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Un’intervista impossibile, ma plausibile, con Alessandro Manzoni

di Eros Barone

word image 52940 1.jpgL’immaginazione può superare, se opportunamente controllata dalla ragione storica e dalla critica letteraria, i confini spazio-temporali che ci separano dalla figura e dall’opera di Alessandro Manzoni. Con l’aiuto di questi strumenti – immaginazione, ragione e critica – abbiamo avvicinato, a poco più di centocinquant’anni dalla sua morte, l’autore dei Promessi sposi, spingendoci in quella regione dell’aldilà dove egli si trova e dove, con il superiore permesso dell’Onnipotente, ci ha concesso la seguente intervista. Va detto che la conoscenza delle discussioni e dei problemi, anche recenti, che hanno contrassegnato la cultura italiana, europea e mondiale – conoscenza che traspare dalle sue risposte alle domande - non deve meravigliare se si tiene conto che egli è stato costantemente informato intorno a essi dai vari e qualificati ‘addetti ai lavori’ che della sua opera si sono occupati e che lo hanno via via raggiunto là dove egli si trova. Fra questi desideriamo citare, per affinità di orientamento e di sensibilità con l’intervistatore, almeno questi: Alberto Moravia, Italo Calvino, Umberto Eco, Edoardo Sanguineti e Alberto Asor Rosa.

* * * *

- Signor conte…

- Ma che conte e conte. Coloro che mi chiamano conte mostrano di non aver letto le mie opere. Io non sono conte e nemmeno nobile. Sono Alessandro Manzoni e niente altro. 1 Chi è lei, che cosa vuole?

 

- Mi scusi se la disturbo, Maestro (mi permetta almeno di chiamarla così, per antica deferenza), ma, veda, io mi sono arrischiato fin qua per parlare un po’ con lei: avrei alcune domande da farle… e l’Altissimo mi ha autorizzato a conferire con lei. Sia compiacente anche in grazia del mio gravoso mestiere…

- Che sarebbe?

 

- Il professore: parlare di lei ai ragazzini e ai ragazzi le assicuro che è un compito ingrato. Mi vorrà scusare per la franchezza: dicono che lei è una “pizza”, per di più è poco attuale e poco divertente, e puzza di sacrestia…

- Hanno ragione…

 

- Davvero?! Lei mi spiazza, ma, considerato che ben conosco la sua arguzia e il suo realismo, non mi sorprende.

- Sì, dico, hanno ragione i ragazzi a pensarla così. Veda, caro professore, la mia peggiore disgrazia è di essere finito sui banchi di scuola e fra le vostre mani.

 

- In effetti, Maestro, è pur vero che lei nei Promessi sposi si rivolgeva a un pubblico che possedeva le chiavi di lettura indispensabili per comprendere il contesto sociale del Seicento e interpretarlo alla luce dei riferimenti all’Ottocento, in modo da trarne gli insegnamenti etico-politici essenziali.

- Lei vorrebbe che io dicessi: brutti tempi, caro professore, la cultura è “debole”, la scuola è in crisi, come la famiglia, la religione, lo Stato… Le ripeto: costringere dei ragazzi o, ancor peggio, dei ragazzini a sorbirsi il mio romanzo, e per di più con un profluvio di note esplicative di commentatori vari, è un’operazione sadica, altro che!

 

- Debbo riconoscere che i frutti che i ragazzi ricavano dalla lettura del suo romanzo sono, malgrado gli encomiabili sforzi profusi da tanti miei colleghi per farne conoscere la profonda umanità e bellezza, quanto mai scarsi. Può bastare questa prova a confermare l’anzidetta constatazione: si fermi un quindicenne a tradimento, ma anche un qualsiasi adulto mediamente alfabetizzato, e gli si domandi come hanno inizio I promessi sposi. Nove volte su dieci, costoro diranno, sbagliando: “Quel ramo del lago di Como…”. Il romanzo inizia invece così: “L’Historia si può veramente definire una guerra illustre contro il Tempo”.

