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La fantascienza come profezia

La SF alla prova del presente

di Giulia Abbate

0e99dc dbe9b1de168342e8811b7f36333d5bb1mv2Riflettendo sullo stato dell’arte della letteratura di fantascienza, Giulia Abbate, scrittrice ed esperta del genere, fa il punto sul rapporto tra realtà e inquietudine speculativa, tra futuro inverato e critica sociale. E ripercorre la pista battuta da Mario Tronti, quella che coniuga politica e profezia, per illuminare il futuro critico della SF, ora che è divenuta «la star delle feste perbene». Un testo acuto e critico, come Abbate sa fare.

* * * *

Un genere della modernità

«Devo forse essere soltanto un’arancia a orologeria?». Anthony Burgess, Un’arancia a orologeria [1].

La fantascienza nasce con la civiltà industriale, dall’inquietudine suscitata dall’avanzamento tecnologico oltre limiti ritenuti insuperabili – è questo, ad esempio, il tema centrale di Frankenstein di Mary Shelley, opera fondativa del genere. Oltre a misurarsi con la tecnologia e la hybris della scienza, la fantascienza si confronta con la società di massa, con i lati oscuri delle utopie, con la propaganda del potere, elaborando visioni distopiche memorabili.

«La fantascienza è mitografia della scienza», afferma Franco Ricciardiello. Secondo Valerio Evangelisti, «la fantascienza è il genere narrativo che ha per oggetto i sogni e gli incubi generati dallo sviluppo tecnologico, scientifico e sociale». Una definizione di merito, che può essere arricchita da una nota di metodo: la fantascienza procede nella sua narrazione in modo razionale, sviluppando metodicamente le premesse poste dall’idea peculiare, che Darko Suvin chiama novum.

Il novum è l’idea di base su cui si fonda la traslazione fantascientifica: un cruciale «e se?», il cui sviluppo avviene in modo sistematico, non attraverso simbolismi o fantasie in senso lato, ma mediante il racconto delle implicazioni di quell’idea e la cura per la verosimiglianza dei suoi sviluppi. Inoltre, la fantascienza non si esprime in forme filosofiche o saggistiche, ma si realizza nella scrittura narrativa, e per di più «profana» – secondo la definizione di Northrop Frye – ovvero romanzesca e popolare.

Queste caratteristiche delineano il profilo di un genere letterario intimamente legato alla modernità, che ne esplora le categorie mentre le assume come proprie. La speculazione condotta con metodo scientifico, la tematizzazione della tecnologia attraverso l’analisi delle sue implicazioni, la critica della società di massa svolta in una forma a sua volta di massa: sono i tratti distintivi della fantascienza impegnata, quella che non si limita a confezionare un’avventura di intrattenimento fantasmagorico, ma che intende sottoporre a indagine critica il mondo presente, l’attuale, il reale.

Per alcuni, la modernità è terminata e ci troviamo ormai in un’epoca postmoderna, in cui la «narrazione» si sostituisce alla realtà. In questo contesto, la fantascienza – che un tempo criticava il reale schermandosi nella finzione – sembra oggi assumere il rango di discorso corrente, quasi di senso comune. Molti, a cominciare dai potenti, parlano oggi il linguaggio della fantascienza: tra sogni di colonizzazione marziana, sfrenate fantasie transumane, ipotesi di ibridazioni – dal cyborg al fungo – fino a speculazioni sulla cosiddetta intelligenza artificiale, sempre meno profonde e ben più legate al costume.

Cosa resta, in questo presunto passaggio epocale, della carica controculturale e critica della fantascienza? Forse è destinata a restare confinata nel mondo di ieri, a spegnersi nel trapasso?

Eppure, che questo passaggio sia realmente avvenuto – nel mondo materiale oltre che in quello culturale – è ancora tutto da dimostrare. E forse la domanda andrebbe posta in altri termini, tutti interni al piano culturale: come può sopravvivere la postura inquieta – necessaria alla vena fantascientifica – nel momento in cui ciò che era un genere marginale e sovversivo calca i palcoscenici ed è divenuto la star delle feste perbene?

