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Senza moneta nazionale non c’è democrazia
di Enrico Grazzini
In Europa, e soprattutto in Italia, si stenta ancora a comprendere il valore decisivo della moneta per l'economia, la politica e la democrazia. Purtroppo l'errore è condiviso anche da gran parte della sinistra. Tutti capiscono (almeno apparentemente) che non c'è democrazia politica senza stato democratico, cioè senza istituzioni statali che garantiscano la democrazia e che rispondano alla sovranità popolare. Ma ancora pochi comprendono che non esiste uno stato senza una moneta nazionale. Svolgiamo il sillogismo: non esiste una democrazia senza stato; e non esiste uno stato senza moneta. Quindi non esiste la democrazia se non c'è una moneta nazionale.
Purtroppo paradossalmente solo i partiti populisti e quelli sciovinisti e anti-democratici sembrano avere ben compreso questa verità semplice e inoppugnabile.
La moneta rappresenta la comunità nazionale. Dal punto di vista economico, la moneta è il simbolo più concreto dell'unità e della forza, e anche del benessere di una nazione. Non a caso la prima cosa che una nazione si dà appena nasce è una moneta nazionale.
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"Italia: il primo passo è recuperare la nostra sovranità psicologica"
Cesare Sacchetti intervista Vladimiro Giacchè
"Si è distrutta l’economia mista e quel corretto bilanciamento tra pubblico e privato previsto nella nostra Costituzione"
Recentemente alla Camera è stato approvato il Jobs Act. Il Governo ha presentato il provvedimento come uno stimolo all’economia, che potrà ripartire grazie alla maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Quali saranno gli effetti del Jobs Act ?
In una situazione di crisi come quella odierna, aumentare la flessibilità in uscita e la libertà di licenziamento può avere degli effetti contrari a quello che viene predicato, ovvero un aumento della disoccupazione. Queste politiche sono coerenti con le riforme strutturaliche ci vengono domandate, poiché l’aumento dei disoccupati ingenera una maggiore pressione sulle persone che sono ancora al lavoro. Conseguentemente, è possibile ottenere una riduzione dei salari. Lo strumento della svalutazione interna, data la rigidità del cambio da un lato, e dall’altro le politiche fiscali restrittive che ci vengono imposte, è l’unico strumento che resta per creare competitività. Il Jobs Act e le iniziative sul mercato del lavoro vengono presentate come un modo per aumentare l’occupazione. Personalmente, credo che l’obbiettivo sia ben altro, ovvero una riduzione mirata dei salari. Bisognerebbe avere il coraggio di dirlo.
Il Jobs Act potrebbe essere definito un mini-job all’italiana, ispirato alle riforme Hartz tedesche del 2003. Considerate le differenze di welfare tra il sistema tedesco, che offre maggiori tutele e sostegno al reddito, e il Jobs Act italiano, privo delle garanzie necessarie, lei crede che questa possa essere l’arma finale per realizzare la deflazione salariale?
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I porci sono loro
Dall’introduzione a “Derubati di sovranità”
Gianluca Ferrara*
In questo video, Gianluca Ferrara, autore di "Derubati di sovranità", ricorda come siamo arrivati a questo punto e suggerisce possibili vie d'uscita
Quella a cui stiamo assistendo è la fase finale di un cruento regolamento di conti fra due dottrine economiche, quella di stampo keynesiano e quella neoliberista. L’Europa, in particolare l’area della moneta comune, è un terreno privilegiato per analizzare e constatare come le posizioni neoliberali stiano nettamente vincendo questa guerra economica tanto da poter parlare ormai di dominio del pensiero unico. Dagli anni ’70, terminato il cosiddetto trentennio glorioso keynesiano, è iniziata la controrivoluzione neoliberista che, poco alla volta, ha derubato i cittadini di tutte le loro Sovranità. Le Sovranità degli Stati sono state spolpate sino a rendere il loro apparato un guscio vuoto e inefficiente. Gli Stati europei sono stati depauperati a tal punto da cedere la Sovranità di battere moneta a un gruppo di banchieri privati, che usano questa funzione per speculare contro gli Stati stessi. Quando vincono le scommesse, incassano il guadagno, se invece le perdono socializzano i costi, com’è successo dopo l’esplosione della bolla dei mutui subprime, nel 2007. In altre parole, con i nostri soldi scommettono: se vincono, riscuotono, se perdono, paghiamo un’altra volta noi che, per di più, per giustificare l’esborso, siamo anche accusati di vivere al di sopra delle nostre possibilità, di essere dei porci (Piigs) che pensano solo a rimpinzarsi, rendendo il debito pubblico insostenibile.
