Goffredo Fofi, l’ultimo rompicoglioni
di Vincenzo Morvillo
Goffredo Fofi ci ha lasciati venerdì. È stata la prima notizia che ho appreso aprendo il cellulare. Intellettuale eclettico e sfaccettatato, radicale e marxista eterodosso, Fofi è stato saggista, attivista, giornalista e critico cinematografico, letterario e teatrale italiano.
In tanti lo stanno ricordando in queste ore. Molti utilizzando parole di circostanza e format biografici. Pochi tracciandone ritratti sinceri e affettuosi.
Chi scrive vuole ricordare Goffredo per come lo ha conosciuto. Brevemente, di persona, una sera. Molto attraverso la sua scrittura, le sue riviste, le sue recensioni, i suoi testi.
Correva l’anno 1998, se la memoria non m’inganna. Lavoravo come critico ormaida qualche anno e avevo anche tenuto un corso all’Accademia di Belle Arti insieme all’amico regista Francesco Saponaro, presso la cattedra di Storia e Tecnica della Regia del professor Giulio Baffi, critico teatrale di Repubblica e mio mentore e amico.
All’epoca conoscevo Goffredo Fofi solo di nome per averne frequentato la scrittura felice e articolata, l’acutissima analisi critica e inesorabile come un giudizio divino, durante la lettura delle sue numerosissime recensioni cinematografiche, teatrali, letterarie.
O delle riviste da lui create: Ombre rosse e Quaderni Piacentini (nate negli anni ’60 e le cui pubblicazioni sono proseguite fino ai primi anni ’80, e di cui ero riuscito a procurarmi alcuni numeri grazie ad amici teatranti che avevano attraversato gli anni ’70); ma principalmente Linea d’ombra, a me più vicina come epoca essendo nata proprio negli anni ’80.
Lo avevo incrociato in più di un’occasione, durante convegni e iniziative politico-cullturali. In luoghi istituzionali e convenzionalmente borghesi o in spazi in cui l’antagonismo giovanile e il pensiero divergente sperimentavano nuove pratiche associative e comunitarie, in quegli anni ’90 che provavano a reagire alla straripante affermazione della dottrina neoliberista seguita alla caduta dell’Urss.
Nuovi linguaggi metropolitani per trasformare i territori della periferia urbana in aree di guerriglia e resistenza creativa. Resistenza alla marginalizzazione, al degrado, alla gentrificazione, all’omologazione passivizzante.
Il Centro Sociale Damm – o Zone Multiple Autogestite, come preferiscono definirlo i suoi attivisti – che sorge inerpicandosi sulla salita di Tarsia, era uno di quegli spazi dove lo si poteva incontrare durante i suoi soggiorni partenopei.
D’altra parte, la struttura dedicata a Diego Armando Maradona si trova in quel quartiere Montesanto dove Fofi aveva creato nel lontano 1973 la mitica “Mensa dei bambini proletari”, con la collaborazione di militanti di Lotta Continua e Servire il Popolo.
Un progetto politico, sociale, pedagogico e culturale; un esperimento di nutrizione fisica e intellettuale (parola che non amava) che Fofi contribuì a realizzare assicurando almeno un pasto al giorno spesso non solo ai bambini ma anche ai genitori, e offrendo innanzitutto la possibilità di fare doposcuola, laboratori di teatro, pittura, fotografia, scrittura, giornalismo e musica.
Per me, giovane critico con l’idea ossessiva che quella professione dovesse necessariamente coniugarsi con la militanza, ogni volta che lo incontravo era come trovarsi davanti al maestro assoluto lacaniano.
Un maestro capace di tirare fuori “il rimosso” attraverso il linguaggio che si fa sintomo e scrittura, e la cui arte maieutica si fondava sul dosaggio perfetto di vari elementi: dialogo, seduzione intellettuale, durezza, empatia ma soprattutto stimolo a pensare fuori dagli schemi e dalle logiche convenzionali.
Un pensiero eccentrico, un pensiero ai margini, un pensiero da marciapiede eppure altissimo, elitario, avanguardistico. Come solo i clochard sanno essere, perché posizionati sulle barricate della vita.
Un pensiero in chiave rigorosamente politica. Perché Fofi era ideologico, e sapeva esserlo fino al fanatismo. Sino alle estreme conseguenze. Sia nell’analisi della società sia nell’affondare il bisturi della critica. Due aspetti, d’altra parte, che nella sua visione del mondo non potevano e non dovevano essere disgiunti.
