L’Occidente al tramonto e in guerra
di Alessandro Visalli
Siamo al tramonto, e siamo sotto l’aspra necessità della guerra. Indispensabile, fatta e minacciata, spesso con servizievoli procuratori, per continuare a estrarre valore dal mondo pieno e coltivare il vuoto nel quale siamo precipitati. Un vuoto da tempo creato da un ‘essere sociale’ che non sa liberarsi dalle conseguenze di una libertà pensata come licenza e arbitrio solitario. Ostinatamente inconsapevole della profondità costitutiva della relazione sociale, e della responsabilità che ne deriva.
L’essere sociale del medio-Occidente vive infatti dell’insolubile contraddizione di pensarsi individuale. Di immaginarsi intersezione casuale di monadi disincarnate, dedite liberamente alla coltivazione del proprio vuoto. Un vuoto fatto di possessi compulsivi ed escludenti, di idiosincratici desideri, sommando la più assoluta eteronomia e dipendenza dalla contingente forma del mercato. Ma, al contempo, l’Occidente riesce a immaginare questa forma puramente contingente, recentissima, come normativamente universale.
Vaste conseguenze si disseminano da questo stato: nell’impossibilità di salvare la coesione sociale e l’agire politico coerente che ne deriva, la tecnica di governo del vuoto si rivolge alla creazione e rapida sostituzione di sempre nuovi miti e nemici. Si ottiene per questa via ciò che per altri promana da una superiore consistenza sociale. Lo abbiamo posto nel Capitolo primo e poi ripreso nel sesto.
Lo sforzo in corso, nelle capitali dell’Occidente collettivo, e certamente nel suo centro statunitense, è di reagire al fallimento del modello di accumulazione finanziarizzato (gestito da quello che nel primo Capitolo abbiamo descritto come il “network globalista”) concependo un nuovo progetto:
in primo luogo, transitare alla centralità della “logica territorialista”, per riportare sotto controllo quegli spiriti animali della finanza che ormai avvantaggiano soprattutto gli avversari;
per riuscire serve un metodo di finanziamento delle immani spese necessarie per ribilanciare il modello di sviluppo con metodi di autorità, dunque serve l’estrazione dalle provincie;
e serve una nuova ideologia, identificata nel Nazionalismo Imperiale.
I tre passi sono reciprocamente connessi da necessità. La Logica Territorialista, ed il progetto di ricondurre a casa gli investimenti, è incredibilmente costoso e può essere finanziata solo tramite un nuovo momento di “Accumulazione primitiva” sotto forma di estrazione forzata dalle periferie. Ma per questo serve una nuova ideologia e non è più utilizzabile l’astratto universalismo della fase unipolare.
Dunque:
– la Logica Territorialista è la risposta strategica dell’Impero alla propria debolezza strutturale (determinata da eccesso di consumo rispetto alla produzione di valori reali e conseguente dipendenza finanziaria) e alla sfida geopolitica di Cina e Russia che ne consegue. Il suo obiettivo di ri-ancoraggio del capitale alla logica di potenza dello Stato, facendo piazza pulita delle retoriche della relativa “fine”. Ovvero, ripristinare il “controllo della domanda interna”, la sicurezza delle catene di approvvigionamento, l’egemonia tecnologica e la reindustrializzazione. Ma questo progetto (re-shoring, sussidi come l’IRA , competizione tecnologica, espansione militare) ha un costo immenso. Entra in conflitto diretto con la logica del capitale finanziario “disincapsulato”, che cerca il profitto globale a breve termine.
