resistenza tra le fila dei comunisti «non fu affatto sostenuta da motivazioni ideologiche. Sentivo la necessità di partire da una “tabula rasa”, e perciò mi ero definito anarchico [...]. Ma soprattutto sentivo che in quel momento quello che contava era l’azione; e i comunisti erano la forza più attiva e organizzata»7. La scelta del comunismo è dunque, in questo momento, più “empirica” e problematica che convinta e meditata, e sicuramente svincolata dall’ideologia. Fu, piuttosto, un bisogno di fare, e di fare bene (ovvero organizzarsi al meglio), che lo portò quasi naturalmente verso le formazioni partigiane comuniste. Fu dunque una scelta combattuta, e inizialmente instabile. Da un lato ciò era il portato di un «indeterminato anticonformismo», dovuto – come riconosce lui stesso – a una «formazione culturale individualistica»8. Dall’altro, proprio in questo frangente – in una Resistenza giudicata come il momento decisivo della sua formazione umana e politica9 – Calvino maturerà quell’approccio distaccato e “antidogmatico” che lo caratterizzerà nell’avvenire:

«anche le mie adesioni, tutte le volte che ho aderito a qualcosa, che ho creduto di identificarmi con qualcosa mi sono portato dietro le mie riserve, i miei distinguo, e quel tanto di distacco che permette di guardare le cose da fuori»10.

Una riflessione simile, che Calvino ripercorrerà e aggiornerà continuamente lungo tutto il corso della sua vita, è contenuta già, in forma letteraria, nella descrizione e nei pensieri del commissario di divisione Kim (controfigura dello stesso Calvino), ne Il sentiero dei nidi di ragno, suo primo romanzo (1947): «Kim è studente, invece: ha un desiderio enorme di logica, di sicurezza sulle cause e gli effetti, eppure la sua mente s’affolla a ogni istante d’interrogativi irrisolti. C’è un enorme interesse per il genere umano, in lui: per questo studia medicina». E poco più avanti, in un confronto tra Kim e l’operaio Ferriera – un confronto che esprime simbolicamente la problematica del rapporto tra il congenito (e astratto) “indecisionismo” degli intellettuali e le convinzioni concrete (ma anche schematiche) della classe operaia – lo stesso Kim rifletterà tra sé e sé:

A Kim non dispiace che Ferriera non capisca: agli uomini come Ferriera si deve parlare con termini esatti, “a, bi, ci” si deve dire, le cose sono sicure o sono “balle”, non ci sono zone ambigue ed oscure per loro. Ma Kim non pensa questo perché si crede superiore a Ferriera: il suo punto d’arrivo è poter ragionare come Ferriera, non aver altra realtà all’infuori di quella di Ferriera, tutto il resto non serve11.

Il dissidio interiore anima tutta la costruzione del Sentiero. Il tentativo anti-retorico non è dovuto unicamente a una sua certa connaturata ritrosia verso le celebrazioni postume e posticce, di sapore ideologico, ma si traduce in una visione “di sguincio” che è laterale anche politicamente. Per questo la Resistenza raccontata da Calvino è quella della “lingera”, dei personaggi senza regole, marginali, furfanti, animati però da linfa vitale e da un sentimento di comunità che si riversa e sostanzia il discorso resistenziale come riscatto umano12. Nella celebre prefazione alla nuova edizione del Sentiero del giugno 1964, sarà lo stesso Calvino a chiarire la cornice letteraria, politica e anche ideologica che mosse la scrittura del romanzo, la scelta dei protagonisti e del particolare contesto umano e resistenziale:

“Ah, sì, volete “l’eroe socialista”? Volete il “romanticismo rivoluzionario”? E io vi scrivo una storia di partigiani in cui nessuno è eroe, nessuno ha la coscienza di classe. Il mondo delle “lingère”, vi rappresento, il lumpen-proletariat! (Concetto nuovo, per me allora; e mi pareva una gran scoperta. Non sapevo che era stato e avrebbe continuato a essere il terreno più facile per la narrativa). E sarà l’opera più positiva, più rivoluzionaria di tutte! Che ce ne importa di chi è già un eroe, di chi la coscienza ce l’ha già? È il processo per arrivarci che si deve rappresentare!13

Eppure un certo romanticismo traspare anche nelle forme ingenue della contrapposizione artificiosa tra ragione di partito (e quindi del commissario Kim) e ragione del popolo (che sia il ladruncolo Pin o l’operaio Ferriera), presentata in forma antinomica. Un’antinomia solo apparente, o piuttosto contingente, come riconoscerà Calvino stesso in una successiva polemica con Pasolini, di cui vedremo meglio i contorni in seguito. Meno declamatoria, forse, di una Resistenza raccontata in termini patriottici e con afflato risorgimentale, ma altrettanto ideologica nel contrapporre vicende umane e politiche in realtà intrecciate14.

In questa fase della sua vita (subito dopo la Liberazione) Calvino è già approdato a Torino, lavora già in Einaudi (dapprima come venditore di libri a rate, poi come redattore, infine come responsabile dell’ufficio stampa), ma soprattutto ha confermato la sua scelta comunista, entrando e approfondendo la sua militanza sia nella federazione locale del partito, sia come giornalista de «l’Unità», dove diverrà dal 1948 responsabile della “terza pagina”. La scelta, a questa altezza cronologica convinta e militante – sulle pagine de «l’Unità» molte saranno le cronache operaie firmate dallo scrittore – mantiene sempre i contorni della lotta interna tra un posizionamento politico chiaro e una visione del mondo problematica e anti-ideologica. In una sua ricostruzione del 1960 – ormai fuori dal Pci e sempre più distante dall’impegno politico – dichiarerà che

Il comunismo rappresentava quelli che erano (e in fondo resteranno) i due poli d’attrazione politica tra i quali ho sempre oscillato. Da una parte il rifiuto della società che aveva prodotto il fascismo ci aveva
portato a sognare una rivoluzione che partisse da una tabula rasa  [...]. Dall’altra parte aspiravamo a una civiltà la più moderna e progredita e complessa dal punto di vista politico, sociale, economico, culturale, con una classe dirigente altamente qualificata, cioè con l’inserimento della cultura a tutti i livelli della direzione politica e produttiva. [...] Per noi che vi aderimmo allora, il comunismo non era soltanto un nodo di aspirazioni politiche: era anche la fusione di queste con le nostre aspirazioni culturali e letterarie15.

Come evidente, la tensione ideale e politica che anima il Calvino comunista incrocia quella che aveva distinto l’esperienza del Vittorini del «Politecnico»: un comunismo inteso come strumento di sprovincializzazione di una cultura nazionale che veniva giudicata asfittica e autarchica, che desse piuttosto voce e rappresentanza alle istanze modernizzatrici presenti nella classe operaia del nord Italia e a quegli intellettuali che più erano rimasti agganciati alle correnti di pensiero internazionali. D’altra parte, gli anni in cui veniva rilasciata questa «autobiografia politica giovanile» erano gli stessi in cui Calvino e Vittorini avevano dato vita e dirigevano, Calvino a Torino, Vittorini a Milano, la rivista «il Menabò», che riprendeva, mutati i tempi e il contesto, le aspirazioni politico-culturali del «Politecnico». L’aspirazione verso una cultura umanistica che incontrasse la cultura tecnica e scientifica, fondendosi in nome di una razionalizzazione della politica. Ancora molti anni dopo, lo scrittore confermerà questa sua adesione al comunismo per motivi prettamente nazionali: «Ero entrato nella problematica del comunismo al tempo di Stalin ma per motivi di storia italiana, e dovevo fare un continuo sforzo per far entrare nel mio quadro l’Unione Sovietica»16.