Una lezione che chi scrive ha imparato molto bene. Al punto da beccarsi spesso accuse di “massimalismo ideologico” nella stesura delle proprie analisi critiche.
Ma o si è così, come ci ha insegnato Goffredo, ideologici e identitari nel rispetto categorico delle proprie radici teoriche (le mie sono irriducibilmente marxiste) o la critica culturale e d’arte non ha ragion d’essere. Oggi più che mai. Perché di un libro, di uno spettacolo, di un film ciò che conta è principalmente il contenuto in relazione al contesto storico, politico, sociale.
Certo, è importante anche la forma espressiva, il linguaggio, la dimensione estetica. Ma se questi elementi finiscono per prevalere sul senso del discorso allora l’arte smarrisce la sua funzione principale. Che è quella di farsi analisi e specchio, anche deformante, del mondo in cui viviamo.
Insomma, il critico dev’essere al contempo un entomologo socio-culturale, come lo pensava Fofi, e un poeta, nella suggestione proposta da Carmelo Bene. Il resto è masturbazione intellettualistica dell’ego. E Goffredo, l’ Ego, non lo tollerava…
Era insomma il 1998, se la memoria non m’inganna, e un pomeriggio mi chiamò a casa Davide Iodice. Regista teatrale, pedagogo, poeta della scena sperimentale e narratore delle anime perse tra le pieghe oscure delle metropoli capitalistiche e della Napoli post industriale, Davide – al quale mi legano da trent’anni un’amicizia e una stima profonda che mi piace immaginare ricambiate – conosceva bene Goffredo, che reputa da sempre uno dei suoi padri artistici.
Lo conosceva, e avendo in considerazione (bontà sua) il mio lavoro me lo voleva presentare all’indomani della nascita de Lo Straniero, avvenuta circa un anno prima e poi andata avanti con le pubblicazioni fino al 2016.
Prendemmo appuntamento per la sera in una casa al centro storico, su Via Toledo mi pare, e lì incontrai e conobbi Fofi. Ero ovviamente emozionato e gli presentai un paio di articoli che avevo scritto nell’ultimo periodo.
Davide gli disse che riteneva che potesse interessargli il mio modo di scrivere e di affrontare gli argomenti e lui diede una rapida lettura. Quando ebbe finito non mi disse nulla. Continuò a conversare con alcuni dei presenti e dopo un po’ mi chiese di accompagnarlo giù perché stava per andarsene.
Scendemmo e ci incamminammo per Toledo. Io ero fatto di eroina, come mia abitudine allora. Ma non credo che Goffredo se ne fosse accorto. Cominciò a parlare.
Senza mezzi termini mi disse che ero troppo ordinario, che scrivevo bene ma non affondavo il colpo. Rimanevo in superficie nell’analisi e quindi dovevo imparare a essere più incisivo. Soprattutto più politico. Ad ampliare la griglia interpretativa e a diversificare le chiavi di lettura. Per sommi capi, questo è quanto mi ricordo.
Ci rimasi ovviamente male, ma era la sentenza di un giudice severo e gigantesco che dovevo accettare. Mi disse però di scrivere alcuni articoli e mandarli in redazione, di modo che avremmo poi valutato insieme come correggerli e se pubblicarli. Lo salutai, lo ringraziai con una certa ritrosia e me ne tornai a casa piuttosto deluso.
Quegli articoli non li scrissi mai. Per timore, per negligenza, per risentimento, per arroganza o a causa dell’eroina. Non lo so. Continuai a lavorare come critico per i giornali per cui scrivevo, ovviamente. Ma feci tesoro di quella lezione urticante e implacabile, come nello stile di Fofi.
Credo però di aver imparato più quella sera che in tanti anni di esperienza e di studio. E se oggi riesco ancora a scrivere qualcosa di decente lo devo a Goffredo e alla sua crudele sincerità. Crudele nel senso in cui intendeva Artaud!
Era dunque il 1998, se la memoria non m’inganna. Erano altri anni. Un altro giornalismo. Persino Repubblica, il Corriere, La Stampa ancora erano quotidiani leggibili, nonostante la loro inequivocabile impronta ideologica: riformista, liberal, conservatrice, confindustriale.
Almeno i pezzi non erano zeppi di becera ed esclusiva propaganda guerrafondaia e i giornalisti non ancora ridotti a volgari megafoni del potere nordamericano e del suo vassallo sionista.