O forse c’è qualcosa di più profondo, un vulnus nella natura stessa del genere? Forse si manifesta ora una debolezza intrinseca, presente fin dalla nascita: è possibile opporsi a qualcosa restando all’interno del suo stesso paradigma? Fin dove può spingersi la critica alle forme della modernità, quando è condotta proprio attraverso quelle stesse forme?

Forse non abbiamo ancora detto tutto. Forse c’è un fantasma che si aggira nella fantascienza. Un tratto minoritario, ma vitale, che chiama in causa la grande vittima della modernità: il sacro.

Il legame con una misteriosa dimensione trascendente, anch’esso da sempre inquieto, fa parte dell’esperienza umana. Dall’Illuminismo in poi è stato attaccato, progressivamente smantellato, e infine cancellato dalla corrente postmoderna, che oggi vediamo compiersi nel nichilismo. Se è vero, com’è vero, che la fantascienza è una forma moderna che si confronta in modo critico e inquieto con il mondo moderno, essa dovrebbe mostrarsi poco interessata alle questioni spirituali… eppure, il sacro – e la consapevolezza della sua esistenza – affiorano nella produzione sci-fi. Non in modo sistematico, ma con emersioni inattese utili, forse, ad affrontare le tensioni evocate fin qui.

Per argomentare questa ricerca (giacché, dato il tema, non è prudente parlare di tesi, e l’ipotesi resta sfuggente), occorre procedere per gradi, seguendo le tracce di tre distinti filoni di una possibile corrente fantasacra: esigua, certo, ma punteggiata da nomi importanti e opere memorabili.

 

Fantareligioni

«Come nasce l'idea di dio? È indubbio che abbiamo convinzioni balorde su innumerevoli cose, ma proviamo a vedere da cosa derivino». Douglas Adams, Il salmone del dubbio [2].

Il filone più ampio e visibile è quello della fantareligione: un’ampia messe di romanzi che mettono in scena culti immaginari o evoluzioni futuristiche di religioni esistenti.

Quando si ambisce a costruire mondi fittizi completi, o a proiettare civiltà nel futuro o in continuum alternativi, la componente religiosa contribuisce alla coerenza e alla verosimiglianza dello scenario. La fantareligione viene talvolta introdotta anche solo per non incorrere nell’accusa di incompiutezza. Persino l’ateo e razionalista Isaac Asimov inserisce nel primo volume della Fondazione una «Religione della Tecnologia», utile a fornire un fondamento ideologico al suo Impero Galattico.

La saga di Dune di Frank Herbert, così come alcuni romanzi di Roger Zelazny – tra cui Creature della luce e delle tenebre – sono esempi emblematici di testi in cui si compie un passo ulteriore: la religione non è soltanto un elemento di sfondo, ma struttura la trama, modella i personaggi, talvolta orienta persino lo stile, come nel caso del raffinato Zelazny. In Un cantico per Leibowitz, Walter M. Miller Jr. racconta il ruolo del monachesimo romano in un’epoca successiva a un’apocalisse nucleare; Deus Irae, scritto da Philip K. Dick in collaborazione con Zelazny, ambienta nello stesso scenario la lotta tra il cristianesimo e la nuova religione dei Figli dell’Ira. In Ghiaccio Nove, Kurt Vonnegut inventa una religione per farsene beffa: il bokononismo, una forma di venerazione della menzogna. In Il mondo della foresta, Ursula K. Le Guin attinge alle sue competenze antropologiche per raccontare la cultura del popolo alieno colonizzato: gli Athsheani vivono in simbiosi con il loro pianeta lussureggiante, seguendo una spiritualità collettiva che intreccia sogno, meditazione e nonviolenza.

L’elenco potrebbe continuare. Ma non siamo ancora al di fuori dei crismi moderni: il sacro è chiamato in causa come oggetto di studio, come elemento fattuale inevitabile, o – quando si presenta nella sua forma religiosa – come bersaglio di critica. Le satire di Vonnegut o di Douglas Adams si ricollegano direttamente al caustico Voltaire, e persino alle raffinate, battagliere elucubrazioni di Cyrano de Bergerac, che precedono l’Illuminismo, risalendo a quel Grand Siècle che ha visto nascere la rivoluzione scientifica.