Una ricostruzione chiarificatrice di questo multiforme rapporto tra Calvino – e insieme a lui di tutto il gruppo dirigente di Einaudi degli anni Cinquanta – e la politica comunista è data da Giulio Bollati, secondo il quale quel processo di svecchiamento della cultura italiana era «passione di rinnovamento, passione di sinistra, [...] dunque senz’altro comunista», e però esorcizzata «dai comunisti più ortodossi come velleitaria, intellettualistica, insomma poco o niente comunista». Una sorta di “terza via” che avrebbe contribuito «a una modernizzazione del paese non incupita da una restaurazione permanente, né illuminata da un puritanesimo rivoluzionario o votato al sacrificio o garantito da una delle tante varianti dello stalinismo»17. In realtà, quello che covava in una parte del ceto intellettuale nella prima metà degli anni Cinquanta, e che prenderà forme più esplicite dopo il 1956, sarà un generale affievolimento della tensione resistenziale, dei motivi e dei valori che avevano portato una parte importante della cultura italiana a impegnarsi politicamente. Anche qui, sarà lo stesso Calvino a riconoscerlo, pochi anni dopo il suo allontanamento dal Pci, a mo’ di bilancio di una stagione conclusa:

Dopo la guerra ci fu in Italia un’esplosione letteraria che prima che un fatto d’arte fu un fatto fisiologico, esistenziale collettivo. Avevamo vissuto la guerra e noi più giovani – che avevamo fatto appena in tempo a fare i partigiani – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, “bruciati”, ma vincitori, depositari esclusivi di qualcosa.[...] La tensione che la realtà storica ci aveva trasmesso andò presto afflosciandosi. Da tempo navighiamo in acque morte18.

Come detto, Calvino condivide in questo il destino di una parte del ceto intellettuale del paese, fino alla metà degli anni Cinquanta sostenitore della fondamentale unità della cultura con la politica, poi sospinto (dai “tempi” e dal mutamento di clima nella società italiana) a sciogliere questo vincolo in direzione di un impegno culturale più distaccato e specialistico: «il personaggio che prende parola in questo libro [Una pietra sopra] entra in scena negli anni Cinquanta cercando d’investirsi d’una personale caratterizzazione nel ruolo che allora teneva la ribalta: “l’intellettuale impegnato”. [...] S’osserverà come in lui, visibilmente anche se senza svolte brusche, l’immedesimazione in questa parte viene meno a poco a poco col dissolversi della pretesa d’interpretare e guidare un processo storico»19. Come evidenzierà con durezza Marina Zancan a proposito di Vittorini,

La contrapposizione dei due progetti [a proposito del «Politecnico»] culmina ma insieme si fissa in una contrapposizione esplicita e definitiva di posizioni diverse [...] che conclude per Vittorini, ed emblematicamente per molti altri intellettuali antifascisti, il periodo di lavoro interno all’organizzazione del Partito, accettato in fondo come propria limitazione in una situazione voluta eccezionale e di emergenza e rifiutato invece in fase di normalizzazione, in nome di una autonomia che anziché contrapporsi all’organizzazione del Partito come definizione di autonomia del ruolo dell’intellettuale organico alla classe, finiva con l’essere separatezza e, con questo in negativo, organicità allo sviluppo del Capitale20.

 

Italo Calvino intellettuale comunista: un itinerario possibile

Tra la Liberazione e il 1951 – anno in cui diraderà la sua attività giornalistica su «l’Unità» di Torino, privilegiando il lavoro a tempo pieno presso Einaudi – Calvino non mostra motivi di contrasto tra la sua azione politica e giornalistica, e il suo mestiere di scrittore e uomo di cultura. La dimensione politica e quella di intellettuale trovano in questi pochi anni la loro formula più compiuta e coerente. Anche sul piano letterario, laddove più manifesto sarebbe stato il dissidio pochi anni dopo, Calvino si fa promotore di una visione della letteratura in aperta polemica contro «l’idealismo», il «formalismo» o «l’irrazionalismo» che ne impedirebbero la vocazione all’impegno politico. La polemica è rivolta a quella letteratura d’evasione «la quale non è che il sigillo della nostra impotenza»21.

Eppure, l’irrigidimento politico-culturale comunista in seguito all’avvio della Guerra fredda spinge immediatamente Calvino verso tentativi di smarcamento dalla linea stabilita da Emilio Sereni in sede di Commissione culturale. Già nel novembre 1948 lo scrittore ligure avrà modo di polemizzare con Sereni sulle colonne di «Rinascita». Calvino non è convinto di questo piatto adeguamento alle direttive sovietiche in materia di letteratura, la costruzione di scrittori “ingegneri di anime” in grado di produrre solo “letteratura di denuncia”, edificante e “prospettica”, ma incapace di raccontare seriamente la situazione italiana, l’alienazione operaia e le contraddizioni «dell’io». Bisogna, piuttosto,

Far nascere una gamma di personaggi che inaugurino tutto un mondo di nuove fantasie, di nuovi contatti con la vita, la morte, l’amore, la città, la natura, una gamma di personaggi positivi ma non legnosi e retorici, che sia possibile sempre anche criticare, canzonare e compatire come ammirare ed esaltare, se si vuole che veramente siano il paradigma agli uomini nuovi, e che gli uomini nuovi possono criticarsi e migliorarsi riconoscendosi in loro22.

In effetti, il tentativo di Calvino, ribadito in un successivo articolo sempre su «Rinascita», è lavorare affinché il soggetto umano, con le sue inevitabili contraddizioni, non venga annullato nell’oggettivismo realista che compone il canone letterario comunista del tempo. Calvino non rifiuta la direzione ideologica, anzi, ne chiede una presenza continua ed effettiva:

Arriva un momento, per noi scrittori, poeti, pittori e così via, in cui la “direzione ideologica” (che io – ci tengo a dirlo – sento non come un limite o un “dovere” esterno, ma come uno strumento del mio lavoro, una condizione della mia libertà), si ferma e ci lascia soli, davanti al foglio bianco o alla tela, e allora non c’è cristi, dobbiamo cavarcela da noi23.

L’errore è nel procedere per direttive, piuttosto che come organismo unitario in grado di sostenere la ricerca artistica. Invece di stabilire un legame stabile tra i “produttori di cultura” e le masse, in funzione di una discussione sulle opere letterarie nella società, nelle fabbriche, nelle cellule, la Commissione culturale agiva dall’alto indicando una strada da seguire, senza organizzare gli strumenti per seguirla davvero. La richiesta di Calvino è rivolta ad un rafforzamento della direzione culturale del partito, ma un rafforzamento che non si traducesse in un mero dirigismo autoritario, ma in un più compiuto coordinamento24.

