L’impossibile rinascita dell’industria americana (parte 1)
di Ferdinando Bilotti
Dopo decenni passati a sentire tessere le lodi del libero mercato, la fissazione di Trump per i dazi può destare sconcerto. Tuttavia, considerato di per sé, il principio della penalizzazione delle importazioni è tutt’altro che strampalato. Nel XIX e XX secolo, il protezionismo ha costituito uno strumento fondamentale per i paesi sottosviluppati che aspiravano a dotarsi d’una propria industria. Gli stessi Stati Uniti, nei decenni a cavallo del 1900, fecero ampiamente ricorso ai dazi doganali, per proteggere le proprie imprese nascenti e riuscire così ad assurgere al ruolo di potenza manifatturiera.
Già, ma oggi? Il ritorno a una simile politica è giustificato?
In linea teorica, sì. Come abbiamo già spiegato negli articoli del 21 agosto e del 6 ottobre, gli USA hanno subito un esteso processo di deindustrializzazione, che ha avuto conseguenze molto gravi per la loro economia e che minaccia di compromettere persino la tenuta delle loro finanze pubbliche e le loro capacità militari. Tassare le importazioni sembra dunque una strategia sensata, anzi addirittura obbligata. I dazi riducono la competitività di prezzo dei manufatti esteri e quindi avvantaggiano chi produce in patria. Ciò dovrebbe stimolare le aziende nazionali a riportare negli USA le attività che avevano delocalizzato e quelle straniere che esportano verso gli Stati Uniti a servire questo mercato impiantando in loco delle proprie fabbriche. Beninteso, la messa fuori gioco di chi produce più a buon mercato avrebbe un impatto negativo sul costo della vita; ma la reindustrializzazione accrescerebbe il reddito degli abitanti (si tenga presente che oggi molti statunitensi vivono in condizione di disoccupazione, sottooccupazione od occupazione dequalificata), compensando questa conseguenza negativa.
Tutto bene, quindi? Beh… no. Vi sono infatti alcuni fattori che remano contro la possibilità di rilanciare, tramite il protezionismo, il made in USA. Lo sviluppo industriale richiede abbondante forza lavoro qualificata (dai tecnici laureati agli operai specializzati, passando per il personale amministrativo di vario genere) e quindi un sistema scolastico e universitario in grado di formarla; ma gli Stati Uniti non ce l’hanno, in quanto la loro istruzione pubblica è troppo scadente e quella privata è troppo cara.
Esso richiede, inoltre, una rete di infrastrutture abbastanza ramificata e ben tenuta da garantire bassi costi di trasporto; e gli Stati Uniti, a furia di tagliare la spesa pubblica per poter abbassare le tasse ai ricchi, si ritrovano ad averne una limitata e fatiscente. Lo sviluppo industriale richiede, infine, un sistema finanziario orientato a supportarlo. Ora, gli USA hanno un settore finanziario straordinariamente potente, che però si dedica soprattutto a pratiche speculative utili a massimizzare i propri profitti immediati. Un esempio della logica in base alla quale esso agisce è rappresentato dalla concentrazione dei propri mezzi in ristretti ambiti - una volta gli operatori internet, un’altra il mercato immobiliare, oggi l’intelligenza artificiale e gli armamenti - che appaiono suscettibili di forte espansione: un comportamento che dapprincipio realizza la stessa previsione che lo ha originato, in quanto produce una lievitazione del valore delle aziende su cui gli investitori hanno puntato, ma che non genera uno sviluppo duraturo di quei settori, poiché a un certo punto diviene evidente che tale valore è salito troppo rispetto alle possibilità di quelle aziende di ripagare, tramite i propri profitti, la spesa che ha richiesto l’acquisto delle loro azioni e perciò si determina una vendita massiccia di queste ultime, che ne provoca il crollo in borsa (le ricorrenti crisi finanziarie che scuotono l’economia americana, e con essa quella mondiale, hanno all’origine proprio la formazione e poi l’esplosione di queste bolle speculative). Un altro esempio consiste nelle manovre di borsa finalizzate a manipolare le quotazioni dei titoli azionari: ai nostri giorni i dirigenti delle grandi società destinano ingenti capitali al riacquisto di azioni delle medesime circolanti sul mercato, in quanto questa operazione determina una crescita del loro valore unitario e quindi un beneficio per gli azionisti. In questo caso si verifica qualcosa di ancora più deprecabile, rispetto al comportamento illustrato prima: ciò che si ha, infatti, non è neppure una pianificazione irrazionale di investimenti rivolti ad attività produttive, ma una deviazione della liquidità delle aziende dagli investimenti produttivi a delle operazioni puramente finanziarie.