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Thatcher's touch: ma cosa manca ancora da realizzare?
Non basta (e avanza) l'euro?
Quarantotto
Ogni tanto qualche politico italiano, e anche qualche giornalista, in vena di "rinnovamenti" e proposte "vincenti", menziona la Thachter come modello per le politiche da adottare in Italia; naturalmente, per uscire dalla crisi.
Ad altri, l'accusa di thatcherismo viene invece mossa e cerca di negare, per la verità senza offrire spiegazioni sostanziali, di alcun tipo, rispetto alle accuse.
E' allora utile vedere un po' di dati relativi alla fantastica performance della lady di ferro.
Rammentiamo che ella fu primo ministro dal 1979 al 1990.
Vediamo come andò la crescita dl PIL:
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Il "Monito degli economisti", un anno dopo*
L’euro: un destino segnato?
Emiliano Brancaccio
A poco più di un anno dalla pubblicazione sul Financial Times del “monito degli economisti”, la forbice tra paesi creditori e debitori continua ad allargarsi e potrebbe rendere insostenibile l’attuale assetto dell’Unione monetaria europea. Apriamo una discussione a partire da un testo di Brancaccio, uno dei promotori del “monito”, che solleva il problema del “che fare” di fronte alla prospettiva di una implosione della moneta unica
La forbice macroeconomica che da tempo squarcia l’eurozona non sembra affatto destinata a richiudersi. Stando agli ultimi dati della Commissione europea, gli andamenti dei redditi e dei livelli di occupazione nei diversi paesi membri dell’eurozona non mostrano tangibili segni di avvicinamento dopo la lunga divergenza che si è registrata negli anni passati. Alla fine del 2014 il numero degli occupati in Germania dovrebbe segnare un incremento di due milioni e duecentomila unità rispetto al 2007. Di contro, nello stesso arco di tempo Spagna, Italia, Grecia, Portogallo, Irlanda e Francia si ritroveranno con una perdita complessiva di quasi sei milioni e duecentomila posti di lavoro1.
La divaricazione dei redditi e dell’occupazione contribuisce poi a creare faglie più profonde, di carattere strutturale, che riguardano i livelli di solvibilità dei capitali industriali e bancari dei diversi paesi dell’area euro. L’ultimo rapporto di Credit Reform segnala che tra il 2008 e il 2013 le insolvenze annue delle imprese sono aumentate del 22 percento in Francia, del 77 percento in Irlanda, del 120 percento in Italia, del 185 percento in Portogallo e del 2542 percento in Spagna, laddove in Germania nello stesso periodo sono diminuite dell’11 percento. Si tratta di un divario eccezionale, che inevitabilmente si ripercuote sui bilanci degli istituti bancari. Non è un caso che i recenti “stress test” coordinati dalla Banca centrale europea abbiano evidenziato uno scarto superiore alle attese tra gli indici di robustezza patrimoniale delle banche dei diversi paesi dell’eurozona, in particolare tra istituti tedeschi e italiani.