È nominando Ursula K. Le Guin che si apre uno spiraglio diverso: ed è da qui che possiamo spostarci verso un’altra corrente di opere, in cui il sacro circola in modo più profondo, secondo un fenomeno che chiamerei: sacro travaso.

 

Sacro travaso

«La mia memoria genetica (DNA) ha preso fuoco, si è spalancata: lo so». Philip K. Dick, Joe Protagoras è vivo [3].

Si verifica un sacro travaso quando nei romanzi sci-fi compaiono elementi religiosi, cultuali o spirituali non tanto – e non solo – per esigenze narrative, per costruzione dell’ambientazione o per coerenza di trama, ma perché riflettono percorsi interiori e convinzioni profonde degli autori e delle autrici. L’elemento sacrale, in questi casi, è innanzitutto una questione esistenziale, più che letteraria: emerge in modo spontaneo, talvolta persino impellente, dalla prospettiva interiore che anima la scrittura fin dalla sua origine.

È noto che Ursula K. Le Guin si dichiarasse taoista: di questa filosofia, al tempo stesso spirituale e pratica, ella infonde la quasi totalità della sua produzione fantascientifica. Oltre al già citato Il mondo della foresta – dura storia di colonialismo e sterminio scritta negli anni della guerra del Vietnam – il celebre La mano sinistra delle tenebre fonda la società del Pianeta Inverno sulla compenetrazione dinamica degli opposti. Una dinamica che produce anche episodi di estrema violenza, sottraendo il romanzo all’ombrello dell’utopia nel quale spesso viene impropriamente collocato. Utopico è piuttosto L’occhio dell’airone, romanzo breve in cui una comunità di reietti (chiamata non a caso Shanti) pratica una forma di vita collettiva anarchica e nuovamente nonviolenta. In Sempre la valle, Le Guin supera persino la forma romanzo, componendo – attraverso un florilegio di materiali da lei interamente inventati – il grande affresco della storia di un popolo animista e della sua cosmogonia. Si può affermare che l’intero ciclo dell’Ecumene, ovvero la produzione più marcatamente sci-fi dell’autrice, esprima la sua visione spirituale attraverso tutte le componenti letterarie, simultaneamente o in alternanza: ambientazione, personaggi, intreccio, struttura e risoluzione dei conflitti narrativi, fino all’invenzione stessa dei novum da cui le vicende si generano.

Un caso simile per qualità, e forse superiore per intensità, è quello di Philip K. Dick. Anima angosciata, segnata da una storia familiare dolorosa e sconvolta dall’abuso di sostanze, Dick era già immerso in un percorso interiore in cui paranoia e trascendenza deflagravano in sogni, presagi, studi e speculazioni. È in questo contesto che, colpito da un arresto cardiaco, vive una visione di stampo cristico-apocalittico. Si tratta di uno spartiacque esistenziale: da quel momento in poi, la sua produzione si fa sempre più complessa, cupa e tormentata. Eppure, le suggestioni religiose erano già presenti, anticipando l’evento che le avrebbe radicalizzate. Il primo romanzo in cui Dick fonde esplicitamente studi religiosi e inquietudine paranoica è Le tre stimmate di Palmer Eldritch, che si conclude in modo francamente spaventoso.

In Dick, l’aspetto religioso cresce progressivamente, virando dal cristianesimo orientale allo gnosticismo, fino a culminare nella sua ultima, monumentale opera – pubblicata poco prima della morte prematura: la trilogia di Valis. A lungo considerata un eccesso al limite della patologia mentale, Valis rappresenta invece il vertice, sia espressivo che esistenziale, del percorso dell’autore. Solo che, come la visione da cui scaturisce, Valis si presenta in forma esoterica: non è comprensibile a chi non «sappia già», ovvero a chi non abbia in qualche modo vissuto ciò che Dick racconta. «Chi sa tace, chi spiega mente»: un principio iniziatico rispetto al quale la scrittura esoterica si pone di traverso, comunicando in modo sapienziale e rifiutando deliberatamente di aprirsi a chiunque.