- Egregio professore, mi permetta allora, con tutto il debito rispetto nei confronti della scuola e degli insegnanti, di trarre l’inevitabile conclusione: smettere di far leggere I promessi sposi agli studenti non significa salvare la scuola da Manzoni; significa salvare Manzoni dalla scuola. E soggiungo, in tema di interpretazione letteraria, che ciò che ho scritto è, per dirla con Umberto Eco, un’“opera aperta”: 2 ognuno può leggervi quel che vuole, anche distorcendo il senso del messaggio. D’altronde, è il destino dello scrittore: egli viene usato, consumato e magari logorato.

 

- Maestro, lei mi sembra molto pessimista sul valore oggettivo dell’arte. Ha forse cambiato idea rispetto ai princìpi che informano la sua poetica fondata sul realismo? «La poesia deve proporsi per oggetto il vero…». 3

- Poetica fondata sul realismo, che parole grosse! Anche in vita mi ha sempre tormentato il problema del vero: quanta letteratura non è che finzione, dolce oppio per evadere dalla realtà in un mondo fantastico! Specialmente oggi è ben difficile distinguere il vero dalle sue mistificazioni. Comunque, per rispondere alla sua domanda, ho cambiato solo prospettiva: le sembra poco vedere le cose da un’altra angolazione? E qui torna in ballo la scuola.

 

- In che senso?

- Perché lo scrittore che è assunto come emblema dei valori educativi da una certa classe dirigente, deve in qualche modo corrispondere al mandato che gli viene conferito. È toccato a me come a tanti altri, ben più importanti di me, Dante compreso, che un vostro ex ministro della Cultura considera il “fondatore del pensiero di destra”, mentre per me è il massimo contestatore di un cristianesimo mondanizzato, diciamo pure all’italiana. 4 Del resto, le confesso, mio caro professore, che io non credo ai “critici cattolici” che sono più o meno schierati a mio favore in contrasto con quelli laici che mi mettono in discussione. La professione di fede è una cosa distinta dalla intelligenza e dal gusto estetico, che sono doti affatto umane. Pensi ad Attilio Momigliano o a Luigi Russo, 5 che hanno scritto su di me pagine e commenti finissimi e non erano cattolici…

 

- Capisco. Purtroppo, Maestro, se proviamo a spingere lo sguardo oltre i confini della cultura nazionale, vi è da dire che lei non è molto ammirato fuori d’Italia. La maggior parte dei giudizi che mi è capitato di ascoltare quando ho toccato l’argomento con lettori stranieri, magari acuti quando parlano di altri romanzieri europei, sono diminutivi: «Non riusciamo a capire che cosa ci troviate». «Ci sembra che voi italiani gli diate un’importanza eccessiva». «I promessi sposi sono un romanzo d’avventure come altri, ma noioso perché pudico, untuoso, reticente e pieno di preti». «È pleonastico di fronte ai romanzi non italiani che lo hanno preceduto».

- Non vedo perché si pretenda che io sia, che so?, Flaubert o Balzac, artisti peraltro insigni. Uno scrittore deve essere accettato per quello che vi è di autentico nel suo messaggio, non in rapporto alle attese ideologiche dei lettori.

 

- Difficile rispondere alle obiezioni degli incolti; ancora più difficile rispondere alle persone colte su quello che conoscono distrattamente e senza gusto. Bella scoperta che nel suo romanzo non si respira la grande aria di libertà spregiudicata di uno Stendhal, di un Balzac, di un Flaubert. Lei, Maestro, offre altri piaceri, di natura strettamente intellettuale. Occorre un certo sforzo per giungervi; occorre soprattutto credere che valga la pena di farlo. Diversamente, si finisce col credere che lei sia ovvio e un po’ pedante, mentre è uno degli scrittori più intricati e complessi che siano mai esistiti. E per di più lei fa finta di essere semplice, cosicché chi la prende in parola non riuscirà mai a entrare nel suo mondo, in cui i vuoti, le lacune hanno spesso più importanza delle cose dette.