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Lo strano caso del dottor Draghi e mister Weidmann
Maurizio Sgroi
Sembra proprio che valga, per il banchiere centrale, la celebre massima che l’immenso Stevenson mise il bocca al suo dottor Jekyll allorquando scoprì che “l’uomo non è veracemente uno, ma veracemente due”. D’altronde mi dico pure che non dovrei stupirmi: anche un banchiere centrale è un uomo, dopotutto e malgrado faccia del suo meglio per sembrare una calcolatrice dotata di spirito.
Peraltro mentre mi convinco di tale circostanza, mi accorgo pure di poterne avere un esempio pleclaro sotto gli occhi guardando allo strano caso, per dirla con le parole dello scrittore inglese, del dottor Draghi e mister Weidmann.
Impossibile non notarlo. I due eminenti banchieri europei sono ormai assurti allo scomodo ruolo di macchietta l’uno dell’altro, ovvero una versione affievolita, per non dire bancaria, della celebre coppia poliziotto buono/poliziotto cattivo che affolla le fiction di genere. D’altronde, mi dico pure, anche il central banking ormai è una fiction di genere.
Tanto Draghi è clemente e ridanciano, tanto Weidmann, forse perché boss della temutissima Bundesbank, è acido e sibilante. Le sue parole affilate risuonano nell’aere bancario come revolverate, ogni volta.
Come quando il 21 novembre scorso, parlando di regolazione bancaria al Frankfurt European Banking Congress, ha iniziato il suo atteso, e come sempre temuto, intervento ricordando che nel 1300 i banchieri catalani che non erano in grado di onorare le proprie obbligazioni erano costretti a nutrirsi di pane e acqua finché non avessero adempiuto ai loro doveri verso i clienti.
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Eurocrisi: il conto alla rovescia non si è fermato
Riccardo Realfonzo e Angelantonio Viscione
L’opinione della Commissione Europea, secondo cui l’euro e le politiche di austerità avrebbero favorito una crescita equilibrata in Europa, è smentita dai fatti. Al contrario, dopo la crisi del 2007 i processi di divergenza tra le economie europee sono diventati sempre più impetuosi e il costo economico e sociale della permanenza nell’euro aumenta ogni giorno di più per i Paesi periferici. Di questo passo – come previsto dal “monito degli economisti” pubblicato dal Financial Times – la fine della moneta unica porterà al fallimento del progetto di unificazione europea. E nonostante ciò, la Germania e i suoi Paesi satellite non sembrano avere alcuna intenzione di fermare il conto alla rovescia dell’euro.
L’Unione monetaria europea sta accelerando la corsa verso la deflagrazione. Con la crisi intervenuta sul finire del 2007, l’eurozona non è più cresciuta e i processi di divergenza tra le aree centrali e quelle periferiche si sono intensificati, divenendo quasi irresistibili. La tesi della Commissione Europea – secondo cui la moneta unica e l’integrazione commerciale, combinate con le politiche di austerità e la flessibilità del mercato del lavoro, aumenterebbero la coesione tra i Paesi Europei – ha perso ogni credibilità.[1]
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La "sorpresina" (di Angela): TTIP e accordi di cambio vincolanti
Dalla Grecia all'Argentina
di Quarantotto
1. Avrei dovuto parlarne in chiusura del mio intervento alla London School of economics, ma non c'è stato il tempo. Mi riferisco al prevedibile destino della nostra c.d. "sovranità monetaria", ANCHE in caso di euro-break, ma nella futura e, sempre più probabile, prospettiva del TTIP, cioè del trattato free-trade tra Unione Europea e Stati Uniti (presumibilmente allargato a tutta l'area NAFTA, inclusiva di Messico e Canada).
Come abbiamo già visto in questo post, il "rilancio liberoscambista" può portarci fuori dall'euro ma, nella sostanza, farci naturalmente permanere nello stesso quadro di vincoli escludenti le politiche economiche sovrane previste dalla Costituzione, in vista della "stabilità dei prezzi" indispensabile nel quadro di competizione tra Stati connesso al free-trade, e dell'adozione di un modello di mercato del lavoro strettamente funzionale a tale stabilità dei prezzi.
