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Trattati europei e democrazia costituzionale
di Vladimiro Giacché
1. L’idea di società della Costituzione italiana e la priorità del lavoro
Il migliore punto di partenza per affrontare il tema del rapporto tra trattati europei e democrazia costituzionale è partire dall’idea di società che informa la Costituzione italiana.
In termini generali, la Costituzione italiana esprime una delle varianti di quel modello di capitalismo regolato che si afferma nell’immediato dopoguerra in molti paesi e che Hyman Minsky descrisse come il punto di approdo di un processo storico. Il processo per cui – così Minsky - “un sistema che possiamo caratterizzare come un capitalismo nel quale lo Stato ha un ruolo marginale, vincolato dal sistema aureo e non governato [small government gold standard constrained laissez-faire capitalism] fu sostituito da un capitalismo nel quale lo Stato ha un ruolo rilevante, flessibile grazie al contributo della banca centrale e governato attivamente [big government flexible central bank interventionist capitalism]”1.
La necessità di regolare l’attività economica era condivisa dalle tre principali componenti politico-culturali che concorsero alla stesura della nostra Costituzione. Così, per la Democrazia Cristiana, Amintore Fanfani nei lavori preparatori della Costituzione evidenziò “il problema… di controllare, dal punto di vista sociale, lo sviluppo dell’attività economica, senza accedere totalmente a un’economia collettiva o collettivizzata, e senza d’altra parte lasciare totalmente libere le forze individualistiche, ma cercando di sfruttarle, disciplinandole e regolandole al fine di raggiungere determinati obiettivi sociali”2.
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L’amaro greco
Sergio Cesaratto
Questo giovedì scade la tranche di 460 milioni di euro che la Grecia deve al Fondo Monetario Internazionale. Dopo aver affermato che tale pagamento era alternativo alla erogazione di salari pubblici e pensioni, il governo greco ha successivamente confermato il rispetto della scadenza e, del resto, mai nessun paese ha mancato un pagamento al Fondo. Altri pagamenti incombono inesorabili da maggio in poi, mentre l’Europa non concede l’ultima tranche di 7,2 miliardi dei prestiti concessi nel 2012, non fidandosi della lista di riforme proposta da Tsipras. E comprensibilmente in questa situazione, il governo greco non riesce sempre a offrire un messaggio coerente.
Fra qualche anno gli storici economici registreranno freddamente la crisi greca come l’ennesimo caso di un paese in ritardo economico vittima dell’indebitamento estero, facilitato da quella forma estrema di gold standard che è un’unione monetaria. Come ben messo in luce da un recente paper di due prestigiosi storici economici, Bordo e James, corollari di queste vicende sono il foraggiamento alla corruzione che proviene dalla fase di afflusso dei capitali stranieri, e l’emergere dopo la crisi debitoria di una opposizione “populista” che rivendica la sovranità nazionale a fronte delle misure vessatorie dei creditori.
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Il fallimento europeo
Sei lezioni dallo scontro tra Atene e Bruxelles
di Enrico Grazzini
Le trattative tra il governo greco guidato da Alexis Tsipras e l'Eurogruppo, che riunisce i 19 paesi dell'euro con alla testa il governo di Berlino, sono ancora in corso, e l'esito è aperto: tuttavia si possono già trarre alcune lezioni.
La prima lezione è che la Germania è determinata come sempre, e più di sempre, a imporre la sua rigida austerità, e non deflette di un centimetro dalla sua politica. Rivuole tutti i suoi crediti, irresponsabilmente concessi ai paesi in crisi, anche a costo di ammazzare il debitore. Per la Germania la questione greca è però soprattutto politica: se concedesse credito alla Grecia di Tsipras dovrebbe smettere di imporre a tutti i paesi europei la sua folle politica d'austerità: riduzione accelerata del debito pubblico, taglio al welfare e al costo del lavoro, privatizzazioni. L'Europa degli ideali e della cooperazione, della pace tra i popoli è ormai sepolta: esiste solo una Unione Europea che si schiera con le banche creditrici del nord contro i popoli e le nazioni debitrici del sud. L'Europa è ormai solo una questione di crediti e di debiti. Una questione di soldi. Anche la pietà è morta.