Ben lo sapeva Aldous Huxley, grande vecchio e sapiente della fantascienza novecentesca. Espressione dell’élite politica e culturale britannica al tramonto dell’era imperiale, Huxley trascorse la vita a studiare – tutto, comprese religioni antiche, pratiche spirituali e dimensioni della trascendenza. È noto che fu tra i più celebri sperimentatori di sostanze psicotrope: memore dell’insegnamento dei Veda, collocò queste esperienze in una cornice apertamente sacrale, e ne raccontò gli effetti in una serie di saggi memorabili. Non a caso volle assumere LSD in punto di morte. Un anno prima di quell’ultimo viaggio, Huxley pubblica L’isola, utopia nella quale la «medicina moksh» – sostanza simile alla mescalina – struttura l’intera esistenza dei gentili abitanti dell’isola di Pala. Trenta anni prima, lo stesso psicoattivo era stato immaginato in chiave distopica: ne Il mondo nuovo compare il «soma» (vero nome sanscrito di una misteriosa bevanda sacra), droga di Stato che, provocando visioni pseudomistiche, garantisce una soddisfazione surrettizia e continua, e dunque un controllo totale sulla popolazione. Una critica alla politica, certo, ma anche alla religione: critica che Huxley sviluppa in modo sempre più radicale nel corso del suo percorso.

Le opere in cui avviene un sacro travaso ci aiutano a trascendere. Fuori di metafora, esso risolve il «problema interno»: ovvero, la questione dell’efficacia di una critica che resti interamente interna al paradigma che intende mettere in discussione. Il sacro travaso introduce nella fantascienza un fuori – e, così facendo, ne fa il contenitore stesso di tutto. Le opere che ne risultano non si limitano a parlarci della nostra società, del campo di forze in cui siamo immersi, dei problemi legati ai nostri strumenti. Esse interrogano il mistero del nostro stare al mondo: la nostra vita, e la sua tormentosa, inafferrabile radice.

Che ne è, ora, dell’altro problema? Del destino della fantascienza in un mondo postmoderno che pretende di sussumerla, riducendola a discorso comune, a intrattenimento neutralizzato?

Attraverso il lavoro di Huxley e l’evocazione di una radicalità possibile, si apre uno spiraglio che ci conduce all’ultimo filone della ricerca – stretto e potente come uno zampillo sorgivo. Parlo di quel rapimento disarticolante che ignora la logica discorsiva e prende il nome di: mistica.

 

Negli abissi luminosi

«Tu cambi tutto ciò che tocchi. / Tutto ciò che cambi ti cambia. / L’unica verità duratura è il cambiamento. / Dio è cambiamento». Octavia E. Butler, La parabola del seminatore [4].

Negli abissi luminosi è il titolo di un saggio del grecista Angelo Tonelli, dedicato a «sciamanesimo, trance ed estasi nella Grecia antica». Tonelli getta luce su aspetti che il senso comune considera distanti – se non del tutto alieni – dalla civiltà grecoantica, di norma identificata con i principi di razionalità, consapevolezza, armonia, serenità olimpica e via dicendo. Questa civiltà, che vantiamo come fondamento della nostra, cela invece una parte meno visibile, radicata in un sacro tanto fulgente quanto ferale, che – secondo Tonelli – solo un «iniziato» può decifrare, ma che, una volta colto, dà un senso completamente diverso all’intero impianto culturale.

Può valere lo stesso anche per la fantascienza? Può darsi che, all’interno di questo vasto corpus letterario identificato con la modernità, si celi un’attitudine meno visibile, disseminata in frammenti dimenticati o poco esplorati, e che sia in grado di gettare una luce diversa sull’intero genere?