- Guardi, professore, una cartina di tornasole per verificare la ricezione del mio romanzo all’estero è stata, a suo tempo, la traduzione in inglese dei Promessi sposi da parte di Archibald Colquhoun nel 1951. Sennonché va detto che, più di un secolo innanzi, il mio romanzo era stato oggetto di una recensione entusiastica da parte del famoso scrittore statunitense Edgar Allan Poe, il quale già nel 1834 lesse il mio romanzo a Washington nella traduzione di George W. Featherstonhaugh, che, come disse Poe, “ha molti difetti, ma che possiede anche il pregio, tuttavia, di portare a conoscenza dell’orecchio inglese espressioni italiane che, una volta naturalizzate, arricchirebbero la nostra lingua”. 6

 

- In effetti, la fortuna (ma anche la sfortuna) del suo capolavoro all’estero costituisce un capitolo affascinante del rapporto, non sempre univoco e talora problematico, tra la moderna letteratura italiana e le altre letterature occidentali. Per quanto riguarda la traduzione di Colquhoun non vi è dubbio che essa segnava la fine di un lungo silenzio su di lei, caro Maestro: silenzio confermato dalla predilezione riservata in quel mondo insulare alla sua opera di poeta rispetto alla sua opera di romanziere.

- Del resto, non mi è sfuggito il fatto che quel traduttore inglese abbia dedicato la sua fatica ‘To the Italians of the Second Risorgimento of 1943-1945’, volendo con ciò sottolineare la sua esperienza militare nel nostro paese. 7 Io penso e mi auguro che, grazie a lui, gl’inglesi abbiano compreso ciò che i francesi, ad esempio, non hanno mai capito, e cioè che I promessi sposi non sono tanto un ‘romanzo storico’ alla Walter Scott, come recita la leggenda corrente fuori d’Italia, quanto un romanzo che è storico alla stessa stregua di Guerra e pace, opera di un grande scrittore della letteratura russa quale è Lev Tolstoj.

 

- Continuando questi sondaggi sulla ricezione del suo romanzo all’estero, un esempio di incomprensione del suo stile ironico è la perplessità espressa da un valente narratore inglese che pure le era affine per orientamento religioso e che apprezzava il suo romanzo. Mi riferisco a Graham Green, il quale trovava “un po’ fastidiose le cadenze di unnecessary jocularity” dei Promessi sposi, ovvero quelle “cadenze facete di cui non si vede bene la necessità”. 8 In gioco, Maestro, questa volta è la sua ironia, ossia la dimensione che dà alla prospettiva del romanzo da lei composto tutta la sua profondità. Per quel sapiente e delicato uso del chiaroscuro, uomini ed eventi acquistano, infatti, risalto oppure vengono lasciati in penombra nell’insieme del gran quadro.

- La ringrazio, egregio professore, per queste osservazioni che colgono, per un verso, uno dei significati meno evidenti della mia tanto celebrata ironia e, per un altro verso, un aspetto spesso trascurato del mio modo di elaborare l’identità, sempre sfuggente e sempre da me strenuamente perseguìta, tra la realtà e la verità, tra la fede e la storia, tra l’uomo e il mondo dell’uomo. E poi mi si lasci dire che l’atteggiamento “aristocratico”, “nettamente di casta pur nella sua forma religiosa cattolica”, che Gramsci mi attribuisce, è un’esagerazione. Gramsci, che pure ha il merito di distinguere nettamente la critica ideologica da quella estetica, non comprese l’orientamento religioso che è alla radice della mia ispirazione. 9 In realtà, io sono lontanissimo da qualsiasi idea aristocratica (da buon illuminista, vorrei aggiungere). Ecco perché non ebbi mai nulla da spartire con le tendenze controriformistiche o “gesuitiche” dell’ideologia religiosa. Per me la fede è “il radicalmente altro”.

 

- Sennonché l’interpretazione gramsciana nella sua forma più ‘dura’ è stata ripresa dal Sanguineti, per il quale il successo economico di Renzo novello imprenditore «è già l’archetipo, ideologicamente promozionale, di ogni romanzo intellettuale ‘tradizionale’ borghese, orientato apologeticamente nel senso dell’integrazione, per tradimento di classe, di chiunque sappia farsi da sé». 10

- Povero Renzo, ridotto alla dimensione di un borghese piccolo piccolo. Certo, l’ho fatta grossa con quel finale del romanzo: dovevo lasciare i nostri eroi al loro paesello, a coltivare il giardino (anzi la vigna…).