– Questo enorme costo si finanzia, dal momento che il vecchio metodo messo a punto durante il quarantennio trascorso, l’attrazione di capitali globali tramite la finanziarizzazione, è sfidato dalle alternative create dai controegemoni e dalla guerra al dollaro, tramite l’estrazione diretta dalle provincie. Questo è il metodo di finanziamento classico della Logica Territorialista. È il “dividendo imperiale” necessario per sostenere i costi della transizione. Qui le “provincie”, data l’indisponibilità al ruolo della Cina e della Russia e dei loro alleati, sono i centri industriali semi-rivali, ridotti a subalterni per riduzione delle loro alternative strategiche. Paesi come la Germania, il Giappone, l’Italia, la Corea, la Francia e la stessa Inghilterra prosperavano nell’ordine precedente come alleati-competitori in una varietà di sottomodelli (da quello più finanziario inglese a quello più industriale tedesco). Nella nuova logica, devono essere ridotti al ruolo di “fortini di confine e consumatori-subfornitori”. Il meccanismo pratico è proprio la “Guerra Mondiale a Pezzi”, che si manifesta come scelta strategica e meccanismo cinetico dell’estrazione di valore dalle periferie. Ad esempio, in Ucraina l’estrazione dall’Europa si crea grazie: al taglio dell’energia a basso costo; alla sostituzione estrattiva diretta (obbligando a comprare gas di shale dagli Usa e, al contempo, impedendo che si sviluppino alternative come le rinnovabili, coperte da una massiva campagna di stampa e fake news) che trasferisce ricchezza liquida; alla deindustrializzazione dei rivali e rilocalizzazione incentivata negli stessi Usa; alle subforniture militari forzate con prodotti Usa; alla rottura dei rapporti commerciali con la Cina.
– Ma per completare questo piano (Riterritorializzazione ed Estrazione dalle Provincie) serve una nuova ideologia. Qui si afferma il Nazionalismo Imperiale in vece del Globalismo astratto e universalizzante. Questo ha contemporaneamente una funzione esterna che giustifica il gioco “a somma zero”, sostituendo la retorica della “comunità di valori” (democratici e progressisti) con la “condivisione di oneri” (ovvero il pagamento per la protezione). Inoltre, questo schema funzionalizza il “vuoto” e la rabbia delle classi medie e lavoratrici lasciate sul bagnasciuga dall’era neoliberale, e tradotta nello schema populista dalla destra, gestendola e mettendola al lavoro. Questo rancore viene reindirizzato non verso le élite estrattive interne (che, per lo più, si riorientano sotto il nuovo carro) ma contro i nemici esterni e tutte le loro azioni (quindi la Cina, la Russia, i loro prodotti come pannelli solari e macchine elettriche) e l’alleato “parassita” (come dice apertamente il Vicepresidente Vance) europeo. Nella misura in cui pretende di avere proprie politiche industriali (ad esempio, energetiche) e non pagare abbastanza la protezione. In questo modo il populismo stesso, come spesso accaduto nella storia americana, viene assorbito e reso anzi la forma di governo necessaria a sostenere il nuovo sforzo imperiale.
In sintesi: la Logica Territorialista (la strategia di reindustrializzazione statale) richiede l’Estrazione dalle Province (il finanziamento tramite la sottomissione degli alleati), e questa operazione predatoria necessita del Nazionalismo Imperiale (l’ideologia populista e zero-sum) per ottenere il consenso interno e imporre la disciplina esterna. Infine, la “Guerra Mondiale a Pezzi” è, in quest’ottica, la manifestazione pratica di questo progetto di “rivoluzione-conservazione”.
Si può dire perciò che Nazionalismo Imperiale e il suo antecedente, Universalismo Imperiale, non sono opposti in senso assoluto, ma espressione del cambio di spalla al fucile del medesimo imperialismo. Strategie diverse per lo stesso fine. Il loro scopo è il medesimo, conservare l’egemonia e tutelare gli interessi a lungo termine del grande capitale di fronte alla sfida del tendenziale declino. Tuttavia, ovviamente, il Nazionalismo Imperiale è la risposta di alcuni gruppi di potere in parte diversi al fallimento dell’Universalismo Imperiale a tenere sotto controllo la crescita dei rivali. Esso, infatti, sul fronte interno ha generato il “vuoto”, dissolvendo la “società dei due terzi” e le classi medie. Su quello esterno ha rafforzato i rivali ed ha dimostrato di non avere più armi di distruzione finanziaria efficaci (sanzioni).
Serve una nuova ideologia che non parli più di interesse universale e giochi a “somma zero”, ma:
– al “commercio” reciprocamente vantaggioso opponga la “sicurezza”;
– alla “competizione” come movente sostituisca il “de-risking”, ovvero la riduzione della minaccia;
– alla logica della “partnership” faccia subentrare quella del “rivale sistemico”.