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La "svalutazione interna" necessaria per restare nell'euro
di Jacques Sapir
Prendendo in considerazione gli scarti di inflazione e di produttività dei paesi periferici rispetto alla Germania, il prof. Sapir misura quanta “svalutazione interna” risulterebbe necessaria per riequilibrare la competitività tra i paesi dell’eurozona. Il risultato è particolarmente pesante per l’Italia, oltre che per la Grecia e la Spagna, e ci dà la misura di quanto sia antisociale questa unione monetaria
Sappiamo che in un sistema di moneta unica (un’unione monetaria) come l’eurozona, i paesi membri non possono svalutare l’uno nei confronti dell’altro. Una svalutazione (o una rivalutazione) della moneta puo’ verificarsi solo tra l’insieme dell’eurozona e il “resto del mondo”.
In questa unione monetaria uno dei problemi principali è l’evoluzione della competitività dei paesi membri. I paesi, ormai, non possono più correggere le differenze di competitività con la svalutazione della moneta. Questa competitività puo’ essere calcolata rispetto all’economia dominante dell’unione monetaria, nel caso dell’euro, la Germania. Se vogliamo misurare l’effetto dell’ unione monetaria sull’economia dei paesi considerati, dobbiamo guardare come questa competitività ha potuto evolvere a partire dalla data dell’entrata in vigore dell’unione monetaria.
La questione della competitività
Nel caso dell’eurozona, il problema della relativa competitività dei paesi è oggi un problema di primaria importanza. La competitività relativa evolve, dalla data dell’entrata in vigore dell’UEM (1999), in funzione :
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Un sasso nello stagno
di Raffaele Sciortino
Marco Bertorello, "Non c'è euro che tenga" (Ed. Allegre, 2014). Nota critica su un prezioso libretto sull'euro
Titolo e sottotitolo del libro di Marco Bertorello formano quasi un contrappunto: Non c'è euro che tenga. Per non piegarsi alla moneta unica non serve uscirne. Non si tratta di ambiguità ma del tentativo dichiarato di non farsi imporre, analiticamente e politicamente, il terreno dall'opposta ma speculare alternativa euro sì/euro no. Non che Bertorello non sappia, come molti di noi, che il terreno più avanzato per la ripresa del conflitto in "basso a sinistra" è in Europa quello che con estrema difficoltà, e in sostanziale isolamento, stanno in questi giorni tentando popolazione e governo greci.
Ma il punto è a quali condizioni e con quale prospettiva calcare il terreno europeo. Investigare più a fondo queste condizioni è il merito di questo prezioso libretto che prova a lanciare un sasso nello stagno dello stantio, e diciamocelo: piuttosto miserevole, stato del dibattito a sinistra sul tema.
Partiamo dall'analisi. Tre le tesi principali che si possono ricavare.
La prima ci dice che Euro makes sense, il varo della moneta unica europea non è frutto di un errore (p.es. di architettura istituzionale) o dell'irrazionalità delle classi dirigenti europee.
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Anticapitalismo e antifascismo in Europa
Due critiche alla strategia di Syriza
di Giulio Palermo
Syriza è in gravi difficoltà. Non per lo scontro con le istituzioni europee ma per le rivendicazioni del popolo greco. Ormai sono i fatti a dimostrarlo: il suo programma politico è internamente contraddittorio. Allentare la crisi sociale e umanitaria non è possibile all’interno delle regole dell’unione economica e monetaria. Questo è il dato. Le promesse di Syriza non possono essere mantenute.
Tsipras ora deve scegliere: tradire il capitale, che vorrebbe che il governo greco faccia il dovuto in casa per rispettare gli impegni in Europa; o tradire il popolo greco, che ha votato per una forza che gli prometteva di allentare la stretta del capitale in crisi sulla gente che lavora e che perde il posto. Si tratta di una scelta che non può essere rimandata. Restare nell’ambiguità serve solo a indebolire la classe lavoratrice greca e, con essa, quella di tutt’Europa.
In questo articolo, mi soffermo su due conseguenze di questa strategia ambigua.
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Contro il Parlamento Europeo
di Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli
Su Open Democracy un tema che rischia di diventare di forte attualità prossimamente: man mano che l’euroscetticismo avanza, una risposta apparente è quella di colmare quello che viene definito il “deficit democratico” della UE, rafforzando la legittimazione democratica percepita delle sue istituzioni. In realtà nessuna di queste proposte apparentemente illuminate affronta il tema principale, che è quello della “cattura oligarchica” delle istituzioni UE, anche di quelle elettorali rappresentative. Il tema è approfondito dai due autori in questo studio
Alle elezioni del Parlamento europeo del maggio 2014, i partiti euroscettici hanno guadagnato terreno a spese dei partiti pro-europei. Questo vale sia per i partiti euroscettici di destra che per quelli di sinistra. In generale, la reazione delle elite pro-UE è stata sufficiente e paternalistica. Alcuni tra gli appartenenti all’elite pro-UE hanno suggerito che il voto euroscettico è stato un voto di protesta non contro le istituzioni dell’Unione europea, ma contro i governi nazionali, che hanno fallito nella gestione della crisi economica, finanziaria e del debito sovrano. Alcuni hanno suggerito che l’ondata euroscettica è arrivata principalmente da persone appartenenti ai segmenti più poveri della popolazione: quelli più colpiti dalla crisi, ma anche quelli che, a causa del nesso esistente tra povertà e bassi livelli di istruzione, sono meno capaci di capire le cause della crisi e quale potrebbe essere la possibile soluzione. I contributi dei trattati, dei patti, delle politiche, dei vincoli e obiettivi della UE agli alti tassi di disoccupazione e agli ampi tagli alla spesa pubblica in molti Stati membri, sono stati misconosciuti e minimizzati.