 

- Certo, Maestro, se posso esporre un’impressione personale, la “morale” di Renzo, alla fine della “favola” («Ho imparato a non mettermi ne’ tumulti, ho imparato a non predicare in piazza…»), mi pare proprio simile a quella di un “galantuomo”, come il mercante dell’osteria di Gorgonzola che ragiona con la logica del suo “particulare”: una logica che combacia perfettamente con l’ideologia dei potenti: «Chi farebbe viver la povera gente, quando i signori fossero ammazzati?». Ragionamento degno di Menenio Agrippa, che non gli impedisce di essere un feroce forcaiolo per amor di “giustizia” nei confronti dei facinorosi, fra i quali mette anche Renzo.

- L’accostamento mi pare audace. Semmai è Bortolo, suo cugino, che per molti aspetti ha la psicologia, utilitaristica e reazionaria (non a caso è fautore dell’oligarchia veneziana), del tipico borghese, appunto, come il mercante di Gorgonzola. 11 Comunque, tornando a Renzo, chi ha detto che il “sugo” del romanzo coincida con il suo “ravvedimento” o che io sposi senza riserve la sua mentalità di buon padre di famiglia, finalmente accasato e senza grane? Orbene, non è affar mio difendermi dalle accuse dei detrattori; vorrei solo precisare che i criteri di lettura del romanzo non sono affatto univoci e che narratore, personaggi e lettori conservano una loro autonomia di giudizio di cui si deve tener conto. I personaggi, poi, rappresentano la multiforme esperienza del reale che nessun “sistema” potrebbe rendere coerente. Lo stesso narratore non è ‘a priori’ onnisciente e concede ai personaggi, il più delle volte, la responsabilità del giudizio, sottolineando la molteplicità dialettica dei punti di vista. Basti, a tale proposito, evocare la questione del rovesciamento dialettico dei ruoli dell’“oppresso” e dell’“oppressore”, che sorge nel capitolo VIII dei Promessi sposi dai rapporti reciproci di don Abbondio e di Renzo nella notte degli imbrogli e dei sotterfugi. Ma è solo un caso in cui io stesso intervengo per sottolineare l’ambiguità della situazione e dei giudizi, giacché in molti altri casi è il lettore che deve cogliere la parzialità delle prospettive. In ogni modo, il narratore, anche quando fa sentire la sua voce e, quindi, la sua ‘posizione ideologica’, non pretende mai di rappresentare, con la sicumera di don Ferrante, la verità. Men che mai, io pretendo di esprimere o di sostituire l’occhio di Dio, che vede e giudica il male di questo mondo. Anche il mio spazio è dialettico e appartiene, sì, alla mia personalità di credente e di intellettuale, ma è circoscritto anche dai doveri dell’umiltà evangelica.

 

- Il risalto esemplare che nel suo romanzo assumono i personaggi – sia quelli principali sia quelli secondari - è, tuttavia, così forte che porta a dimenticare i limiti del loro modo di vedere e di capire i fatti. Pertanto, è facile estrapolarne giudizi ideologici e affibbiarli all’autore.

- Per quanto riguarda il problema della mia ‘posizione ideologica’, devo confessarle che mi troverei molto imbarazzato a riconoscermi in una delle posizioni che, a torto o a ragione, mi vengono attribuite e che derivano, per lo più, dall’assolutizzazione dei punti di vista dei personaggi. Insomma, il senso del mio romanzo si ribella a questa riduzione ideologica ed è molto più complesso, sfuggente, “ambiguo”. Per poterlo afferrare, questo benedetto “sugo” della storia, occorre che il lettore recuperi una posizione critica adeguata.

 

- E cioè?