2. Il motivo per cui mi pare di scottante attualità parlare di questo argomento, sta in una recentissima dichiarazione della Merkel, che risulta altamente significativa circa le "intenzioni" dell'establishment UE relativo alla accelerazione nella direzione del TTIP. Cosa ha detto la Merkel, ieri 26 novembre 2014?
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Draghi apre al quantitative easing “all’americana”
di Thomas Fazi
Draghi ha incassato l’ok ad una politica di quantitative easing “all’americana”, estesa cioè anche ai titoli di stato. Un importante passo avanti, ma non sufficiente
Pare che all’ultimo meeting della Bce Mario Draghi, forte anche del sostegno della Merkel, abbia ancora una volta avuto la meglio sui “falchi” facenti capo al famigerato presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ormai sempre più isolati. “Pare” perché il condizionale è d’obbligo quando si parla dell’istituto capitanato da Mario Draghi, data la scarsa trasparenza dei processi interni della banca; e anche perché per ora stiamo parlando di semplici dichiarazioni. Stando a quanto detto da Draghi in una conferenza stampa a margine dell’incontro, comunque, pare che il presidente della Bce abbia ottenuto il “consenso unanime” da parte del board della banca centrale per a) far salire il bilancio della Bce “verso i livelli d’inizio 2012” (quelli raggiunti dopo il primo giro di rifinanziamenti a lungo termine offerti alle banche all’interno del programma Ltro), il che di fatto equivale a un impegno ad acquistare titoli fino a 1.000 miliardi di euro circa; e b) avviare nuove “misure non convenzionali” – leggi quantitative easing –, se necessario.
Come interpretare le dichiarazioni di Draghi? Se da un lato il fatto stesso di prendere in considerazione una politica di quantitative easing, fino a poco fa un tabù assoluto, rappresenti un passo avanti nella “normalizzazione” dell’Europa – è tanto, troppo tempo che il continente è ostaggio di paranoie iperinflazionistiche, alimentate soprattutto dai tedeschi, che non hanno nessun fondamento nella realtà e che hanno inflitto al “vecchio mondo” costi economici ed umani divenuti ormai insostenibili –, dall’altro è presto per dichiarare che siamo sull’orlo di una svolta decisiva nella gestione della crisi, come hanno fatto alcuni commentatori.
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Perché proporre l’uscita dall’euro?
di Riccardo Achilli
Ho finora sempre sostenuto la strategia della permanenza nell’euro, e della lotta "da dentro", contro le politiche economiche imposte dai trattati europei. Oggi ho cambiato posizione, sostenendo l’esigenza di mettere sul tavolo un piano di fuoriuscita, il più possibile ordinato, dall’euro stesso. Cerco di dare conto delle ragioni di questo mio cambiamento di opinione.
I non- problemi: per sgombrare il campo
Il problema non è quello di pensare, come fanno i sovranisti monetari, che recuperando sovranità monetaria possiamo stampare moneta a go-go, uscendo magicamente dalla crisi. La fragilità della ripresa giapponese, che nonostante politiche gigantesche di quantitative easing e di acquisto di titoli del debito pubblico (cfr. grafico) è caduta in recessione, ma anche la fragilità intrinseca dell’economia statunitense dopo i grandi Q.E. fatti dalla FED (con una crescita trimestrale del PIL reale caduta per ben due trimestri in recessione, ed uno in stagnazione, da metà 2009 ad oggi, e con segnali di rallentamento anche per il terzo trimestre 2014) dovrebbe far riflettere molto sull’efficacia degli strumenti monetari.
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La sinistra e l’uscita dall’euro
di Guido Iodice*
A partire da un recente libro di Marco Bertorello, una riflessione sulla moneta unica dove non vi è alcuna simpatia per i fautori dogmatici dell’euro ma, nello stesso momento, non si tessono le lodi dei “no euro”. La soluzione potrebbe essere una nuova “Bretton Woods”, anche senza la Germania.