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Il teorema di Maastricht e la sua confutazione
di Davide Tarizzo
L’attuale strozzatura della vita democratica in Europa si può ricapitolare in un solo e unico teorema, che non si può ridurre al teorema dell’euro, già ampiamente smentito dai fatti, ma va identificato con il teorema di Maastricht, più inclusivo e insidioso del primo. In base a questo teorema, l’integrazione economica tra i vari paesi europei può essere disgiunta, come di fatto accade tuttora, dalla loro integrazione politica. Ciò implica una lunga serie di conseguenze che non erano difficili da prevedere: una delle più rilevanti è che paesi con discrepanti legislazioni sul lavoro saranno lasciati competere in un mercato unico, affidando al capitale la valutazione sulla legislazione più conveniente per il capitale stesso. I capitali tenderanno, di conseguenza, a concentrarsi là dove i salari sono meno tutelati, per incrementare i profitti, mentre i paesi in cui i salari sono più protetti tenderanno ad adeguarsi e ad abbassare le tutele sul lavoro, per recuperare competitività, in una spirale al ribasso senza fine. Questo processo è automatico e oggettivamente inevitabile se l’integrazione economica non è preceduta da, o associata a, una qualche forma di integrazione politica. È inevitabile perché le legislazioni nazionali sono così lasciate in balia del capitale, che tende automaticamente, necessariamente, oggettivamente a fare i propri interessi. È questo che chiamo il teorema di Maastricht.
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La conferenza ad Atene
di Jacques Sapir
Jacques Sapir racconta della conferenza organizzata ad Atene, che finalmente contempla in maniera esplicita la possibilità per la Grecia di uscire dall’euro. Questa conclusione pare obbligata in ogni caso, ma occorre che la politica si muova per evitare che essa avvenga in maniera conflittuale e disordinata. La conclusione del grande economista francese è che, per evitare catastrofi, l’Europa deve abbandonare la moneta unica al più presto
La conferenza organizzata dal settimanale The Economist sul rapporto tra la Grecia e i suoi creditori ha consentito una discussione molto franca sulla possibilità di un’uscita della Grecia dell’euro. Questa idea, pur se ancora provoca una sensazione di paura e di incertezza in una parte del pubblico, comincia ora ad essere molto più accettata. Un’ipotesi che è stata quindi discussa nell’ambito di questa conferenza è stata quella di un’ ‘uscita di velluto’ (velvet exit). Si noti il riferimento al processo di separazione tra la Repubblica Ceca e la Slovacchia, che a suo tempo fu chiamato “rivoluzione di velluto”. Il fatto che questa ipotesi possa essere discussa e valutata dai molti partecipanti a questa conferenza, sia greci sia stranieri, è un segno inconfondibile del progresso dell’idea di un’uscita dall’euro. Essa corrisponde a ciò che l’ex Presidente Francese, Valéry Giscard d’Estaing ha definito, alcune settimane fa, un “GREXIT amichevole”.
Questa conferenza ha riunito, sotto la guida della signora Joan Hoey, che dirige l’edizione locale dell’Economist, e che è anche una conosciuta analista della situazione locale, insieme al vice ministro degli affari esteri, signor Euclid Tsakalatos e a Nikos Vettas, direttore della Fondazione per la ricerca economica e industriale e professore di economia presso l’Università di Atene, vari accademici:
- Andreas Nölke, professore di economia e relazioni internazionali, dell’università Goethe di Francoforte.
- Henk Overbeek, professore di relazioni internazionali all’Università di Amsterdam.
- Giovanni Dosi, professore di economia e direttore degli studi economici presso l’Università di Pisa.
Oltre al sottoscritto.