In assenza di interventi diretti a correggere tutte queste criticità, una politica protezionista può avere pieno successo soltanto se si pongono dazi molto elevati, tali cioè da creare a chi rimane dov’è diseconomie più gravi di quelle che deve affrontare chi viene a produrre negli USA (inefficienza delle reti di trasporto, difficoltà nel reperimento del personale e dei finanziamenti). Questa, però, è una soluzione che fa nascere un altro problema.
C’è da tenere presente, infatti, che una massiccia rilocalizzazione delle produzioni non è suscettibile di verificarsi in tempi brevi. La creazione ex-novo o il trasferimento di un impianto industriale è un’operazione relativamente semplice se esso produce interamente o quasi il bene che poi commercializza e se non fa ricorso a tecnologie particolarmente sofisticate; si dà il caso, però, che le produzioni di questo tipo siano condotte generalmente da piccole imprese, dalle quali non ci si può aspettare un forte contributo al rilancio del comparto industriale. Le società capaci di far sorgere grandi complessi produttivi, invece, di regola si servono di tecnologie complesse (incorporate sia nei beni prodotti che negli stessi impianti) e sono fortemente interconnesse con le realtà economiche circostanti (avendo proprie reti di fornitori), ragion per cui le loro decisioni di investimento si traducono in realtà con una certa lentezza. Ciò vuol dire che l’imposizione di dazi, nel breve periodo, non è suscettibile di rianimare in misura significativa la produzione industriale interna, ma più che altro si limita a far rincarare i manufatti importati. Se una nazione ha spostato all’estero o ha lasciato scomparire la massima parte della propria produzione di beni di largo consumo, questo rincaro determina un incremento sensibile del costo della vita per i ceti popolari, che sostanzialmente non è neppure compensato da un miglioramento dei redditi dei medesimi (giacché essi non possono contare sulla comparsa di molte nuove opportunità di lavoro). Se poi tali ceti non possono far fronte alla crescita del costo della vita intaccando i propri risparmi, allora devono ridurre i loro consumi. Ma la riduzione dei consumi impatta sull’insieme delle attività imprenditoriali che i consumi alimentano: quindi non soltanto sulla produzione di quei manufatti stranieri, ma anche su varie attività terziarie che si svolgono all’interno del paese (su quelle legate alla commercializzazione di tali beni, ovviamente, ma anche sulla produzione di servizi di cui quei consumatori sono acquirenti). Una svolta protezionista, quindi, in una nazione del genere è suscettibile di avere nell’immediato un rimarchevole effetto recessivo.
Ora, si dà il caso che gli Stati Uniti abbiano spostato all’estero o lasciato scomparire la massima parte della propria produzione di beni di largo consumo; e che i ceti popolari americani siano pressoché privi di capacità di risparmio. Ciò significa che gli USA, se da una parte avrebbero bisogno di una politica fortemente protezionistica per reindustrializzarsi, dall’altra pagherebbero la sua adozione con una crisi economica assai pesante. E la crisi creerebbe un forte scontento popolare, di cui le lobby imprenditoriali favorevoli al libero scambio potrebbero approfittare per riportare al potere politici orientati in tal senso (finanziando le loro campagne elettorali con generosità tale da imporre all’attenzione dell’elettorato le loro figure e le loro proposte). Notate il paradosso: il protezionismo può sortire i suoi effetti benefici solo nel lungo periodo, ma la sua adozione è possibile solo nel breve periodo, in quanto essa è destinata a essere bocciata dagli elettori.