Padronali e ossequiosi verso la struttura e il pensiero borghese, certo, ma almeno conservavano un minimo di decenza, di dialettica e di rispetto della verità.
La cosiddetta “terza pagina” era godibile e fertile di spunti di riflessione. Teatro, cinema, letteratura, filosofia, arte erano temi trattati con competenza da critici, scrittori, saggisti e intellettuali capaci ancora di analisi profonde e raffinate.
Potevi non condividerne l’impostazione, come spesso mi capitava, ma erano pezzi di bravura stilistica, di pregiata tessitura linguistica e soprattutto dotati di coerenza logica e di vivacità culturale.
Insomma la battaglia delle idee era ancora un terreno di scontro aperto tra diverse declinazioni teoriche e politiche. La coltre dell’omologazione neoliberista non aveva fino ad allora avvelenato del tutto i pozzi del pensiero critico, malgrado Berlusconi avesse già cominciato la sua opera di disintegrazione culturale e di narcotizzazione popolare.
Soprattutto la cultura manteneva vivo quel tratto pulsante di identità politica che non ne faceva un coefficiente astratto nel perimetro della dimensione sociale e individuale ma un elemento imprescindibile della coscienza di classe: borghesia, proletariato o lumpen che dir si voglia.
Carattere distintivo di appartenenza di ceto o fattore tipizzante delle diversità etniche e di popolo. D’altra parte lo stesso Fofi considerava un errore parlare di cultura in senso astratto.
Dunque, in quel contesto che annaspava nel mezzo di un cambiamento di rotta epocale dopo la fine dell’Urss, con il trionfo urbi et orbi del capitalismo, la fine della Storia e l’incipiente globalizzazione, la cultura e i suoi riferimenti ideologici non avevano subito ancora la definitiva reificazione merceologica.
Il Mercato, benché facesse proseliti sempre più numerosi e fanatici, non era riuscito a imporre ancora quale unico dio il profitto purchessia. E gli eretici, seppur già a fatica, riuscivano ancora a proporre scismi di creatività, intelligenza ed estro capaci di suscitare fiammate di pensiero controegemonico.
Il postmodernismo, l’immagine e il linguaggio fini a sé stessi, la formalizzazione compulsiva e quasi ontologica, la spettacolarizzazione tecnologica e la turistificazione gastronomica dell’arte non avevano imposto del tutto il proprio credo.
L’omologazione piccolo-borghese profetizzata da Pasolini non era ancora giunta a compimento.
La sciatteria, la superficialità, la distrazione, la sudditanza alle case di produzione e al profitto, non avevano ancora trasformato la critica in vergognoso spot pubblicitario.
La critica culturale continuava anzi ad avere un senso. A creare confronto e dibattito attorno ad un’opera intellettuale. Il dialogo tra artista, recensore, studioso, analista delle cose d’arte, rimaneva fecondo. Era ancora il tempo dei maestri come Goffredo Fofi.
Ma sarebbe durato poco. Il mercato, il profitto, la creatività ridotta a merce avrebbero di lì a qualche anno desertificato il pensiero critico nell’Occidente a capitalismo avanzato. Il cui Modo di Produzione avrebbe trasformato l’immaginario in un universo da colonizzare, l’immaginazione in industria per l’intrattenimento, la fantasia in omologazione egemonica a trazione neoliberista.
Pochi avrebbero continuato a resistere. E tra essi non poteva che esserci Goffredo Fofi.
Lui, voce dissonante che si alzava dalle piazze in agitazione degli anni ’60 e ’70, non si rassegnava a cedere la sua intelligenza al dominio dell’approssimazione, della vacuità, del denaro quale unico coefficiente di valore culturale e civile.
Lui, nato a Gubbio da famiglia povera e contadina, cattolico sociale, marxista eretico e convinto sostenitore della lotta di classe, ha combattuto fino all’ultimo per una cultura popolare, controegemonica, antagonista e divergente. E per una società solidale, equa, comunitaria se non comunista.
Sempre contro il conformismo fascistoide, contro la facile acclamazione e il consenso, preferiva lavori e opere poco acclamati dal mainstream e che mettessero al centro del discorso un’autentica attenzione per temi di confine, disagio esistenziale, emarginazione.
