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Metalmeccanici: un decennio di contratti separati

Cristina Tajani*

fiom 4ad7357f08146Dal punto di vista delle relazioni industriali, gli anni 2000 si sono aperti e sono destinati a concludersi all’insegna della rottura dell’unità sindacale. Il protocollo di riforma del modello contrattuale[1], firmato a gennaio scorso da Cisl-Uil, Confindustria e altre associazioni datoriali (Abi, Ania, Confapi), può forse essere considerato la conclusione di un processo che ha preso avvio all’inizio del decennio quando le confederazioni sindacali si divisero sul giudizio riservato al cosiddetto “Libro Bianco sul Lavoro” presentato dall’allora Ministro Maroni. In quella circostanza la divisione sindacale si concretizzò nel rifiuto della Cgil di sottoscrivere, nel 2002, il “Patto per l’Italia”, protocollo tripartito i cui esiti sono stati – ex-post - giudicati insoddisfacenti dalle stesse confederazioni sindacali firmatarie.

Allora come oggi una divisione di ordine strategico, formalizzata in un accordo interconfederale separato, ha poi prodotto conseguenze sui diversi livelli contrattuali, a cominciare da quello nazionale di categoria. La divisione sindacale del 2001-2002 ebbe come esito più eclatante il rinnovo separato del biennio economico dei metalmeccanici nel 2001, cui seguì - nel 2003 - l’accordo separato anche sulla parte normativa del contratto.

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aprileonline

La CGIL che vogliamo.

Allo stato attuale di elaborazione, il documento della commissione politica non corrisponde al congresso di svolta che le firmatarie e i firmatari di questo testo ritengono necessario. Con esso si intende contribuire al lavoro della commissione politica, al fine di verificare convergenze e divergenze. (...)

cgil 23marzo 2La CGIL che vogliamo rinnova ogni giorno il suo impegno per la difesa e l’estensione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, degli e delle aspiranti ad un lavoro, dei pensionati e delle pensionate.

La CGIL che vogliamo si batte per la democrazia e per la pace, nel pieno rispetto dell’art. 11 della Costituzione.

E’ così che la storia, il presente, la realtà economica, sociale e produttiva non impone le sue regole ma viene attraversata dalle nostre priorità, viene letta dalla nostra ottica, viene conosciuta e modificata dalle nostre battaglie.

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e l

Salari e produttività, il legame funesto

Alfredo Recanatesi

L'idea che si va diffondendo di collegare questi due fattori non è solo ingiusta, ma soprattutto è dannosa per l'economia: premia le imprese inefficienti permettendo loro di sopravvivere, riducendo la competitività del sistema nel suo insieme

salariUna idiozia: il termine può sembrare un po’ pesante, ma è il più appropriato per definire l’orientamento che si va diffondendo di legare in qualche modo la dinamica salariale a quella della produttività. Si potrebbe tagliar corto banalizzando la questione chiedendoci perché mai un camionista che deve perdere una intera mattinata per percorrere la statale della Val Seriana, e dunque è poco produttivo, deve essere retribuito meno di un suo collega che, viaggiando su strade più adeguate alla mole di traffico, è assai più produttivo potendo compiere nella stessa mattinata il doppio o il triplo del chilometraggio. Ma il tema è assai serio e non si esaurisce nella pur pertinente obiezione che sarebbe insensato collegare la retribuzione ad un parametro sul quale i lavoratori hanno scarsa o nulla possibilità di intervenire.

La stagnazione, o addirittura la regressione, della produttività nel sistema economico italiano è la causa per la quale il prodotto lordo non cresce da circa quindici anni. La produttività è la “resa” dei fattori della produzione in termini di valore aggiunto, sicché la sua stagnazione determina quella della ricchezza del paese e, dunque, il suo declino nei confronti dei paesi nei quali la produttività, al contrario, cresce. È facile comprendere, del resto, che se una ora di lavoro rende poco, poco potrà essere remunerato chi ha prestato quell’ora di lavoro. Il futuro del rango dell’economia italiana nel mondo e, conseguentemente, del livello di benessere nostro e dei nostri figli è quindi legato alla evoluzione della produttività. Da ciò dovrebbe discendere che obiettivo primario della politica economica dovrebbe essere un aumento della produttività di tutti i fattori della produzione a cominciare dal lavoro.