Tre anni più tardi, nel 1951, in occasione della preparazione dell’imminente VII Congresso comunista, Calvino presenterà alcune idee riguardo al ruolo e la funzione delle commissioni culturali (quella centrale e in seno alle federazioni locali). Il tono è simile a quello usato nelle polemiche su «Rinascita»: il problema non è situato nell’azione direttiva del partito sui fatti della cultura, ma sulla mancata efficacia di questa, sul mancato ruolo di coordinamento. Fatto salvo il necessario margine di libertà, che comporta anche il necessario diritto all’errore, da parte dell’artista o dell’intellettuale, quello che Calvino chiede è un intervento più deciso. La tensione è tutt’altro che ispirata a motivi liberali, quanto ad una riflessione più organica sul rapporto cultura-ideologia:

Qual è stata l’occasione più frequente nella quale il partito ha avvicinato personalità del mondo culturale? Di solito, l’invito a firmare un appello, un manifesto, una petizione, una protesta. Spesso ci ricordiamo di queste persone, alla cui collaborazione pure noi teniamo molto, solo quando c’è da firmare qualcosa, da figurare in qualche presidenza e così via. [...] L’apporto della cultura italiana alle grandi lotte politiche in corso, per la pace, per il lavoro e la solidarietà nazionale, per le libertà costituzionali, sarà nella misura in cui sapremo legare lo sforzo per la soluzione dei problemi culturali, che ogni intellettuale ha di fronte nel proprio specifico campo di ricerca, alla lotta politica ed ideologica della classe operaia25.

Il tono e i motivi di questa riflessione incrociano il tentativo togliattiano di liberare l’azione culturale comunista dall’impostazione di matrice “ždanoviana” datale dalla direzione di Emilio Sereni, fondata sull’azione per il disarmo bellico e la lotta per la pace, poco interessata ad intervenire nel merito dei problemi culturali nazionali. In questo senso, Calvino è perfettamente in linea con Togliatti, una linea che, di lì a poco, proprio in seguito alle deliberazioni del VII Congresso, vedrà la sostituzione di Sereni con Carlo Salinari (che dirigerà la politica culturale del Pci tra il 1951 e il 1955)26.

C’è però un altro motivo politico-culturale che animerà una certa tensione polemica di Calvino nei confronti del partito, e che segnerà di fatto l’avvio di quella divaricazione di posizioni in realtà già covata da qualche tempo, in sintonia con Vittorini o, anche, con Antonio Banfi La centralità che il partito assegna alla dimensione nazionale, a un certo meridionalismo che ispira i riferimenti culturali del gruppo dirigente comunista, quel privilegiare l’azione dei comunisti a Roma (ovvero nella tattica politica in Parlamento) e nel sud, piuttosto che verso la classe operaia del nord Italia, rende insofferente quel gruppo di intellettuali di stanza tra Torino e Milano, che individuavano nelle sollecitazioni provenienti dalle fabbriche del “triangolo industriale” lo strumento per aggiornare i riferimenti culturali del partito e dinamizzarne la sua proposta politica. In un intervento al congresso provinciale della Fiom di Torino del 1954, lo scrittore articolerà una riflessione che ribadirà negli anni successivi, fino a costituire uno dei motivi di fondo della rottura con il Pci del 1957:

Osservando la produzione culturale dalla Liberazione a oggi in Italia vediamo subito che, se c’è stata una notevole sensibilizzazione in un senso democratico della cultura italiana, questa si è verificata soprattutto per quel che riguarda i problemi delle campagne del Mezzogiorno. I libri, le inchieste, gli studi, gli articoli sul meridione si susseguono continuamente, ispirati da tendenze ideologiche diverse [...]. Il dramma della miseria del Sud è diventato – e non a torto – quasi il simbolo di tutti i problemi italiani [...]. Ma noi sappiamo che solo l’azione degli operai del Nord e la loro alleanza coi contadini poveri del Sud può determinare la rinascita d’Italia. Ed è chiaro che oggi la conoscenza dei problemi operai, la conoscenza del mondo delle fabbriche occupano un posto molto limitato nella cultura italiana [...]. Il mondo culturale italiano non conosce i problemi della fabbrica in modo proporzionato alla loro importanza fondamentale. [...] Ma è chiaro che esistono ragioni ben più di fondo: trattare dei problemi delle fabbriche vuol dire toccare il tasto decisivo della situazione italiana. [...] Se oggi si nota presso certi gruppi di intellettuali un certo fervore d’interessi per la “civiltà industriale”, questo avviene sotto la bandiera di ideologie americane: la sociologia americana, la psicologia d’impresa, la tecnocrazia, le “relazioni umane”. [...] La collaborazione tra lavoratori e intellettuali diventa indispensabile. Perché sono i fatti che devono parlare, i documenti, le testimonianze dirette27.

Vi si scorge in questo intervento un altro dei motivi tipici di Calvino, quello del proletariato come (soprattutto) fattore di razionalizzazione della società italiana, soggetto storico in grado di ammodernare il paese, sia dal punto di vista economico-sociale che da quello culturale. Dietro il rifiuto delle scienze empiriche di provenienza anglosassone vi si può leggere l’occasione persa, e l’insofferenza intellettuale di aver lasciato alla sociologia americana gli strumenti di studio della realtà operaia occidentale, come se lo studio di questa fosse un fatto “tecnico” o avalutativo. Il problema si riversava direttamente nelle questioni letterarie, verso un’idea di letteratura che doveva condurre non meramente “alla denuncia” delle condizioni di classe (in un senso, peraltro, “populistico” più che marxista), ma alla scoperta delle trasformazioni che si stavano verificando do sotto gli occhi del partito e del sindacato28. La sconfitta operaia della Fiom del 1955 nelle fabbriche del nord, e soprattutto alla Fiat, sarà una facile (ma anche semplificata dimostrazione delle ragioni di Calvino.

Il tentativo di mantenere unificato il momento politico con quello artistico condurrà Calvino, qualche mese più tardi (febbraio 1955), a definire una sua proposta letteraria ambiziosa perché più organica, ma non esente da contraddizioni interne e dal tentativo di mantenere aperto il rapporto con le posizioni comuniste sui temi dell’arte. Nella conferenza intitolata Il midollo del leone, lo scrittore tenta di salvaguardare il realismo dal confinamento ideologico di certo neorealismo. L’obiettivo polemico, sulla scorta dei recenti dibattiti sul Metello di Pratolini, è l’impianto “sociologista” che promana da certa letteratura neorealista, che eleva una «descrittiva geografico-sociologica» ad exemplum, al tempo stesso di denuncia e di riscatto. Il rischio è quello di un ritorno al naturalismo, condito dall’uso della lingua dialettale in senso etnografico, con la mira di edificare, su di un impianto nostalgico-romantico, quello stile “nazional-popolare” contro cui Calvino stesso combatteva insieme ad un certo marxismo milanese. E però, scrive Calvino, «noi pure siamo tra quelli che credono in una letteratura che sia presenza attiva nella storia, in una lettura come educazione»29. Vi è presente, a questa altezza cronologica, un «ottimismo volontaristico» piuttosto artificioso, e che infatti sfocerà in un pessimismo venato di rassegnazione solo pochi anni più tardi30.

 

Crisi e fuoriuscita dal Pci

Le molteplici crisi del 1956 (XX Congresso e il suo “rapporto segreto”, le tensioni del campo sovietico con la Polonia, l’invasione militare dell’Ungheria, ma anche la crisi di Suez) si riversarono sul dibattito dei gruppi intellettuali di sinistra, investendolo frontalmente. Per il Pci il 1956 si tradusse in una sostanziale tenuta politica e organizzativa, ma anche in una rottura con una parte del mondo della cultura di sinistra, che faticherà a ricomporsi, e che anzi condurrà a una nuova versione del rapporto tra partito e intellettuali, più distante e disorganico31.