«Stanotte ho fatto il mio sogno ricorrente». È l’incipit di La parabola del seminatore di Octavia E. Butler (seguito da La parabola dei talenti; la serie doveva continuare, ma l’autrice morì prematuramente). La protagonista è Lauren Olamina; il sogno che apre il romanzo è la rivelazione del culto che lei stessa formula: il «Seme della Terra», un credo anarchico il cui unico dogma è l’assenza di dogmi: «Dio è cambiamento». Olamina fugge dall’assalto alla sua comunità protetta, attraversa a piedi una California devastata da bande e predoni, raduna attorno a sé sbandati e sopravvissuti, e ne fa pellegrini di una nuova comunità. Attraverso lo sfacelo di una civiltà al tramonto e la sua violenza sconvolgente, la ragazza si fa annunciatrice e insieme costruttrice di un’idea di mondo radicalmente nuova. Questa nuova visione è intimamente connessa con il sacro, ma rigetta ogni religione costituita: nel primo romanzo si tratta di quella paterna, pur se figura positiva; nel secondo, è il nefasto fondamentalismo di un partito politico-messianico, il cui leader esorta «a rendere l’America di nuovo grande»: make America great again.

L’abisso luminoso si irradia all’indietro, verso tutto il resto: lo tocca, ne è toccato; lo trasforma, e da esso viene trasformato. E lascia in eredità un dono imbarazzante, pericoloso. A quella fantascienza che procede tutta all’interno del moderno «con sicura inflessibilità», come osserva Roger Caillois, si contrappone un’altra, di segno diverso: sommersa, rarefatta, inattuale. Eppure, capace di farsi raggiungere – perché non affida il suo messaggio a codici ermetici, ma a figure di protagoniste straordinariamente vivide e vicine.

 

Profetesse sull'orlo del tempo

«“Le donne scrivono sempre in volgare” ha detto la mia amica». Joanna Russ, Vietato scrivere. Come soffocare la scrittura delle donne [5].

Il dono dell’abisso luminoso è, appunto, la profezia. Che non è previsione del futuro – sebbene la fantascienza con il futuro abbia un rapporto, per quanto complicato. La fantascienza lo immagina, e talvolta lo indovina anche; ma qui il punto è un altro. Profeta non è chi prevede ciò che accadrà, ma chi dice la verità divina. E lo paga caro – come insegna l’Antico Testamento, e come ricorda la figura dolente di Cassandra.

Il terzo e ultimo rivolo della corrente fantasacra, quello mistico, si esprime così: attraverso nuove Cassandre, recuperate, rielaborate, riraccontate.

Consuelo Ramos, protagonista del romanzo Donna sul filo del tempo di Marge Piercy, durante un iniquo internamento psichiatrico viaggia nel futuro. Lì sperimenta prima un’utopia libertaria, poi una distopia maschilista da incubo. Eppure ciò che Consuelo vede non è semplicemente utopia o distopia: è profezia.«Nel “deve accadere” sta tutta la potenza della sua parola», scrive Mario Tronti in Perché profezia e politica. E a Consuelo viene detto: «Noi non siamo che un futuro possibile», con l’auspicio che qualcuno raccolga quella visione per «essere il futuro che avviene».

Consuelo, come Olamina, è una creatura scagliata nella violenza del proprio tempo, portatrice di un vissuto segnato da emarginazione e minorità. Altri autori SF si richiamano a figure più illustri, come Santa Ildegarda di Bingen: visionaria, badessa, erborista, compositrice, guaritrice, linguista, vissuta nell’XI secolo in Renania e recentemente assorbita nel pantheon mainstream delle «ragazze ribelli». Su di lei scrive anche Joanna Russ, autrice femminista postmodernista, nel pluripremiato romanzo breve Anime. La saggia e temperante badessa Radegunde si oppone alla brutalità vichinga con una forma di resistenza «nonviolenta» che richiama le sublimazioni di Le Guin. Eppure, il risultato appare poco convincente: nei discorsi, a tratti confusi, su redenzione e vendetta; e nella parte fantascientifica, che si chiude con una trovata conclusiva piuttosto prevedibile.