Questa mossa del centro imperiale è stata resa necessaria, al contempo anticipata e provocata, dalla strategia di lunga durata della Cina. Essa negli ultimi tre piani quinquennali, e via via sempre più, ha destinato enormi risorse a dotarsi di infrastrutture e urbanizzazione nell’interno, gestendo gli squilibri finanziari che via via si generavano con efficaci contromisure sistemiche (controllo statale/pianificato) che l’Occidente, dominato dal capitale privato monopolistico, non possiede. Ha usato, in altre parole, la sua sovranità politica per costruire una Logica territorialista endogena preparandosi allo scontro. La medesima cosa ha fatto la Russia.
In un secondo momento, negli ultimi cinque anni, ha investito capitale diplomatico e politico, e ingenti risorse economiche, nella creazione di contropoteri globali (il Brics+) che non controlla, ma che sono semi-indipendenti dal rivale. Questa Fase 2 (Brics+, schemi non-dollaro) offre alle “province” (ma non all’Europa che è stata a guardare) una via di fuga potenziale.
In un terzo momento, nel 2025, la Cina, scalata la tecnologia con investimenti pazienti e continui, ha aperto la guerra delle materie prime e lotta abbastanza evidentemente alla pari. La mossa di estendere, o consolidare, il controllo sulle materie prime (dai metalli ferrosi alle ‘terre rare’, passando per gran parte dei prodotti da miniera e giacimento, inclusa la relativa raffinazione) rende il progetto di re-shoring quasi proibitivo.
Ciò ha due conseguenze:
– la Guerra Mondiale a Pezzi si sposta su Africa e America Latina, senza dimenticare il solito Medio Oriente;
– le provincie industrializzate dell’Occidente, e l’Europa in primis, private dell’energia a basso prezzo russa e del mercato cinese restano anche spiazzate sulle materie prime necessaria anche per la transizione del sistema economico su basi più sostenibili (in termini strategici).
Un esempio possibile, tra molti, è quello dell’industria automobilistica. Su questo terreno la Cina per anni, almeno quindici, ha usato i suoi vantaggi sistemici (controllo statale diretto e indiretto, sussidi, coordinamento) per costruire un dominio ormai assoluto su l’intera filiera tecnologica (dalle batterie ai motori, passando per l’intera elettronica connessa) ed ha lasciato crescere un’offerta industriale sovrabbondante (forse cento aziende produttrici). Poi, nel nuovo Piano Quinquennale ha ritirato gli incentivi, lasciando che la lotta tra di loro, su prezzi e qualità, alla fine lasci solo quattro-cinque giganti a scala mondiale. Chiaramente, data la superiorità tecnologica della soluzione elettrica (minori costi del motore, batterie sempre più economiche e performanti), sarà il mercato a eliminare tutta la concorrenza occidentale come effetto ‘secondario’ della lotta di prezzo tra le industrie cinesi che cercano di sopravvivere e non essere assorbite dalle altre. La medesima cosa circa un decennio prima è accaduto con le tecnologie delle rinnovabili.
Questa strategia unisce la distruzione industriale diretta dei competitori (incapaci di seguire sul prezzo i rivali) allo strangolamento determinato dalla ‘guerra delle materie prime’ (dominio della raffinazione di litio, cobalto, grafite, etc.).
Si contrappongono, dunque, due logiche:
– la proposta di un “duopolio estrattivo”, da parte dell’Impero Occidentale, nel quale ognuno estrae dai suoi e compete sui margini, secondo una Logica Territorialista;
– l’offerta di un Tianxia, se pure parziale, come schema normativo e ideologico alternativo. Una sorta di ri-orientamento culturalmente e operativamente sino-centrico di filiere e alleanze sulla base della reciproca convenienza. Un sistema-mondo parallelo che opera su basi di non-interventismo, sicurezza condivisa e priorità al commercio.
In conclusione, si tratterà di affrontare un periodo di guerre frizionali (ibride e calde, o “a Pezzi”) a bassa intensità, ma altissimo impatto economico, la cui posta è l’affermazione della propria “Piattaforma Tecnologica”.
Come ovvio noi europei siamo oggetti di queste strategie e non soggetti, per effetto della subalternità strutturale e della natura “compradora” delle nostre élite.







































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