Sulle colonne de «il Contemporaneo» – fondato nel 1954 – si svilupperà un lungo e celebre dibattito, che prese le mosse dal pamphlet di Roberto Guiducci Socialismo e verità, un atto di accusa verso le compromissioni politiche che avevano portato una parte della cultura italiana a stabilire una “malsana” unità tra cultura e politica: una unità fittizia, in cui era la politica (ovvero il partito comunista) a indirizzare la ricerca (scientifica o artistica) e a convalidarne i risultati32. Tra febbraio e luglio dunque la rivista comunista ospiterà una lunga sequenza di articoli, che per la prima volta posero (pubblicamente) l’attenzione sulle questioni relative alla teoria politica del Pci, al suo rapporto con Gramsci e con lo storicismo, al rapporto tra partito e produzione culturale, al modo in cui sviluppare una convergenza tra politica e cultura che non fosse sottomissione della seconda alla prima, sottomissione peraltro stabilita in base alle contingenti esigenze tattiche del partito in sede istituzionale (in particolare nella lotta parlamentare).

Italo Calvino intervenne nel dibattito tra i primi, ribadendo e anzi rafforzando la polemica sulla scorta di quanto era andato affermando nei due anni precedenti, soprattutto riguardo all’eccessivo “meridionalismo” del partito e alla scarsa considerazione che una certa “questione settentrionale” andava assumendo nel paese. Nel suo intervento intitolato Nord e Roma-Sud, esplicito sin dal titolo, lo scrittore ligure riprendeva i temi già presenti in Civiltà operaia, con una nota polemica ancor più accesa:

Molte delle nostre battaglie sono state solo di fronteggiamento dell’avversario, d’imposizione dei nostri temi e termini, d’acquisizione alla nostra cultura dei migliori prodotti della cultura borghese e di ripulsa d’altri. Ma elaborazioni profonde e moderne non ce ne sono state, neanche in termini continuamente proclamati come “realismo”, “linea Gramsci-De Sanctis”, “tradizione nazionale”. Abbiamo fatto del giornalismo, oppure della filologia. È mancato il resto: il pensiero. [...] La campagna “anticosmopolita”, per la “tradizione nazionale”, applicata a una cultura come l’italiana che dà così poche armi per capire il mondo moderno, e la cui letteratura degli ultimi tre secoli è una “letteratura minore”, [...] se ci ha fatto studiare meglio qualche cosa nostra, ci è stata pure di gran danno, secondando l’abitudine reazionaria alla sufficienza paesana [...]. Tra Nord e Roma-sud c’è un divario di punti di vista culturali che non giunge alla necessaria integrazione; [...] Non sarà questione di pochi anni, ma dobbiamo puntare su un panorama dell’Italia culturale in cui il Nord conti di più, in cui la forma mentis internazionalista domini in tutte le nostre azioni e pensieri33.

La requisitoria di Calvino investiva il Pci di due problemi, l’uno politico, l’altro culturale. Politicamente, aver concentrato le proprie energie sulla questione meridionale aveva allontanato il partito dalla parte più attiva, effervescente e radicale del paese (la classe operaia del nord Italia), l’unica che – attraverso la sua azione – avrebbe potuto portare a compimento l’unificazione economico-sociale del paese. Culturalmente, il rinchiudersi in una “tradizione nazionale” stava impedendo al Pci di raccogliere i fermenti artistici, ma anche scientifici, in grado di aggiornare la lettura che il partito dava della società italiana, attardata su modelli primo-novecenteschi in rapida dissoluzione. Ma anche sul piano più specificatamente culturale-letterario, una certa declinazione del “nazional-popolare” stava conducendo a una incomprensione e a un ritardo nella valutazione dei nuovi fenomeni letterari. È il caso, ad esempio, di Pasolini, la cui (mancata) ricezione nella pubblicistica comunista favorirà un nuovo motivo di polemica tra Calvino e la direzione culturale del partito.

Poche settimane dopo l’intervento sul «Contemporaneo» (Nord e Roma-Sud), Calvino accuserà la rivista di non riconoscere le novità culturali che si andavano muovendo nella letteratura più viva del paese:

Mesi or sono, avveniva uno dei fatti più importanti della letteratura italiana del dopoguerra e certo il più importante nel campo della poesia: la pubblicazione [...] della lirica di Pasolini Le ceneri di Gramsci. È la prima volta, da chissà quanti anni, che in un vasto componimento poetico viene espresso con una straordinaria riuscita nell’invenzione e nell’impiego dei mezzi formali, un conflitto di idee, una problematica culturale e morale di fronte a una concezione del mondo socialista. Il Contemporaneo non ne ha fatto parola. Personalmente io sono in decisa polemica con la concezione espressa in questa poesia (riconducibile in fondo a un contrasto tra rigorismo rivoluzionario e panico amore della vita, contrasto che non esiste né deve esistere) [...]. Ma appunto per il fatto che è finalmente una poesia che muove alla discussione [...], ed è per di più una bellissima poesia, che riassume e supera le lezioni della tradizione italiana di poesia civile, della sapienza verbale dei maestri dell’ermetismo, e delle esigenze realistiche più recenti, io sono convinto che con Le ceneri di Gramsci si apre una nuova epoca della poesia italiana. [...] Insomma: il Contemporaneo parla di Ragazzi di vita che è facile criticare su un piano di gusto e tace delle Ceneri di Gramsci in cui bisogna affrontare una discussione di idee34.

Nella discussione interverranno sia Pasolini, con una breve lettera in cui si accusava la «aprioristica parenesi “prospettivistica”» della critica comunista, vincolata a un’ideologia fondata su di una sorta di “realismo ottimista”; sia soprattutto Carlo Salinari, che in buona sostanza darà ragione a Calvino sulla sottovalutazione dell’opera poetica di Pasolini, che trovava riscontri positivi anche nel dirigente comunista.

Il tono degli scritti e delle accuse di Calvino era però destinato a farsi sempre più duro ed esplicito, una visibile incrinatura del rapporto tra lo scrittore e il partito destinato, già in questa fase (prima cioè della vicenda ungherese) a non rimarginarsi35. Eppure l’atteggiamento è ondivago: altrove, negli stessi giorni, Calvino sembra tradurre questa vis polemica in una richiesta di maggiore discussione, all’interno di un modello di rapporti politico-culturali da preservare36. Ma allo stesso tempo, sempre nello stesso mese di luglio, avrebbe portato l’affondo alle sue conseguenze più radicali, nell’ormai fin troppo noto intervento in sede di Commissione culturale nazionale del 23-24 luglio 1956 (Commissione in cui era ufficialmente entrato nel gennaio dello stesso anno).

In questo caso siamo in presenza di un Calvino perentorio e ultimativo, che rende esplicito il dissenso chiedendo l’allontanamento degli attuali dirigenti culturali (in primo luogo di Alicata, ma anche di Salinari e della direzione del «Contemporaneo»), perché incapaci di operare quel necessario scarto tra obiettivi della politica culturale comunista e i suoi mezzi ideologici e organizzativi:

Passare con lo sguardo al nostro lavoro di Commissione culturale, si ha appunto questa impressione di pallore di assenza di idee, di inadeguatezza ai tempi a cui prima accennavo e di cui la relazione di Alicata è stata uno specchio fin troppo fedele. [...] La nostra direzione culturale ha dimostrato in questo dibattito una totale inettitudine, una insipienza madornale; non è che il dibattito sia stato sbagliato, sia mancato, è mancata la direzione, non è stata all’altezza della situazione, è stata al di sotto di ogni livello immaginabile [...]. Il Contemporaneo, la Commissione culturale centrale che ha tenuto il dibattito sotto la sua tutela non hanno fatto nulla di tutte le cose che dovevano fare per mettere a fuoco il dibattito [...]. L’articolo che chiude il dibattito, mi sembra che resterà a tutta vergogna dei compagni dell’attuale Commissione Culturale. Questo articolo è un seguito di frasi ridicole, [...] è un insulto a tutti quelli che hanno partecipato dicendo loro: beh!Vi abbiamo fatto un po’ sfogare, ma di tutto quello che avete detto non ce ne frega niente, adesso andate, non siamo stati neanche a sentire. [...] È un momento in cui stanno sorgendo forze intellettuali nuove [...]. Cosa stiamo facendo per queste forze, perché non entrano nel Partito? Perché sentono il fascino del nostro movimento su scala storica mondiale ma non il fascino di noi come partito, come organizzazione? [...] Voi sapete che far entrare una generazione nuova vuol dire anche soddisfare le esigenze nuove che porta questa generazione. [...] Cosa chiedono oggi gli intellettuali nuovi al Partito, chiedono la libertà! [...] Non è più una rivendicazione di libertà che ci muove, è l’esigenza di una organizzazione efficiente proprio a rendere fruttuosa questa libertà ad elaborare in tutti i campi una ricerca marxista [...]. Ormai è chiaro che la Commissione Culturale Nazionale disprezza questo tipo di organizzazione della cultura, non intende aiutare i giovani che vogliono lavorare in questo senso. Perciò la parola d’ordine ormai in atto tra i giovani comunisti è quella di agire al di fuori della Commissione Culturale, di organizzarsi autonomamente37.

Nella lunga disamina, accalorata e, per certi versi, concitata, Calvino non mancherà di esplicitare una autocritica per il modo in cui aveva schematizzato brutalmente il rapporto tra questione settentrionale e meridionale: «Io devo autocriticarmi [...] perché parecchie volte già da tre o quattro anni io insistevo sul fatto che il partito si occupava troppo poco del triangolo industriale e che era il sud che dominava la nostra scena politica, non è vero io sbagliavo su questo punto, il nuovo c’è in modo altrettanto imponente nel nord come nel sud, la chiave per capire la situazione italiana è unica». Ma la chiusura del discorso è drastica, con l’obiettivo appunto di riformulare la direzione culturale soprattutto con nomi nuovi: «La Classe operaia può perdonare tanti, potrà dar prova di avere labile memoria in tanti campi, ma questi no, non li perdonerà. [...] Sarebbe una beffa intollerabile che compagni che pretendevano di dettar legge in questo campo decisivo e che hanno dimostrato la loro insipienza fossero rieletti agli alti posti che occupavano. Hanno sbagliato, paghino». Ad essere sottomesso a dura critica è l’asse ideologico crociano e storicistico più che gramsciano, che rendeva la direzione culturale comunista inadeguata alla ricezione dei nuovi stimoli dell’Italia che si sarebbe affacciata, di lì a poco, al boom economico. La Commissione culturale, come scriverà Bruno Schacherl in sede di commento dell’intervento di Calvino riscoperto solo nel 1990, «appare in effetti arroccata nella difesa di una “tradizione” marxista-storicistica», favorendo il dialogo ma ritenendo «che la sua linea sia la sola in grado di spostare in avanti la situazione, combattendo e isolando con una forte “direzione culturale” ogni deviazione verso la sociologia [e] il neopositivismo»38.

Nonostante il tenore dell’intervento, che di fatto sembra chiudere ogni possibilità di relazione proficua tra lo scrittore e il partito, in questa fase è ancora l’incertezza a dominare le scelte politiche di Calvino e il suo posizionamento (dentro o fuori dal partito), una incertezza che troverà dimostrazione nella successiva riunione nazionale della Commissione culturale nell’autunno dello stesso anno. Il tono stavolta è decisamente più conciliante: lo scrittore si mostrava d’accordo con Alicata riguardo alla necessaria direzione ideologica del partito nelle discussioni fra intellettuali comunisti, e rivalutava l’operato del «Contemporaneo» congratulandosi «per la vivacità e l’interesse» che aveva saputo suscitare39. In realtà, Calvino non faceva che riproporre, alternando l’accento della polemica – ora scontroso, ora dialogante – un modello di politica culturale che non cedeva alla dismissione liberale della separatezza tra politica e cultura, ma insisteva in una più organica direzione politica, una direzione che, per essere efficace avrebbe dovuto coordinare e guidare “di più”, non “di meno”.

Passano diversi mesi, resi turbolenti dalla crisi ungherese e da quella che, dopo le speranze iniziali, per Calvino assume le forme della “mancata destalinizzazione”. Dal punto di vista letterario, il 1957 è un tornante decisivo: esce prima Il barone rampante (per la collana einaudiana dei “coralli”), subito dopo la prima versione del lungo racconto La speculazione edilizia40. All’ottimismo volontaristico del Midollo del leone subentra una visione pessimistica tanto sul piano letterario quanto, soprattutto, su quello politico41. Interviene in questo frangente, per non mutarsi sostanzialmente più, il tema della sfiducia nella politica, una certa rassegnazione di stampo illuministico, che si allontana velocemente dal confronto con l’ideologia42. All’incrocio di queste vicende letterarie, si colloca l’estremo atto d’accusa rivolto al partito, il racconto metaforico de La gran bonaccia delle Antille43. La favola è nota e l’allegoria lampante: l’inerzia comunista, dovuta prima allo stalinismo, poi alla mancata destalinizzazione, aveva reso la situazione politica italiana sostanzialmente statica, in un logorante gioco di manovre parlamentari segnate dall’immobilismo e dall’acquiescenza verso il «galeone papista» (la Dc). Indicativa la soluzione implicitamente proposta nel racconto: allentare (se non sciogliere) i vincoli internazionali, procedere verso una più convinta azione riformista, impersonata nella fattispecie dalla figura di Slim John – Antonio Giolitti. Ancor più smascherata fu la risposta del Pci, pubblicata su «Rinascita» a firma “Little Bald” (parodia dello stesso Calvino), dietro cui si celava il segretario di Togliatti, e giornalista de «l’Unità», Maurizio Ferrara44. Nel racconto, altrettanto allegorico, la storia del Pci veniva presentata come punto di sintesi tra un estremismo di sinistra (impersonato dal capo-stivatore – Pietro Secchia) e il riformismo socialdemocratico. La “caccia alla balena bianca” non sarebbe avvenuta «con archibugi e spingarde» – ovvero con una radicale guerra di movimento, ma con la pazienza del pescatore.

La vicenda di Calvino nel Pci era comunque ormai segnata. Il 1 agosto 1957 consegnerà la sua lettera di dimissioni, che verrà pubblicata su «l’Unità» del 7 agosto, e seguita dalla risposta della federazione torinese45. Per lo scrittore ligure, le speranze di cambiamento suscitate dall’VIII Congresso si sono tramutate in un completo fallimento, «attenuando i propositi rinnovatori in un sostanziale conservatorismo, ponendo l’accento sulla lotta contro i cosiddetti “revisionisti” anziché su quella contro i dogmatici». Si era persa, insomma, «una grande occasione storica». Per di più, la contestuale fuoriuscita dal Pci di Antonio Giolitti (dieci giorni prima di Calvino, nel luglio 1957), dopo il tentativo operato da questi in sede di VIII Congresso di riformare il partito con una sterzata in senso socialdemocratico, portava alla conclusione di un impossibile spazio di manovra all’interno del Pci. Lo stesso Calvino ne diede successivamente una lettura retrospettiva molto indicativa:

Le nostre speranze di rinnovamento si concentravano su Giorgio Amendola. Aveva preso il posto di Pietro Secchia a capo dell’organizzazione del partito. Lui sosteneva che noi il nostro XX congresso l’avevamo già avuto il giorno in cui Secchia era stato rimosso dalle sue funzioni. Amendola era l’immagine del comunista come io pensavo che dovesse essere per portare avanti inflessibilmente e umanamente, in un paese come il nostro, gli ideali del socialismo. Invece fu una tremenda delusione46.