- Guardi, professore, le dirò che, a patto di ridurre il tono enfatico della considerazione finale, che poco si addice al mio senso della misura, uno dei critici che hanno colto meglio il significato dei Promessi sposi in quanto romanzo storico è György Lukács, con il giudizio del quale, caratterizzato da quell’ottica essenzializzante che è tipica dello sguardo di uno studioso straniero che rivolge la sua attenzione alla cultura del nostro paese, mi sembra giusto conchiudere (ma non concludere) questa intervista: «Manzoni descrive direttamente soltanto un episodio concreto della vita del popolo italiano: l’amore, la separazione e il ritrovarsi di un giovane e di una fanciulla, entrambi di condizione contadina. Ma nella sua rappresentazione il fatto si sviluppa in modo da diventare la generale tragedia del popolo italiano in una situazione di avvilimento e di spezzettamento nazionale. Senza mai uscire da una concreta cornice locale e temporale, da una psicologia condizionata dall’epoca e dalla classe sociale, il destino dei due protagonisti diventa ‘la’ tragedia del popolo italiano in genere. Con questa grandiosa e profonda concezione storica Manzoni crea un romanzo che per l’efficacia dei sentimenti umani supera perfino il suo maestro [Walter Scott]». 12

 

- Con un simile ‘fulmen in clausula’ – la battuta finale che lascia stupito l’ascoltatore - lei, Maestro, supera qualunque aspettativa io potessi nutrire a proposito della sua arguzia, della sua profondità e della sua spregiudicatezza. Non mi resta che presentarle i miei omaggi, ringraziarla per l’attenzione che mi ha dedicato, così come per le conoscenze che mi ha trasmesso, e prendere commiato da lei.


Note
1 Frase del Manzoni tratta dall’epistolario e citata in Un umanista del ’900 – scritti su e di Guglielmo Alberti, a cura di Ersilia Alessandrone Perona e Francesco Alberti La Marmora, Mazzotta, Milano 2005, pp. 34-35. L’Alberti è autore di uno studio pregevole che occupa un posto importante nella bibliografia critica relativa al grande scrittore lombardo, Alessandro Manzoni. Introduzione allo studio della sua vita e delle sue opere, Garzanti, Milano 1964. Questa monografia è stata poi ripubblicata con alcuni tagli in: E. Cecchi, N. Sapegno, Storia della letteratura italiana, vol. VII, L’Ottocento, Garzanti, Milano 1976, pp. 621-745.
2 U. Eco, Opera aperta, La nave di Teseo, Milano 2023.
3 Lettera del Manzoni al marchese D’Azeglio (22 settembre 1823): «…mi limiterò a esporle quello che a me sembra il principio generale a cui si possano ridurre tutti i sentimenti particolari sul positivo romantico. Il principio, di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso, mi sembra poter esser questo: Che la poesia, e la letteratura in genere debba proporsi l'utile per iscopo, il vero per soggetto, e l’interessante per mezzo.»
4 Questo giudizio, come è noto, è stato espresso nel 2023 dall’ex ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. A proposito della disputa che ne è nata, mi permetto di rinviare al paragrafo 4 del mio lavoro su Dante Alighieri, reperibile in questo stesso sito:
https://www.sinistrainrete.info/cultura/19475-eros-barone-una-figura-colossale-dante-alighieri.html.
5 Cfr., per il commento di Attilio Momigliano, I promessi sposi, Sansoni, Firenze 1951 e, per il commento di Luigi Russo, La Nuova Italia, Firenze 1962.
6 Cfr. https://movio.beniculturali.it/dsglism/IpromessisposiinEuropaenelmondo/it/24/in-america.
7 Un umanista…cit., p. 71.
8 Ivi, pp. 71-72.
9 Per le brevi notazioni sparse di Gramsci sul Manzoni si veda l’indice per voci nell’edizione critica a cura di V. Gerratana, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975. Per Gramsci Manzoni rappresenta il momento di più alta e combattiva coscienza della borghesia italiana risorgimentale; egli sottolinea il nuovo atteggiamento democratico dello scrittore lombardo e indica in questo una ragione della grandezza artistica della sua opera. Ma non può fare a meno di rilevare in prospettiva politica le insufficienze di quella classe dirigente, la sua scarsa coscienza nazionale, la sua angustia di orizzonti, il suo timore di lasciare troppo spazio all’iniziativa delle masse popolari. Una posizione alquanto diversa ha espresso C. Cases in uno scritto del 1966, I «Promessi sposi» e la critica progressista (poi raccolto in Patrie lettere, Liviana, Padova 1974), il quale ha osservato che l’innegabile paternalismo manzoniano si nutre di tale sete di giustizia e orrore dell’oppressione da scardinare i meccanismi di violenza della società e della famiglia (si veda l’episodio di Gertrude) e che d’altra parte la religione di Manzoni introduce nell’Italia della Controriforma e della Restaurazione la visione di un Dio giansenista e borghese, cioè “attivo, petulante, rompiscatole” che collabora concretamente alla costruzione di un mondo più razionale e giusto. La discussione è stata poi rilanciata dal saggio di C. Salinari, La struttura ideologica dei «Promessi sposi», in «Critica marxista», 1974, n. 3-4, pp. 183-200, seguìto alle pp. 201-206 dalle Glosse a Salinari in cui E. Sanguineti precisa i punti di consenso e di dissenso. Interessante è l’interpretazione sviluppata da V. Spinazzola, Il libro per tutti. Saggio su «I promessi sposi», Editori Riuniti, Roma 1983, il quale, dal canto suo, sottolinea la profonda italianità del romanzo.
10 Cfr. nota 9.
11 Si veda, per quanto concerne l’analisi dell’individualità dei personaggi e la potente introspezione psicologica con cui Manzoni conduce tale analisi, il classico libro di L. Russo, Personaggi dei Promessi sposi, Laterza, Bari 1965.
12 G. Lukács, Il romanzo storico, trad. it. di E. Arnaud, Einaudi, Torino 1972, pp. 81-83.
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Comments