Hildegard von Bingen torna in un romanzo di recente pubblicazione, Lingua ignota di Huw Lemmey, che piuttosto impropriamente riporta il nome della badessa come coautrice. Lemmey, articolista e ideologo queer, si ispira alle visioni di Hildegard, rielaborandole in chiave letteralista all’interno di un’avventura confusa, testualmente postapocalittica: l’Apocalisse è narrata come un’invasione, il Giudizio come un regime del terrore in cui gli Angeli operano come un servizio segreto inquietante. L’esperimento non riesce: l’aspirazione al «romanzo mutante» si traduce in tre testi distinti e privi di organicità, con un pastiche centrale che, nel servirsi delle visioni, ne cancella l’essenza più profonda – il sacro.

Escissione, questa, operata anche da Becky Chambers che, in Un salmo per il robot, segue un monaco appartenente a una religione priva di qualsiasi trascendenza – tanto che, nel discutere di temi fondamentali, ha la peggio persino con un robot arrugginito. Sembra, insomma, che dopo la cacciata del sacro operata dal moderno, il suo recupero da parte del postmoderno – in chiave di generica «narrazione» – produca esiti peggiorativi. E forse anche la scelta della figura profetica femminile segnala un’incomprensione di fondo. Il profilo della pur grande Santa Ildegarda è infatti storicamente «organico» al potere: ed è proprio di questo che la fantascienza dovrebbe sempre diffidare. Tutta la fantascienza.

Eppure, quando Joanna Russ richiama alla memoria le parole della sua amica – «tutte le donne scrivono in volgare» – sono altre le esperienze a cui si allude. Russ parla di letteratura popolare, ma l’amica si riferisce alle donne che, nel Medioevo, traducono gli scritti sacri nelle lingue volgari dei propri territori. E pensando alla nobile Ildegarda, l’esperienza affine sul «fronte volgare» non può che essere quella della mistica beghinale: una forma di spiritualità femminile laica, radicata in comunità fondate sul lavoro e sulla preghiera, che la Chiesa finì per spazzare via, accusandola di eresia. Un’accusa probabilmente fondata, una repressione brutalmente efficace… e tuttavia, l’eresia non ha mai cessato di gorgogliare, come uno zampillo sotterraneo al di sotto della roccia: strano, isolato, ma forse ancora udibile dal volgo-popolo – da noi tutti. E a volte, inaspettatamente, riemerge.

Amatka di Karin Tidbeck è uno strano romanzo, in cui la fantascienza sconfina a tratti in un fantastico di senso più ampio. Ma resta ancorata al genere grazie alla critica sociale che l’attraversa e alla metodicità con cui l’idea di base viene costruita e sviluppata. Siamo in una società oppressiva, fondata su una pianificazione sociale pervasiva: qui gli oggetti devono essere continuamente etichettati, scrivendo su di essi il loro nome, altrimenti si degradano, si dissolvono – e allora qualcosa di terribile può accadere alla tenuta stessa della realtà. Vanja Esse Due di Brilars è un’ispettrice grigia e impassibile, inviata nella remota Amatka con un bizzarro incarico di sorveglianza igienica. In questa periferia rarefatta, Vanja si imbatte negli scritti di una poetessa morta in un incendio: Anna di Berols, che prende lentamente possesso del suo immaginario, fino a esprimere – nelle ultime, straordinarie pagine del romanzo – un significato potente e liberatorio.

Anna di Berols «era come se comprendesse le parole e gli oggetti a un livello più profondo di tutti gli altri», e riusciva a dare agli aleatori e pericolosi oggetti «una forma perfettamente compiuta» che sembrava rendere superfluo il contrassegno. Figura enigmatica all’interno del romanzo, Anna diventa idealmente intellegibile se la si ricollega alla figura da cui pare ispirata: Margherita Porete, beghina, poetessa e mistica, autrice de Lo specchio delle anime annientate, che le valse l’accusa di eresia e la spedì sul rogo.