Ciò che forse era nell’animo di Calvino, liberare cioè l’ingessatura del movimento comunista attraverso una più decisa “nazionalizzazione” del partito, con ciò tornare a muoversi liberamente e più spregiudicatamente sulla scena politica italiana, così non poteva essere per Amendola, che di un certo togliattismo aveva introiettato uno dei caratteri fondamentali: una tattica parlamentare sovente sfociante in equilibrismo politico. Amendola non poteva essere quel «comunista nuovo» che Calvino vagheggiava, in una commistione di riformismo ed estremismo costitutivamente incapace di definirsi in linea politica.

Nei mesi e anni immediatamente successivi alla fuoriuscita dal Pci, Calvino sarebbe andato riallacciando il connubio, d’altronde mai sciolto, con Vittorini, a questo punto però concedendo alla cultura il suo primato sulla politica. Le riflessioni letterarie avranno aggio su quelle politiche, sempre più rarefatte. Alcuni interventi sulla rivista «Tempo presente»47 prepareranno le riflessioni sullo stato dell’arte nella letteratura in aperta contrapposizione tanto al concetto di «realismo» quanto di quello di «oggettività». A partire dalla metà del 1959 presiederà alla fondazione della rivista letteraria «il Menabò», diretta di fatto da Vittorini, in cui troverà pubblicazione un altro dei suoi scritti fondamentali in tema di poetica narrativa, Il mare dell’oggettività48. Nell’articolo, l’obiettivo polemico è l’oggettivismo inteso come antitesi alla psicologia del profondo, allo sguardo introspettivo e alle problematiche del soggetto. Per reazione alla psicologia decadente, si era finiti ad osservare inerti la realtà:

Rivoluzionario è chi non accetta il dato naturale e storico e vuole cambiarlo. La resa all’oggettività, fenomeno storico di questo dopoguerra, nasce in un periodo in cui all’uomo viene meno la fiducia nell’indirizzare il corso delle cose, non perché sia reduce da una bruciante sconfitta, ma al contrario perché vede che le cose (la grande politica dei due contrapposti sistemi di forze, lo sviluppo della tecnica e del dominio delle forze naturali) vanno avanti da sole, fanno parte d’un insieme così complesso che lo sforzo più eroico può essere applicato solo al cercar di avere un’idea di come è fatto, al comprenderlo, all’accettarlo49.

La posizione letteraria incrocia quella politica: il dominio dell’oggettività come sfiducia della capacità del soggetto, ovvero della prassi, di cambiare le cose in senso rivoluzionario. È in questa fase, di più profonda e compiuta riflessione sulla crisi del neorealismo, che Calvino sembra raccoglierne «la componente più attualizzabile: quel nesso indispensabile tra intellettuale e storia che lo spingerà ad adottare una “poetica del negativo”, ma tenacemente fiduciosa nel cambiare la realtà (ottimismo della volontà) con la ragione (pessimismo dell’intelligenza)»50. Riflessioni del genere troveranno la forma più compiuta in quella sorta di «autobiografia idealizzata» che è La giornata di uno scrutatore (1963), in cui il protagonista (Amerigo Ormea) alterna continuamente un pessimismo della ragione ormai cronicizzato, con un ottimismo della volontà sempre meno convinto: «Era iscritto al partito, questo sì, e per quanto non potesse dirsi un “attivista” perché il suo carattere lo portava verso una vita più raccolta, non si tirava indietro quando c’era da fare qualcosa che sentiva utile e adatto a lui»51. Se vogliamo, un primo “cedimento” ad una concezione della politica in senso “post-moderno”, attenta a salvaguardare la dimensione individuale piuttosto che disponibile ad accettarne un suo disciplinamento collettivo e “storico”.

A partire dai primi anni Sessanta le strade fra Calvino e la politica, di fatto, si separeranno. Un ultimo (e disperato) tentativo, mosso da un certo “sconvolgimento” dettato dalla proposta operaista dei «Quaderni rossi» (e più in generale di quel magma ancora enigmatico rappresentato dalla nascente nuova sinistra), è riscontrabile nel complesso articolo intitolato L’antitesi operaia, pubblicato su «il Menabò» nella primavera del 1964. Si tratta, come ha ricordato Calvino stesso,

«dell’ultimo mio tentativo di comporre gli elementi più diversi in un disegno unitario e armonico»52. Cioè, dell’ultimo tentativo di considerare i fatti della cultura e quelli della politica in un ragionamento organico, unitario appunto, prima che la sua crisi personale e un nuovo ciclo di lotte di classe travolgerà ogni possibile sintesi efficace.

L’operaio, la classe operaia, si pone in antitesi rispetto allo sviluppo storico capitalistico, oppure il suo è un ruolo di potenza “inveratrice”, in grado di raccoglierne e inglobarne tutti i valori, finalmente portandoli a compimento? Per il movimento operaio storico, soprattutto dalla fine della Seconda guerra mondiale, il ruolo preordinato appare il secondo: «Questa visione d’una cultura insieme rivoluzionaria e conservatrice è quella che ha ispirato anche la politica culturale ufficiale comunista»53. Ma l’eclissi della funzione di antitesi porta con sé anche l’eclissarsi di un certo senso della (propria) storia: se la razionalità a cui tende il neocapitalismo si sovrappone alla tendenza razionalizzante delle forze politiche operaie, svaniscono le contraddizioni laceranti. Di qui la nascita di una nuova proposta politica (quella operaista), totalmente piegata alle ragioni dell’estrema contrapposizione, ma in cui la furia demolitrice porta con sé i demoni dell’irrazionalismo. Ma per l’operaio – scrive Calvino – «la vittoria totale della scienza e vittoria totale dell’industrializzazione coincidono con vittoria di classe. Una linea dunque non eversiva rispetto al processo di razionalizzazione che già il sistema è obbligato a porre in atto, ma intesa a costringere questo processo verso l’utilizzazione a fini umani di tutte le forze umane e naturali»54. Ebbene, se questo è lo stallo, tra una razionalizzazione che conduce all’inglobamento del negativo, da un lato, e dall’altro di un’antitesi che si alimenta di spinte irrazionalistiche, la soluzione evocata da Calvino prova a tenere insieme «spinta razionalizzatrice» e «spinta catastrofica»: «nella classe operaia la spinta razionalizzatrice può conglobare la spinta catastrofica, trasformandola in pressione d’antitesi costruttiva. Tra le spinte razionalizzatrici del sistema e della classe operaia si può instaurare una dialettica che necessariamente produrrà storia»55. Con il che, però, continuerebbe a rimanere inevaso il ruolo da assegnarsi alla natura antitetica dei rapporti tra «operai e capitale»: come sostenere le contestuali lotte di liberazione nazionale nei contesti coloniali, come organizzare e rappresentare le spinte centrifughe (e anche sovversive) provenienti dalle fabbriche del nord Italia, se la soluzione proposta finisce per avallare un punto d’incontro tra la razionalizzazione capitalistica e la funzione del partito della classe operaia?