A questo punto i lettori ci faranno notare che Trump, a dispetto delle nostre considerazioni, nel trattare con l’UE ha minacciato l’imposizione di dazi piuttosto elevati. Il suo era dunque soltanto un bluff, avente il fine di indurre la sua controparte a venirgli incontro? La risposta è probabilmente negativa. L’Unione Europea è una forte esportatrice verso il mercato americano, ma per quanto concerne le produzioni di largo consumo (i cui prezzi, com’è ovvio, sono quelli che più impattano sul costo della vita) non ha al suo interno una presenza paragonabile a quella dell’industria asiatica, sia per una questione di volumi complessivi di vendite, sia per ragioni di composizione dell’export (il quale conta al suo interno anche - certo non unicamente, ma anche - beni di lusso e di nicchia). Quando minacciava l’Europa, dunque, Trump doveva essere disposto a spingersi piuttosto in avanti sulla strada dell’imposizione di dazi, poiché sapeva che una forte penalizzazione dei beni europei non avrebbe avuto un impatto particolarmente elevato sul livello generale dei prezzi dei beni di consumo in America.
Questa credibilità delle minacce trumpiane, unitamente all’interesse che ha il capitalismo europeo a sostenere l’economia americana (si veda, al riguardo, quanto abbiamo scritto nell’articolo del 6 settembre), spiega come mai lo scontro con l’UE abbia avuto un esito positivo: minacciando dazi al 30 per cento, ha ottenuto quelli al 15 (ma al 50 nel caso dei prodotti in acciaio e alluminio) senza ritorsioni da parte europea, più varie assunzioni d’impegni, riguardanti il compimento d’investimenti negli Stati Uniti e l’acquisto di armi e materie prime da essi prodotte. Tali impegni possono essere considerati delle misure equivalenti a dei dazi, in quanto sono in grado di produrre i medesimi effetti di questi ultimi. Ciò vale non soltanto per l’obbligo di effettuare investimenti negli USA, ma anche per quello di importare materie prime, fra le quali spicca il costoso gas di scisto: la forzata acquisizione di quest’ultimo, infatti, manterrà elevati i costi energetici delle imprese comunitarie, a detrimento della competitività delle attività da esse condotte in patria. Costringere l’industria europea ad alimentarsi tramite il gas americano, insomma, equivale a imporle un ulteriore dazio, corrispondente al differenziale di prezzo sussistente fra di esso e quello russo di cui in passato si serviva.
La strategia trumpiana, tuttavia, presenta delle criticità di non poco conto. Come abbiamo già scritto nell’articolo del 21 agosto, l’effettiva applicazione di tale accordo potrebbe risultare problematica (gli impegni di cui sopra sono stati presi dall’Unione Europea, ma gli investimenti e gli acquisti di gas dovranno essere compiuti dalle imprese dei singoli paesi membri: come farà la prima a orientare i comportamenti delle seconde, in assenza di un autentico governo comunitario e di meccanismi di pianificazione economica di tipo socialista?). Inoltre, appare credibile che molte imprese europee sceglieranno non di sottrarsi ai dazi trasferendosi in America, bensì di compensarli comprimendo i costi di produzione. In ragione di ciò, l’imposizione di barriere tariffarie ai nostri manufatti causerà sì - ahinoi - una significativa emigrazione di industrie dal vecchio continente, ma non un sistematico reinsediamento negli Stati Uniti delle aziende interessante, poiché molte di esse - valutate le condizioni poco favorevoli che offrono gli USA sotto diversi importanti aspetti - preferiranno riposizionarsi in altre aree del globo, anche soggette a loro volta ai dazi americani, ma caratterizzate rispetto all’Europa da costi del lavoro, energetici e del rispetto di normative ambientali più bassi. Beninteso, in teoria il governo USA dovrebbe potere contrastare questa tendenza a evitare l’insediamento in territorio americano facendo valere gli impegni a effettuare investimenti assunti dall’Unione; ma in concreto, come s’è detto, quest’ultima potrebbe dimostrarsi incapace di far rispettare tali impegni.
Anche qualora volessimo tralasciare questi problemi, peraltro, dovremmo comunque tenere presente che una reindustrializzazione massiccia degli USA (di portata adeguata, cioè, alle dimensioni e alla consistenza demografica del paese) richiede la sostituzione con produzioni interne delle importazioni dall’Asia di beni destinati al consumo di massa. L’arrendevolezza dell’Europa, pertanto, non risolve in nessun caso (a prescindere cioè dalla misura in cui l’accordo troverà applicazione) i problemi degli Stati Uniti.