Margherita Porete è emblematica della corrente delle poetesse di Dio che, intorno al XIII secolo, mettono in versi – scritti in volgare, e dunque immediatamente diffusi – l’esperienza del rapimento mistico. Attraverso questa via arrivano a minacciare in modo radicale dogmi fondamentali della Chiesa, come la trascendenza divina e la differenza ontologica tra Creatore e creature. Vivono e cantano, in altre parole, una canzone affine a quella dei Veda che innescò la conversione dell’erudito Huxley. Il testo di Margherita Porete – che lei si rifiutò di ritrattare o persino discutere con gli inquisitori – perse per secoli il nome della sua autrice, ma continuò a circolare negli anfratti degli archivi: seminò nell’animo del Maestro Eckhart e, più tardi, in quello del cattivo maestro Heidegger; influenzò Simone Weil; fu infine riattribuito a Porete dalla storica Romana Guarnieri e ispirò Luisa Muraro e le sue ardite riflessioni in Il Dio delle donne.

A questo percorso ostinato possiamo forse aggiungere un’altra tappa: Amatka e Anna di Berols, che nel romanzo funge da catalizzatore di una rivelazione sconvolgente – quella del reale. Una rivelazione che può dirci qualcosa anche sulla fantascienza che osa rappresentarla.

 

Tra le fiamme

«Profezia è discorso di libertà. Libertà dal proprio tempo, e da chi lo comanda. I dominatori non hanno bisogno di profeti. Hanno, per servizio, i loro funzionari (…) Sono gli oppressi ad aver bisogno dell’azione e della parola profetica». Mario Tronti, «Perché profezia e politica? Di questi tempi» [6].

La realtà esiste, la verità anche. È questo che ci dicono la fantascienza delle profetesse e la loro stretta via anarco-fem-mistica. E, a volerla ascoltare, ci dicono anche di più.

La migliore fantascienza sociale – nata e cresciuta nell’era delle masse, della produzione industriale e del totalitarismo – si misura con il compito arduo della demistificazione: smascherare la propaganda del potere, che si è fatta nel tempo sempre più centralizzata, sempre più massificata, sempre più pervasiva. Ma oggi la fantascienza appare oltremodo affaticata, sempre più confusa con altro, sempre più colonizzata e sussunta dai dominanti attraverso l’estrattivismo dell’industria culturale. La domanda – ce la siamo già posta – resta aperta: è ancora uno strumento valido per leggere la realtà?

Nel momento in cui la filosofia corrente afferma che non esistono verità ma solo interpretazioni; in cui la nozione di «narrazione» viene spacciata come unica chiave leggibile del reale; in cui si finisce per credere – in senso letterale – che il linguaggio crea la realtà… la fantascienza può ancora evitare l’assimilazione da parte del discorso egemonico? Può sottrarsi al rischio di dissolvere la propria carica critica nell’intrattenimento totale? Può ancora farsi strumento di lotta per l’emancipazione, contro la colonizzazione dell’immaginario?

Sì, sembrano dirci le profetesse. Sì, se si usano parole nitide, popolari e leali; parole in cui le metafore restano strumenti al servizio della descrizione dell’esistente, e in cui, accanto all’inquietudine speculativa, sopravvive il senso del sacro – non asservito a un credo codificato, ma radicato nella schietta coscienza del Bene e del male.

Dentro la drammatica degenerazione della modernità, la fantascienza può ancora resistere. Può stare dentro e anche fuori, ricollegandosi a una tradizione diversa da quella del puro razionalismo, ma comunque presente al proprio interno: grazie al filone fantasacro, e grazie alla sua originaria vocazione di mitografia.

Cos’è il mito, se non racconto del vero sempre in essere? Cos’è la fiaba, se non – anche – una forma di popolarizzazione del mito? E cos’è, allora, la fantascienza, se non – anche – la fiaba dei tempi moderni? La letteratura popolare, paraletteraria, d’accatto e di consumo, non è forse stata, in più di un’occasione, laboratorio di voci irriducibili, margine di sperimentazione e di libertà? Non è questa, forse, un’altra discendenza possibile – meno splendente rispetto al lignaggio scientifico, eppure tenuta in vita dall’esigenza popolare di una morale sottesa a ogni traversia, capace di rendere la vita degna di essere vissuta?