“Non c'è euro che tenga. Per non piegarsi alla moneta unica non serve uscirne” è il titolo di un interessante libro di Marco Bertorello edito da Alegre, nel quale l’autore si cimenta in una serrata critica “da sinistra” alle tesi dei più noti economisti e divulgatori favorevoli all’uscita dalla moneta unica. Il libro ha molti pregi, tra cui quello di svelare la paradossale coincidenza di vedute tra alcuni di costoro e i pasdaran dell’euro. La coincidenza “politica” tra le due visioni, a volte palesata, altre volte occultata (inconsapevolmente o meno poco importa), è riassumibile nel dogma della competitività.
Quella che segue, più che una tradizionale recensione del lavoro di Bertorello, è il tentativo di collegare le tesi del libro con alcuni fatti, spesso sottaciuti, che tendono a confermarle. Purtroppo per ragioni di spazio non è possibile approfondire tutti gli argomenti. Chi volesse farlo trova alcuni link in fondo all’articolo. In premessa però è bene chiarire che chi scrive non ha alcuna simpatia per le tesi pro-euro. Ma i torti dell’euro non fanno le ragioni dei no euro. E uscire dall’euro non è la stessa cosa di non esserci mai entrati.
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TTIP: la storia si ripete
di Alberto Bagnai
La crisi è democratica: colpisce la maggioranza. Le persone colpite, che appartengono agli ambiti più disparati, ogni tanto reagiscono, e lo fanno in base al proprio bagaglio culturale e alla propria esperienza di vita, com'è normale che sia, e ciascuno ponendo se stesso, quello che sa e quello che ha fatto come chiave di lettura privilegiata. È umano. Abbiamo così letture botaniche della crisi, letture filateliche della crisi, letture giuridiche della crisi, letture naturalistiche della crisi, e chi più ne ha più ne metta.
Da ognuno c'è qualcosa da imparare, ma rimane il fatto ineludibile che questa è una crisi economica, cioè quella cosa che si verifica quando per motivi che abbiamo illustrato tante volte la gente si trova senza soldi in tasca. Va anche ricordato che, come i marZiani dovrebbero sapere e come una lettura anche superficiale dei fatti dimostra (soprattutto in Italia), le dinamiche economiche reggono quelle politiche, che a valle reggono quelle giuridiche, ed è questo simpatico trenino, guidato dalla locomotiva "Economia", che ci porta a spasso per le interminate praterie della SStoria.
Deriva da questo semplice (ma ineludibile) fatto il vantaggio comparato di questo blog. So che dispiace a molti, ma per fortuna piace a voi, e tanto mi basta.
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La segreta assuefazione della Germania per il credito
Quanto ancora possiamo basare l’economia sul credito a basso costo?
Adair Turner pubblica un interessante articolo su Project Syndicate in data 10 Novembre, parlando della supposta assuefazione della Germania alla crescita finanziata dal credito (proprio) e quindi - come ci ripete incessantemente il buon Goofy – dal debito (altrui).
L’articolo è attualissimo per le tematiche economiche trattate, dalle politiche mercantiliste all’uso dei tassi di cambio flessibili, dalla so-called guerra valutaria alla necessita di ridurre i livelli di indebitamento complessivi del pianeta Terra (leggasi deleveraging).
Il discorso si sviluppa da una critica dell’austerità come misura efficace per ridurre il debito, al salvataggio dei privati mediante la socializzazioni dei loro debiti, per giungere alla proposta che Turner ritiene l’unica sensata per iniziare il processo di riduzione dell’indebitamento senza distruggere lo stato sociale o creare ulteriori bolle speculative: la monetizzazione del debito da parte delle banche centrali.