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Un'Alba Mediterranea contro troika ed euro
Il M5S rompe gli indugi
Luca Fiore - Alessandro Avvisato
Una platea composita e affollata ha seguito oggi con estrema attenzione l’iniziativa organizzata dal Movimento 5 Stelle presso l’Auditorium Sandro Pertini della Camera dei Deputati. L'incontro ha visto la partecipazione di alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle come Di Stefano e Di Battista, del giornalista Gianni Minà, di alcuni intellettuali militanti – come Luciano Vasapollo e Joaquin Arriola - e di numerose rappresentanze delle ambasciate paesi dell’Alba.
Una iniziativa che a partire dal processo di rottura avvenuto in America Latina nei decenni scorsi rispetto all’asfissiante dominazione economica statunitense e alla dollarizzazione delle economie, propone un processo di rottura all’interno dell’Unione Europea che liberi i Pigs – i paesi “maiali” oggetto di quasi un decennio di politiche di austerity – dall’ormai intollerabile gabbia rappresentata da una moneta – l’Euro – e da alcune istituzioni – la Bce, la Troika – che i partecipanti all’iniziativa hanno esplicitamente contestato.
Introducendo i lavori, il parlamentare del M5S Manlio Di Stefano ha sottolineato "L'insostenibilità del sistema-euro per i paesi europei con condizioni diverse tra loro e gli effetti della globalizzazione". A questo punto si può fare altro? A questa domanda Di Stefano ha risposto citando l'esempio dei paesi dell'Alba Latino americana. "Quindi i cittadini italiani possono discutere anche di altre ipotesi possibili". Importante il passaggio nel quale ha affermato che il M5S vuole tradurre tutto questo in atti legislativi.
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Tre Riflessioni Sull'Orlo Dell'Abisso
Written by Franco Berardi Bifo
L’errore del 2005
Si avvicinano le elezioni dipartimentali in Francia, e i sondaggi dicono che il Front National sarà il grande vincitore. Il premier Manuel Valls ha rimproverato i cittadini francesi per la loro passività, e ha detto che gli intellettuali non fanno il loro dovere antifascista. Davvero Manuel Valls ha la faccia come il culo, che fuor di metafora vuol dire che proprio non tiene vergogna. I socialisti francesi come i democratici italiani hanno tradito le loro già pallide promesse di opporsi all’oltranzismo austeritario, hanno gestito in prima persona la mattanza sociale, e ora fanno le vittime, si lamentano perché il popolo non li segue e gli intellettuali non si impegnano.
Lasciamo perdere gli intellettuali francesi che non esistono più da almeno venti anni, a meno di considerare Bernard Henri Levy un intellettuale mentre a me pare che si tratti di un imbecille molto pericoloso, come dimostrano le sue campagne a favore dell’intervento in Siria e in Libia.
Non so come andranno a finire le elezioni francesi. Quel che so è che il Front National è la sola forza politica capace di interpretare i sentimenti prevalenti nel popolo francese: odio nazionalista riemergente contro l’arroganza tedesca, e ribellione sociale contro la violenza finanziaria. Un mix inquietante ma potente, che cancella la distinzione tra destra e sinistra.
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Dopo l'euro
di Jacques Sapir
Jacques Sapir discute lo stato attuale del dibattito sull’euro (citando anche Fassina) e considera imminente il punto di rottura. L’intransigenza tedesca combinata alla passività delle altre classi dirigenti europee rende probabile, purtroppo, uno smantellamento “conflittuale”, con la Germania che cercherà di negare la propria responsabilità nella distruzione dell’equilibrio europeo per la terza volta in un secolo. Sapir parla poi del “day after”: dei passi necessari da intraprendere subito dopo la rottura, del quadro giuridico e del sistema monetario che verrà, discutendo l’eventualità di un euro mantenuto come moneta comune —ma non unica— negli scambi internazionali: un’ipotesi comunque difficile da implementare, e utile più che altro come salvagente ideologico per chi non vorrà ammettere il fallimento totale dell’euro.
Le più recenti dichiarazioni e gli articoli scritti negli ultimi giorni da diversi economisti e politici europei dimostrano che siamo entrati in una fase acuta della crisi dell’euro. In Grecia, la questione di un possibile ritorno alla dracma viene discussa apertamente. In Italia c’è Stefano Fassina, un economista del Partito Democratico (il partito di centro-sinistra da cui viene anche Renzi), ed ex Viceministro dell’Economia e delle Finanze, che per quanto riguarda la questione euro ha deciso di attraversare il Rubicone (1.1; 1.2). La “conversione” di Fassina a posizioni critiche sull’euro dimostra bene come il dibattito si stia espandendo in Italia. Più recentemente abbiamo visto Wolfgang Streeck, sociologo ed economista, pubblicare su Le Monde un lungo articolo per spiegare che l’Europa deve abbandonare la moneta unica (2) [Trovate l’articolo di Streeck da noi recentemente tradotto su questo link, NdT]. Queste diverse posizioni, senza dimenticare quelle di Podemos in Spagna, sono un buon indicatore del fatto che siamo effettivamente ad un punto di rottura. Streeck dice senza mezzi termini che il mantenimento dell’euro sta uccidendo l’Europa e sta provocando un aumento di antagonismo anti-tedesco.