E infatti, ci si farà notare, Trump si è mosso anche sul fronte asiatico. Sì, ma con quali risultati? Per ora, è riuscito a strappare al Giappone, alla Corea del Sud e alla Malesia degli accordi analoghi a quello con l’UE (comportanti cioè, da parte di tali paesi, l’accettazione di dazi e l’impegno a effettuare investimenti): accordi, quindi, contenenti dei benefici per gli Stati Uniti, ma non privi di criticità (prevedibile difficoltà dei governi a orientare le decisioni delle imprese e possibile tendenza di queste ultime a privilegiare paesi terzi quali destinatari delle proprie delocalizzazioni). Soprattutto, nel valutarne l’importanza va tenuto conto che oggi il grosso delle importazioni odierne degli USA non proviene da tali paesi, bensì dalla Cina. E’ dunque soprattutto la Cina che andrebbe piegata. Ma questa, a differenza dei paesi sin qui considerati, si è dimostrata tutt’altro che remissiva.
Per vincerne la resistenza, Trump si è spinto sino a imporre dazi al 145 per cento sulle sue merci; ma il governo di Pechino ha reagito con dazi ritorsivi di eguale gravosità, dimostrando così di non temere la prospettiva di una guerra commerciale con gli USA. Dopo questa escalation, si è giunti a un accordo provvisorio (dazi americani al 55 per cento, dazi cinesi al 10), utile a tenere vivo l’interscambio commerciale tra i due paesi mentre i negoziati proseguivano. Infine, a ottobre è stato stipulato un ulteriore accordo, valevole per un anno, che ha determinato un’altra lieve riduzione della tariffa americana. Apparentemente, è un successo: Trump ha costretto la Cina ad accettare una tariffa tripla di quella imposta all’Europa. E’ da vedere, tuttavia, sino a che punto l’industria cinese risulterà penalizzata da questa barriera, considerati i fattori di competitività su cui può contare (bassi salari, grandi economie di scala, forniture energetiche dalla Russia a basso costo). Soprattutto, va considerato che l’accordo andrà rinegoziato fra un anno. Lo stato dei rapporti commerciali fra Cina e Stati Uniti rimane dunque caratterizzato da una situazione di incertezza, la quale certamente non favorisce il varo di iniziative (ad opera di investitori americani, delle stesse imprese cinesi o di soggetti terzi) volte a sostituire le importazioni cinesi.
D’altronde, era difficile che Trump potesse ottenere di più. E anche in futuro, a nostro avviso, dovrà scendere a compromessi con la Cina, rinunciando a colpire pesantemente le sue esportazioni. Gli USA, difatti, non sono in condizione di trattare con essa da una posizione di forza. Ciò in parte dipende dal fatto che l’imposizione di forti dazi sulle merci cinesi avrebbe ricadute sensibili sul costo della vita dell’americano medio, data l’entità e la composizione di tali importazioni (ossia in ragione del fatto che esse consistono in prodotti di largo consumo). Ma vi sono anche altre ragioni per cui l’America non può permettersi di fare la voce grossa con la Cina. In estrema sintesi:
1. Le industrie ancora operanti negli USA (e naturalmente anche quelle che dovrebbero sorgere in virtù della politica protezionista) abbisognano di risorse minerarie importate, tra cui le famose “terre rare” (necessarie per la realizzazione di componenti elettroniche), le quali in parte rilevante provengono dalla Cina: questa, difatti, non soltanto controlla una parte importante delle miniere da cui tali minerali provengono, ma detiene anche una posizione di quasi-monopolio relativamente alla lavorazione dei medesimi (il che significa che anche la massima parte delle terre rare non estratte da miniere cinesi raggiunge gli Stati Uniti dopo essere stata processata in Cina). Quando Trump è partito in quarta con i suoi provvedimenti daziari, la Cina ha reagito anche bloccando le sue esportazioni di tali minerali, dimostrandogli di potersi servire di questa condizione di dipendenza degli Stati Uniti come arma di ricatto. Notate questo ulteriore paradosso: per potersi reindustrializzare, gli USA debbono estromettere dal proprio mercato i manufatti cinesi, ma se lo fanno la Cina può reagire privando gli USA delle materie prime necessarie alle industrie che si vorrebbero far sorgere.