Che il dogma della banca centrale indipendente dai governi, e dalla volontà popolare, sia pronto ad essere messo in discussione?
LONDRA – Con i dati recenti che dimostrano che le esportazioni tedesche sono diminuite del 5,8% da luglio ad agosto, e che la produzione industriale si è ridotta del 4%, è diventato chiaro che l’insostenibile espansione del paese alimentata dal credito sta finendo. Ma i frugali tedeschi usualmente non la vedono in questo modo.
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A sinistra l’euro diventa un dilemma
Carlo Clericetti
Il dibattito sulla possibilità di abbandonare la moneta unica comuncia ad accendersi anche nell’area della sinistra Pd: una sua nuova rivista ospita vari interventi. Ma un problema ancora più decisivo sarebbe un vero cambio di rotta della politica economica
La tesi che l’Italia debba uscire dall’euro per non subire danni irreparabili non ha avuto fino ad oggi molti sostenitori nel nostro paese. A livello politico due partiti di opposizione, 5Stelle (ma con una posizione altalenante e non del tutto chiara) e la Lega, alla ricerca di uno spazio politico dopo essere arrivata a un passo dalla scomparsa e sull’esempio del Front National di Marine Le Pen, con il quale è alleata in Europa. Tra gli economisti, pochi e per lo più eterodossi, con la ragguardevole eccezione di Paolo Savona che è stato forse il primo a porre con decisione il problema. La maggior parte degli economisti si è piuttosto dedicata a proporre soluzioni di politica economica che fossero in grado di far superare all’Europa questa crisi che sembra infinita.
Da qualche tempo, però, l’ipotesi di abbandono della moneta unica comincia ad essere discussa dall’area che fa capo alla sinistra Pd o ad essa contigua. Il primo politico di questa collocazione ad uscire allo scoperto è stato Stefano Fassina, che di fronte all’assenza di qualsiasi segno di un cambiamento di rotta delle politiche ha cominciato ad affermare che è necessario considerare l’alternativa di lavorare per un’uscita dall’euro concordata tra i paesi membri, in modo da ridurre al minimo i rischi che un passo del genere comporta e che sarebbero invece aggravati se si arrivasse a quel passaggio in maniera forzata, sotto i colpi di una nuova e incontrollabile crisi. Ora la discussione si allarga, proposta dal sito Idee controluce. Si tratta di una rivista on line nata da poco e diretta da due giornalisti che avevano incarichi di primo piano nel Pd pre-renziano, Claudio Sardo (direttore de L’Unità) e Chiara Geloni (direttrice di Youdem, la web-tv del partito).
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A quali condizioni può sopravvivere l'Euro?
Un’ipotesi da non esorcizzare
di Vladimiro Giacchè
Per cominciare, una precisazione. Interpreto il titolo che è stato assegnato a questa relazione intendendo per “sopravvivenza dell’euro” una sopravvivenza cui si accompagni il ritorno della nostra economia su un percorso di crescita. Dico questo perché si sono dati casi in cui un’unione monetaria ha continuato a sussistere a dispetto della crescente divergenza delle condizioni economiche tra i territori che ne facevano parte (un buon esempio al riguardo è rappresentato dal nostro Mezzogiorno, che nei primi 90 anni dopo l’Unità d’Italia ha visto crescere – e in misura significativa – la distanza del reddito pro capite dei suoi abitanti rispetto a quelli del Centro e Nord della penisola). Detto questo, è ovvio che i fattori che possono mettere a rischio la sopravvivenza di un’area monetaria hanno sempre in qualche modo a che fare con lo stato di salute dei paesi aderenti. I due fattori principali: la divergenza tra le economie che ne fanno parte (che fa sì che i tassi d’interesse unici che identificano la moneta unica risultino sempre più inappropriati per gran parte dei paesi membri, se non per tutti); l’insostenibilità del vincolo rappresentato dall’appartenenza a un’area monetaria per una o più delle economie aderenti ad essa.
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