Lauren Olamina, Consuelo Ramos, Anna di Berols e i loro viaggi tra le fiamme dei mondi richiamano disastri in avvicinamento e in atto – ma anche incendi dello spirito, distruttivi e salvifici insieme. Il loro dire la verità «in volgare» ci aiuta a trascendere il senso letterale e il mondo secolare, restituendo slancio e aspirazioni senza le quali ogni idea è destinata all’irrilevanza o alla sussunzione.

Come ogni vera profetessa, anche la fantascienza – per questa via – rischia molto. Ma può conservare, almeno, la certezza che non sarà mai ridotta a schiava.


Note
[1] Anthony Burgess, Un'arancia a orologeria, Einaudi, Torino, 1969.
[2] Douglas Adams, «Esiste un dio artificiale?» in Il salmone del dubbio, Mondadori, Milano, 2002.
[3] Philip K. Dick, «Esegesi», in Joe Protagoras è vivo, Feltrinelli, Milano, 2000.
[4] Octavia E. Butler, La parabola del seminatore, Fanucci Roma, 2000.
[5] Joanna Russ, Vietato scrivere. Come soffocare la scrittura delle donne, Enciclopedia delle donne, Milano, 2021.
[6] Mario Tronti, Perché profezia e politica? Di questi tempi, «Machina», 20 luglio 2021.
Giulia Abbate, è una scrittrice ed editor indipendente, specializzata in scrittura di genere. Cofondatrice di Studio83 - Servizi letterari®, ha pubblicato romanzi, racconti in antologie e un manuale di scrittura di fantascienza (Odoya, con Franco Ricciardiello). Collabora con Delos Digital edizioni ed è tra le fondatrici del portale Solarpunk Italia (https://solarpunk.it/).
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Comments

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ndr60
Monday, 21 July 2025 16:45
Articolo interessante, tuttavia non capisco come mai l'autrice non citi tra i classici anche il romanzo di J. Blish "Guerra al Grande Nulla" del 1958.
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Irene Starace
Monday, 21 July 2025 15:57
Non sono mai stata un'amante della fantascienza, ma ho trovato l'articolo bellissimo. Grazie!
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Fabio Rontini
Monday, 21 July 2025 12:24
"Se è vero, com’è vero, che la fantascienza è una forma moderna che si confronta in modo critico e inquieto con il mondo moderno..."

Peccato che non è vero.

Gli autori dell'"Età d'oro" della fantascienza (anni '30-'40) erano a tutti gli effetti dei tecno-entusiasti, autori di idee prevalentemente progressiste che credevano (e speravano) che scienza e tecnologia, soprattutto l'esplorazione dello spazio e la "civiltà galattica", avrebbero provocato un mutamento radicale e intrinsecamente positivo dell'essere umano e della sua organizzazione sociale.

La sottocorrente che critica la modernità (cioè reazionaria), a cui l'autrice fa riferimento, che trova in Aldous Huxley il suo capostipite e anticipatore, e che può annoverare tra i suoi autori di punta anche l'Orwell di "1984", è quella della "fantascienza distopica", che ha però uno sviluppo più tardo (anni '50-'60), ma si tratta comunque di una corrente minoritaria, anche se senza dubbio interessante, all'interno della letteratura fantascientifica.
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Fabio Rontini
Monday, 21 July 2025 16:16
Grazie per la segnalazione, articolo interessante
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Alfred
Sunday, 20 July 2025 23:11
Non commento il testo che voglio rileggere, interessante la citazione da Valerio Evangelisti, nella mia opinione di amante del genere non trascurerei ne' Utopia di Tommaso Moro ne' i viaggi di Gulliver con gli Houyhnhnm di Swift. Anche certo viaggiare tra improbabili popolazioni (e molta satira) di Gargantua.
Ok, esagero, non posso evitare che certe inquietudini umane (anche se non riferite alla tecnologia) nel mio immaginario trovino antenati, probabilmente si tratta di fervida fantasia, chiedo venia.
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