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La stretta monetaria
Manfredi De Leo*
Altro che effetti espansivi sulla crescita. Come sostenuto più volte su Economia e Politica, in assenza di una ripresa degli investimenti pubblici il quantitative easing della BCE non servirà a rimettere in moto l’economia. Sarà piuttosto uno strumento con il quale le autorità monetarie potranno imporre nuovi tagli e riforme strutturali.
La Banca Centrale Europea ha dato avvio al massiccio programma di acquisti di titoli sui mercati finanziari detto Quantitative Easing (QE). Si tratta di una misura di portata storica, per le dimensioni del programma – circa mille miliardi di euro – ma anche e soprattutto per il fatto che esso coinvolge i titoli del debito pubblico europei: la banca centrale ne acquisterà quote consistenti, in controtendenza con un’impostazione della politica monetaria incentrata sull’indipendenza dell’autorità monetaria da quella fiscale. Una mossa che ha diviso gli analisti. Da un lato chi, con Scalfari, descrive il governatore della BCE come il “motore della crescita europea”, un eroe moderno che “mette l’economia al servizio del bene comune” – spesso rappresentato in contrapposizione al governatore della Bundesbank, arcigno sostenitore del rigore. In effetti, lo stesso termine “quantitative easing” allude ad una misura che accompagna una politica fiscale espansiva, allentando quei vincoli di natura monetaria che, in assenza di un aumento della liquidità, ne ostacolerebbero l’operato. Entro questa lettura, l’eurozona appare animata da un conflitto tra due opposti indirizzi di politica economica: crescita vs rigore, ovvero Draghi vs Weidmann, con il primo che incarnerebbe lo spazio politico per condurre l’Europa fuori dal paradigma dell’austerità.
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La politica monetaria di Draghi è efficace, anzi no
Gerardo Marletto, Domenico Moro
Con un suo recente intervento su economiaepolitica.it, Domenico Moro sottolineava l’inefficacia del quantitative easing alla Draghi ai fini della crescita economica. Queste tesi, che più volte abbiamo proposto ai nostri lettori, sono state oggetto di critiche da parte di Gerardo Marletto. Qui pubblichiamo un botta e risposta tra Marletto e Moro sulla inefficacia delle politiche monetarie espansive in presenza di austerità.
La critica di Gerardo Marletto
L’articolo di Domenico Moro (“Un quantitative easing per i mercati azionari e non per l’occupazione”) si inserisce in una linea di pensiero che da qualche tempo caratterizza non solo la rivista economiaepolitica.it ma buona parte del pensiero economico della sinistra nostrana. Una linea di pensiero allo stesso tempo presuntuosa e sbagliata.
A mio modo di vedere tutto comincia con l’arrivo di Draghi alla BCE.
Fino a quel momento non si poteva che essere d’accordo nella critica all’ossessione per l’inflazione della BCE. E giustamente si attaccava la reiterazione di questo modello restrittivo di politica economica contro i cosiddetti PIGS.
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Democrazia, partiti di massa e liberoscambismo
Saper dire la verità (l'ultima chance)
Quarantotto
1. Mi rendo conto di quanto sia importante coordinare, in un'unica esposizione riassuntiva, il discorso che abbiamo cercato di svolgere negli ultimi mesi.
La questione riguarda il tema dei temi: e cioè come la democrazia "sostanziale" (imperniata sulla tutela dei diritti fondamentali sociali da parte delle istituzioni politiche, a ciò vincolate dalle Costituzioni democratiche), non possa effettivamente sopravvivere all'inserimento della società in un paradigma liberoscambista.
Più esattamente, si tratta di come la democrazia, all'interno di tale paradigma liberista, non possa sopravvivere se non in termini "idraulici", che significa "tolleranza" verso l'espressione del voto, ma a condizione che conduca alla ratifica di indirizzi di politica economica e sociale rigidamente precostituiti, cioè convenienti alla oligarchia che controlla de facto ogni processo decisionale.
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