Avrà gioco facile Rossana Rossanda, nel 1964 direttrice della Sezione culturale comunista, a rispondere, qualche settimana dopo, alle argomentazioni dello scrittore. Per Rossanda, «l’oggettività del sistema è fragile non perché il sistema non si realizzi, ma perché realizzandosi si rivela come obbligatoriamente lacerato in una dualità mortale; cui certo, si tratta di dare coscienza perché si abbia una rivoluzione. Ma questa non può non essere contro la sua apparente, mistificata razionalità: non ne nega l’esistenza ma la fa, o dovrebbe farla, esplodere, giustamente al suo punto più alto»56. La razionalizzazione del sistema, che Calvino individua come punto d’incontro con le ragioni del movimento operaio, in realtà per Rossanda è solo apparente: è proprio realizzandosi, che il sistema economico-sociale capitalistico svela la sua natura irrazionale, anarchica e disorganica.

 

Conclusioni

Come accennato, l’itinerario politico-culturale di Calvino riflette quello della generazione uscita dalla lotta partigiana, ma al tempo stesso se ne distanzia criticamente. Secondo Gabriele Pedullà, «Italo Calvino è stato per tutta la vita un militante comunista»57. Di sicuro, lo scrittore ligure tenta di elaborare una “via d’uscita” alla crisi di prospettive politiche che il Pci si trova a vivere a partire dai primi anni Sessanta, con una buona capacità prefigurativa. Nel farlo, prova – almeno fino alla fine degli anni Cinquanta – a tenere uniti i discorsi di politica e letteratura, immaginando una soluzione unitaria a una difficoltà che investiva complessivamente i riferimenti culturali e l’azione storica del movimento operaio. Sciolto il legame organico col movimento comunista, e sviluppata su di un piano più articolato la sua critica del realismo, Calvino tende piuttosto a porsi a una certa distanza “di sicurezza” dalla realtà, in un procedimento che utilizza il “fantastico” più come fuga che come problematizzazione degli eventi58. La «leggerezza», concetto centrale nella poetica del Calvino maturo, si muta sovente in elusione da ogni possibile corpo a corpo con la determinatezza della prassi. L’erudizione combinatoria sostituisce quel tipo specifico di profondità che è stato, nel decennio tra la Liberazione e il 1956, il confronto problematico con l’ideologia. Si può quindi concordare sul “comunismo” di Calvino, ma ciò che appare marginale nella sua riflessione è il marxismo: Calvino, in questo, è associato a una vasta schiera di intellettuali degli anni Cinquanta, che potremmo definire “comunisti ma non marxisti”59. Comunisti che, venuto meno il vincolo di volontaria sottomissione alle ragioni del movimento operaio organizzato nel Pci (una sottomissione nondimeno generatrice di tribune privilegiate), sono costretti a ripensare se stessi e il proprio ruolo senza bussole ideologiche in grado di orientarne l’azione. Il rifluire non-politico di Calvino (un rifluire, come abbiamo visto, riconosciuto in primo luogo da lui stesso) non potrà che reagire con sconcerto di fronte alla nuova ondata di lotte di classe e all’estremismo intellettuale che le alimentava. La fine degli anni Sessanta travolgerà definitivamente il tentativo di pensare in termini unitari politica e cultura, con ciò ponendo fine a una vicenda che vide Italo Calvino tra i maggiori e più complessi protagonisti.