Lui che aveva lavorato in Sicilia con Danilo Dolci, che era stato presente fuori i cancelli della Fiat a Torino durante le prime lotte operaie, lui che avrebbe partecipato al movimento del ’68 e al conflitto sociale in corso in Italia nel decennio settanta, aveva scritto un libro (il primo suo) che rappresenta una delle originarie inchieste operaie degli anni ’60: “L’immigrazione meridionale a Torino”.
Un’ analisi rivolta ai lavoratori meridionali che approdarono alla Fiat, con l’intenzione di studiare «l’ampliarsi della partecipazione sindacale, politica e sociale come un prodotto delle trasformazioni nella composizione della classe operaia».
Tante altre poi sono state nel corso degli anni le sue pubblicazioni. Libri sul cinema, sul teatro, sulla società italiana. Ma tra essi vale la pena di ricordare “Totò. L’uomo e la maschera”, “Il cinema del no. Visioni anarchiche della vita e della società”, “Il Paese della sceneggiata”.
Quest’ultimo un testo fondamentale con cui rivaluta quel genere teatrale napoletano, la sceneggiata appunto, che costituiva «la forma di spettacolo prediletta dal proletariato napoletano e campano, dal cosiddetto sottoproletariato urbano – in realtà proletariato marginale – e dal mondo contadino che, quando era costretto a entrare in città, trovava il suo svago al teatro Duemila o al Trianon, vicini alla stazione ferroviaria e a piazza Garibaldi».
Dotato di grande temperamento e di un esuberante fervore intellettuale cui faceva eco un impegno politico non meno coinvolgente, Fofi è stato, come abbiamo detto, un critico radicale e ideologico fino alle estreme conseguenze.
Capace di fulminei innamoramenti ma anche di colossali stroncature. Iracondo a volte finanche violento, ha litigato con mezzo mondo. Ma era anche capace di grandissima tenerezza e generosità, come racconta chi lo ha conosciuto bene.
Memorabili sono, ad esempio, le sue impietose stroncature di due film che hanno fatto la storia del cinema italiano: La classe operaia va in paradiso di Elio Petri e Portiere di notte di Liliana Cavani.
Il primo accusato addirittura di revisionismo. Il secondo distrutto con parole che vale la pena ricordare: «una brutta sciocchezza, non meriterebbe dunque che uno sguardo distratto, e neanche tanta indignazione, se non valesse la pena di soffermarcisi perché finisce per essere un esempio, nel suo quasi generale successo, di una voga la cui indicatività “pregolpista” non finisce di sorprenderci, venendo, ovviamente, da gente che si dice di sinistra».
E qui si capisce tutta l’avversione di Fofi per il consenso generalizzato e conformista nei confronti di lavori che forse avrebbero meritato più riflessione e meno pulsione distruttiva, quasi per partito preso.
Non meno severo e incazzato era il Fofi che analizzava la società italiana e occidentale. Durissimi e cindivisibili sono i suoi giudizi su un potere politico sempre più avido e inadatto, su una borghesia reazionaria, moralista e profondamente ignorante e su un sistema capitalistico predatorio e feroce. Ma anche su una sinistra che ha progressivamente smarrito il suo ruolo politico di coesione tra le classi subalterne.
Uomo principalmente di movimento, Fofi ha sempre mantenuto un atteggiamento critico nei confronti del Pci e del sedicente “marxismo-leninismo”, predilegendo uno sguardo dal basso e coniugando marxismo eterodosso e cattolicesimo da strada e mutualistico, dichiarandosi vicino alla nuova sinistra americana. Pacifista convinto, ha condannato l’uso della violenza come strumento politico di valorizzazione della lotta delle classi popolari.
Anche per questo disapprovò categoricamente l’esperienza della lotta armata in Italia. Facendosi poi irretire – e questo chi scrive non glielo ha mai perdonato – dalle tesi complottiste che ancora oggi continuano a sostenere fantomatiche e sempre nuove “trame”.
Ma al netto di ciò, Goffredo Fofi resta una delle figure intellettuali più significative a cavallo tra il ‘900 e questi primi anni 2000.
Un punto di riferimento per chi abbia il coraggio di guardare all’esperienza creativa, intellettuale e culturale come un momento di costruzione del pensiero critico e anti egemonico. Un’arma da rivolgere per questo contro le classi dominanti.
Una sua famosissima frase, che ripeteva spesso, era «dovete resistere, studiare, fare rete e rompere i coglioni». Come ha fatto lui fino alla fine.
Ciao Goffredo. Ciao meraviglioso, geniale maestro. E stai pur certo che i coglioni noi continueremo a romperli.
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