2. Il declino industriale ha reso l’economia statunitense fortemente dipendente dalle esportazioni di materie prime. Tra queste spiccano, oltre al gas (che il governo USA sta riuscendo a vendere all’Europa, dopo averla forzata a rompere i propri rapporti con la Russia), le derrate agricole, per le quali la Cina, con la sua enorme popolazione, rappresenta un importantissimo mercato di sbocco. Questa situazione pone nelle mani di Pechino un secondo strumento di ricatto, di cui Xi Jinping non ha esitato a servirsi: di recente, infatti, la Cina ha ridotto i propri acquisti di soia statunitense, rimpiazzandola con importazioni dal Brasile.
3. Uno stato fortemente indebitato, quale è quello statunitense, è uno stato ricattabile anche sotto un ulteriore profilo: esso infatti ha bisogno che altre nazioni acquistino una parte della grande quantità di titoli che emette. Pertanto, i governi dei paesi colpiti dai suoi dazi possono reagire all’imposizione di questi ultimi comandando agli operatori finanziari che controllano di tagliare i propri acquisti del suo debito, compromettendo così la sua capacità di rifinanziarlo. Negli anni passati la Cina, in risposta alla crescente ostilità manifestata dagli USA nei suoi riguardi, aveva già limitato parecchio i propri acquisti di titoli di stato americani. Dopo che Trump ha avviato la propria offensiva si è spinta ancora più in là lungo questa strada, adottando il semplice criterio di non rinnovare quelli che giungevano a scadenza.
4. L’economia della Cina genera enormi flussi commerciali in entrata e in uscita, che il suo governo potrebbe decidere di gestire senza fare più ricorso al dollaro (che ha costituito sino ad oggi la moneta degli scambi internazionali). Ciò ridurrebbe in misura sensibile la necessità sia della Cina che dei paesi in rapporti con essa di procurarsi dollari, e quindi potrebbe indurre anche questi ultimi a ridurre i propri investimenti in titoli di debito statunitensi (i quali costituiscono un mezzo per procurarsi dollari). Inoltre, un calo della domanda di dollari a livello mondiale causerebbe una svalutazione della moneta americana, la quale da un lato contribuirebbe a far rincarare i prezzi delle importazioni, ma dall’altro (e proprio a causa di tale rincaro) causerebbe un ulteriore rialzo del costo della vita. Si noti che anche questo processo di dedollarizzazione del commercio cinese è già in corso: ormai oltre il 50 per cento dei pagamenti internazionali della potenza asiatica avvengono in yuan.
A proposito della rinuncia all’uso del dollaro, va sottolineato come questa, in una certa misura, risulterebbe addirittura forzata dal protezionismo. Infatti un altro modo di procurarsi dollari consiste nel vendere le proprie merci negli Stati Uniti. L’adozione di severe misure protezionistiche contro la Cina, pertanto, causerebbe una forte diminuzione del travaso di dollari dagli uni all’altra, col risultato che la Cina sarebbe obbligata a chiedere sistematicamente ai propri partner commerciali l’accettazione in pagamento di una moneta diversa dal dollaro.
Tutto questo la Cina lo sa; per questo, quando Trump ha minacciato sfracelli, non ha fatto una piega, mostrandosi disposta ad andare allo scontro. I cinesi hanno fiutato il bluff e hanno scelto di “andare a vederlo”, ossia di costringere l’avversario a mostrare le proprie carte. E il risultato è stato il duplice accordo al ribasso stipulato nell’arco del 2025.
A onor del vero, anche gli Stati Uniti dispongono di uno strumento di pressione nei riguardi della Cina: essi difatti vantano una posizione di supremazia tecnologica nel fondamentale settore dei microprocessori, di cui hanno approfittato, nel corso di questa guerra commerciale, per penalizzare l’industria cinese, ponendo limitazioni all’esportazione dei modelli più avanzati. La Cina, però, sta investendo nello sviluppo autonomo di tale comparto, ragion per cui nel giro di pochi anni potrebbe smettere di dipendere dalla tecnologia americana. E comunque, per costruire i microprocessori occorrono le terre rare cinesi...
Ma allora - chiederanno a questo punto i lettori - cosa sarà del programma trumpiano di rilancio dell’industria americana, se è destinato a infrangersi contro lo scoglio cinese? In sostanza, la risposta a questa domanda è già contenuta nel titolo che abbiamo scelto di dare all’articolo. Nella seconda parte di esso, comunque, proveremo a darne anche una più articolata.







































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