Note
1 Intervista di G.B. Vicari a Italo Calvino, «Il Caffè», IV, 1, gennaio 1956, pp. 16-17, ora in I. Calvino, Eremita a Parigi, Mondadori, Milano 2023, p. 12.
2 Asor Rosa può dirsi tra i primi ad aver certificato la statura letteraria di Calvino. Non prima, però, di averlo inserito nel filone “populista” della letteratura italiana, criticandone le derive ideologiche del Sentiero dei nidi di ragno. Cfr. A. Asor Rosa, Resistenza e gramscianesimo, in Scrittori e popolo (1965) Scrittori e massa (2015), Einaudi, Torino 2015, pp. 156 ss; nello stesso libro, cfr. anche Il tramonto del moder- no, pp. 370-374. Per una valutazione complessiva di quella che lo stesso Asor Rosa ha definito come una «ossessione» (cfr. Id., La mia ossessione per Italo Calvino, «la Repubblica», inserto «Robinson», 14 gennaio 2020), cfr. Id., Stile Calvino, Einaudi, Torino 2001.
3 In E. Cecchi, N. Sapegno (a cura di), Storia della letteratura italiana, vol. 20, La letteratura di fine millennio. Stili di pensiero e tendenze culturali, edizioni «Corriere della Sera», Milano 2005, p. 41.
4 Gli studi sulla politica culturale comunista e sulla figura dell’intellettuale impegnato sono molti e di diverso taglio. Per tutto il discorso rimandiamo ai celebri lavori di Nello Ajello, Intellettuali e Pci 1944-1958, Laterza, Roma-Bari 1979; Id., Il lungo addio. Intellettuali e Pci dal 1958 al 1991, Laterza, Roma-Bari 1997. Per una rassegna della letteratura prodotta e delle varie posizioni in merito, rimando al mio Rossana Rossanda e il Pci. Dalla battaglia culturale alla sconfitta politica (1956-1966), Carocci, Roma 2023.
5 Cfr. la voce biografica di Italo Calvino, a cura di D. Scarpa, Dizionario biografico degli italiani, Treccani, 2013, consultabile online: https://www.treccani.it/enciclopedia/italo-calvino_(Dizionario-Biografico)/ (ultima visita 17 febbraio 2023).
6 Testimonianza riportata in L. Baranelli, E. Ferrero (a cura di), Album Calvino, Mondadori, Milano 2022, p. 65.
7 Risposta di Italo Calvino al questionario formulato dalla rivista «Il paradosso.
Rivista di cultura giovanile», settembre-dicembre 1960, pp. 11-18.
8 I. Calvino, Abbiamo vinto in molti, in M. Barenghi (a cura di), Saggi. 1945-1985, Mondadori, Milano 1995, p. 1478.
9 «Per quel che mi riguarda, la Resistenza mi ha messo al mondo, anche come scrittore. Tutto quello che scrivo e penso parte da quell’esperienza», in I. Calvino, La Resistenza mi ha messo al mondo, ora in Id., Sono nato in America, Mondadori, Milano 2012, pp. 33-34.
10 Testimonianza riportata in L. Baranelli, E. Ferrero (a cura di), Album Calvino, cit., p. 37.
11 I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Mondadori, Milano 2011, pp. 98-99 e 107.
12 Cfr. U. Dotti, Gli scrittori e la storia, Aragno editore, Torino 2012, pp. 233-254. Cfr. anche C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggi su Italo Calvino, Carocci, Roma 2022, pp. 165-200.
13 I. Calvino, Presentazione, in Id., Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. XIV.
14 Ovviamente le opinioni discordanti sono molte. Segnaliamo quella di Cesare Cases, riportata in M. Raffaeli, Calvino e l’inedita cifra narrativa dell’impegno, «il manifesto», 7 febbraio 2023, p. 12, secondo il quale la scrittura del Sentiero «dice di una consapevole distanza dal senso comune che allora si diceva “neorealista” e dalla retorica di ogni “impegno” che facesse della Resistenza un pretesto oratorio ovvero propagandistico prescindendo dalla ricchezza e dalla complessità del testo come tale».
15 I. Calvino, Autobiografia politica giovanile, ora in Id., Eremita a Parigi, cit., pp. 155-156.
16 I. Calvino, Sono stato stalinista anch’io?, «la Repubblica», 16 dicembre 1979.
17 G. Bollati, Calvino editore, «Micromega», n. 1, 1991, pp. 203-213.
18 I. Calvino, intervista a Roberto De Monticelli, Pavese fu il mio lettore ideale, «il Giorno», 18 agosto 1959, p. 6.
19 I. Calvino, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Mondadori, Milano 2018, p. 4.
20 M. Zancan, «Il Politecnico» e il Pci tra resistenza e dopoguerra, «Il Ponte», a. XXIX, nn. 7/8 (31 lug./31 ago. 1973), pp. 994-1010.
21 Cfr. I. Calvino, Umanesimo e marxismo, «l’Unità», 22 giugno 1946. Cfr. anche, per le posizioni politico-letterarie del giovane Calvino, P. Dulac, Italo Calvino: primi discorsi di letteratura e società (1945-1957), «Chroniques italiennes», n. 3, 1985, pp. 5-13.
22 I. Calvino, Ingegneri e demolitori, «Rinascita», n. 11, novembre 1948, p. 400.
23 I. Calvino, Saremo come Omero!, «Rinascita», n. 12, dicembre 1948, p. 448.
24 Cfr. J. Francese, Cultura e politica negli anni Cinquanta: Salinari, Pasolini, Calvino, Lithos, Roma 2000, pp. 112-113.
25 I. Calvino, Le commissioni culturali, «l’Unità», 27 gennaio 1951, p. 3.
26 Per tutto il discorso, cfr. A. Vittoria, Togliatti e gli intellettuali. La politica culturale dei comunisti italiani (1944-1964), Carocci, Roma 2014, pp. 53-66 e 89-97.
27 I. Calvino, Civiltà operaia, «il Contemporaneo», n. 32, 6 novembre 1954, p. 7.
28 Cfr. C. Milanini, L’utopia discontinua, cit., pp. 70-71; cfr. anche, sul ruolo della civiltà industriale per Calvino, L. Baranelli, E. Ferrero (a cura di), Album Calvino, cit., p. 96.
29 I. Calvino, Il midollo del leone, «Paragone», n. 66, 1955, ora in Id., Una pietra sopra, cit., p. 17. Cfr. anche J. Francese, Cultura e politica negli anni Cinquanta: Sali- nari, Pasolini, Calvino, cit., pp. 115-116.
30 Cfr. F. Petroni, Italo Calvino: dall’“impegno” all’arcadia neocapitalistica, «Studi novecenteschi», (5), n. 13-14, 1976, pp. 57-101. 
31 Un aggiornamento sugli studi del 1956 comunista è possibile trovarlo in F. Chiarotto, A. Höbel (a cura di), Il 1956. Un bilancio storico e storiografico, Biblioteca di Historia Magistra, Accademia University Press, Torino 2022. Si rimanda in particolare ai lavori di Cecilia Novelli e Francesca Chiarotto, pp. 160-175 e 177-190.
32 R. Guiducci, Socialismo e verità. Pamphlets di politica e cultura, Einaudi, Torino 1956.
33 I. Calvino, Nord e Roma-Sud, «il Contemporaneo», n. 13, 1956, ora in G. Vacca (a cura di), Gli intellettuali di sinistra e la crisi del 1956, Rinascita-Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 28-29.
34 Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini, Carlo Salinari (scambio di lettere), La poesia e il dialetto, «il Contemporaneo», n. 26, 30 giugno 1956, p. 8.
35 Cfr. J. Francese, Cultura e politica negli anni Cinquanta: Salinari, Pasolini, Calvino, cit., pp. 118-119.
36 I. Calvino, Libri per la discussione, «Notiziario Einaudi», V, giugno-agosto 1956, pp. 1-2.
37 Fondazione Istituto Gramsci (Fig), Archivio Partito comunista italiano (Apc), fondo Commissione culturale, riunione del 23-24 luglio 1956, intervento di Italo Calvino, pp. 1-18.
38 B. Schacherl, La grande crisi degli intellettuali, «l’Unità», 13 giugno 1990, p.
16.Più in generale cfr. tutta la pagina dedicata alla riscoperta dell’intervento inedito di Calvino, 1956, la “frustata” di Calvino, Ibid.
39 Fig, Apc, fondo Commissione culturale, riunione del 15-16 novembre 1956, intervento di Italo Calvino, pp. 1-8. Per una ricostruzione dei due interventi in sede di Commissione culturale, cfr. J. Francese, Cultura e politica negli anni Cinquanta: Salinari, Pasolini, Calvino, cit., pp. 120-121.
40 I. Calvino, La speculazione edilizia, «Botteghe oscure», XX, 1957, pp. 438-517.
41 Cfr. F. Petroni, Italo Calvino: dall’“impegno” all’arcadia neocapitalistica, cit., p.82. È lo stesso Calvino a riconoscerlo: Quelle vicende [del 1956] mi hanno estraniato dalla politica, nel senso che la politica ha occupato dentro di me uno spazio molto più piccolo di prima», intervista di Eugenio Scalfari a Italo Calvino, «la Repubblica», 13 dicembre 1980, ora in I. Calvino, Eremita a Parigi, cit., p. 211.
42 Ivi, pp. 64-69.
43 I. Calvino, La gran bonaccia delle Antille, «Città aperta», n. 4-5, 25 luglio 1957, pp. 3-6.
44 Little Bald (Maurizio Ferrara), La grande caccia delle Antille, «Rinascita», n. 9, settembre 1957, pp. 471-473.
45 Le dimissioni di Calvino dal Pci condannate dal C.D. di Torino, «l’Unità», 7 agosto 1957, p. 7.
46 Intervista di Eugenio Scalfari a Italo Calvino, «la Repubblica», 13 dicembre 1980, ora in I. Calvino, Eremita a Parigi, cit., p. 211.
47 Cfr. I. Calvino, Questioni sul realismo, «Tempo presente», n. 11, novembre 1957, pp. 881-882.
48 I. Calvino, Il mare dell’oggettività, «il Menabò», n. 2, Einaudi, Torino 1960, ora in Id., Una pietra sopra, cit., pp. 48-56.
49 Ivi, p. 51.
50 Cfr. C. Patuzzi, Italo Calvino: un intellettuale tra poesia e impegno, «Nuova antologia», 2105, maggio 1976, pp. 924-956.
51 I. Calvino, La giornata di uno scrutatore, Einaudi, Torino 1963, p. 10.
52 I. Calvino, L’antitesi operaia, in Id., Una pietra sopra, cit., p. 123.
53 Ivi, p. 125.
54 Ivi, pp. 133-134.
55 Ivi, p. 138.
56 R. Rossanda, Sull’“Antitesi operaia”, «il Contemporaneo», n. 73, giugno 1964, pp. 3-8.
57 G. Pedullà, The dark side of the Memos. Il testamento politico di Italo Calvino, «Le parole e le cose», 19 settembre 2015, online: https://www.leparoleelecose. it/?p=20316 (ultima visita 20 febbraio 2023).
58 Cfr. C. De Marchis, Romanzi. Leggerli, scriverli, Feltrinelli, Milano 2007, in particolare La leggerezza di Calvino e l’iper-romanzo, pp. 75-85.
59 Cfr., sul Calvino “non marxista”, F. Petroni, Italo Calvino: dall’“impegno” all’arcadia neocapitalistica, cit., pp. 65-69; sullo specifico comunismo degli intellettuali italiani vicini al Pci, cfr. il mio Il Pci e gli intellettuali. Note sul rapporto tra il partito comunista e la cultura italiana (1945-1968), «Rivista di Studi Politici», n. 1/2021, pp. 67-87.
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