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Paolo Selmi
Tuesday, 26 November 2024 08:20
Ti ringrazio molto Eros!
Sia per il tuo lavoro in sé, che mi ricorda quanto di bello e di importante, quanta ricchezza abbiamo, del tutto ignorata, neanche inesplorata, proprio ignorata, nel nostro belpaese, che per la bibliografia.

Quando tutto questo finirà vorrei tanto mettermi a leggere... e basta. E non di corsa come faccio ora per qualsiasi cosa... ma come Dio comanda (se mai lo ha comandato... non so, pigliamolo come un modo di dire).

Il Maestro cita un altro Maestro che per certi versi era molto simile a lui (chissà se mai qualcuno ci ha lavorato sopra, accostandone il lavoro), anche se più familiare alla visione di bianche betulle intorno, al posto di pini, castagni, faggi, come diceva un altro grande (Rigoni Stern, cito a memoria mi sembra da "Uomini, boschi e api", erano i suoi due grandi paesaggi, uno di qua e uno di là).

Ebbene io, forse perché lo lessi tardi, e fu un bene che lo lessi tardi, non mi posi mai la domanda, da "guardia rossa", del perché Guerra e Pace non finisse con le teste di tutti i nobili in qualche cesta recuperata nei dintorni di Borodino... additando quindi il libro all'ennesimo rogo. Anche se c'è sempre il buon Brodskij che dice che c'è ancora di peggio per la sorte di un libro, ovvero non leggerlo... e forse è questa, la fine peggiore, che ora stan facendo...

Ma all'epoca, giustamente, logicamente, era come dici tu e si lamenta il Maestro... che palle 'sti promessi sposi! Posso dirti una cosa: un mio carissimo amico russo, mi ricorderò sempre che una volta mi ha detto: "per noi a scuola era lo stesso con Guerra e Pace, con la differenza che lì almeno potevamo dividerci in due fazioni: le femminucce a guardare la "pace", ovvero le varie tresche e le vicende della "loro" Natascia, e noi la "guerra" ", immagino anche quest'ultima vista come potevamo vedere noi le scenette di indiani e yankee con e senza stella di latta nel nostro immaginario "fra la Via Emilia e il West".

E allora forse davvero il torto maggiore fatto a quel libro è stato di imporlo nell'età più sbagliata per leggerlo, come guerra e pace... proverò a rileggerlo, quando tutto questo sarà finito, come ho letto Tol'stoj. E alla fine dell'esperimento penso di uscirne più arricchito. Anche se Renzo finisce borghese e il conte Bezuchov resta conte.

Grazie ancora
Un abbraccio
Paolo
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