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Salari meridionali in gabbia

Rosario Patalano e Riccardo Realfonzo

gabbie salarialiLa politica per il Mezzogiorno del governo Berlusconi cade in una evidente contraddizione logica. Il progetto di una nuova politica nazionale d’intervento per rilanciare lo sviluppo del Sud è infatti del tutto in contrasto con l’intento ventilato, continuamente annunciato e ritirato, di reintrodurre con legge un meccanismo di retribuzione salariale ancorato al costo della vita, che tenga conto della circostanza che nelle regioni meridionali il livello dei prezzi risulta inferiore al Centro-Nord (del 17% secondo Banca d’Italia).

Se, infatti, il progetto di reintrodurre una agenzia nazionale per il Sud sul modello della Tennessee Valley Authority (come un inedito roosveltiano Berlusconi si è spinto a dichiarare) sembrerebbe strizzare l’occhio ad uno schema di intervento keynesiano, fondato su un programma di lavori pubblici a sostegno della domanda, l’idea di adeguare i salari monetari dei lavoratori meridionali al minor costo della vita agirebbe in senso opposto: contenere i redditi nel Mezzogiorno non può che comprimere la domanda di beni di consumo, aggravando ulteriormente il dato dell’economia locale. Naturalmente, una logica di fondo c’è, non ha nulla a che fare con gli interessi del Mezzogiorno ed è piuttosto legata agli equilibri tra i blocchi di interesse che sostengono il governo.

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e l

Il welfare diviso nove

 Valerio Selan

Il disegno di un sistema di protezione sociale efficiente deve tener conto delle esigenze e degli atti di nove gruppi o soggetti, i cui bisogni possono a volte confliggere. Proprio per questo è poco utile concentrarsi su aspetti parziali: per un riforma è necessario un approccio globale

welfareIn attesa di una ripresa della produzione e di una probabilmente più lenta ripresa dell'occupazione, riecheggiano le vecchie note della riforma del welfare. L'acuta recensione di Carlo Clericetti all'ottimo libro di Laura Pennacchi sui due opposti modelli di welfare (di destra e di sinistra, per intenderci), riaccende i fari su un fondamentale elemento di sviluppo e di equilibrio di uno Stato moderno, nonché su uno dei crinali sui quali si divaricano le politiche economiche dei neo-liberisti e dei neo-socialisti. E' opportuno far chiarezza su alcuni aspetti oggettivi del problema e sulle posizioni dei vari protagonisti di una complessa rappresentazione.

Purtroppo nella realtà dei dibattiti e delle scelte - almeno sinora, nel nostro paese - le dramatis personae si sono affacciate alla ribalta solo singolarmente o al più in coppia, impedendo così di cogliere l'intera complessità del fenomeno, le interdipendenze ed anche le eventuali sinergie.

I protagonisti sono almeno una decina. Ognuno di loro ha legittime rivendicazioni e aspettative, unite a corrispondenti responsabilità. Queste aspettative possono essere conflittuali con quelle di altri protagonisti o addirittura tra loro, in base al motto "botte piena e moglie ubriaca".

L'antinomia si risolve nell'equilibrio matematico di massimi reciprocamente vincolati o, per stare al proverbio, con una botte non proprio piena ed una moglie solo un po' brilla.

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L’ideologia del Libro bianco e il futuro del lavoro

Angelo Salento*

lavoroChe cosa sarà del lavoro, in Italia, oltre la crisi? A giudicare dalle promesse del Libro Bianco su “La vita buona nella società attiva”[1], pubblicato all’inizio di maggio dal ministro Sacconi, nulla di luminoso. Non c’è nessun elemento che possa indicare una “via alta” per superare la crisi, nel Libro bianco. Si ha l’impressione, piuttosto, che il Governo in carica non si stia lasciando sfuggire l’occasione che gli si presenta allorché le funzioni di indirizzo politico in materia di lavoro, sanità e inclusione sociale sono attribuite ad un unico Ministero, e gli equilibri parlamentari consentono una pressoché immediata traduzione degli intenti di governo in atti di legge: l’occasione, cioè, per portare a compimento la destrutturazione delle regole emerse dal compromesso fordista. Le statistiche del lavoro – insieme a innumerevoli ricerche – mostrano come la destrutturazione del mercato del lavoro abbia reso strutturale l’instabilità lavorativa e abbia prodotto una tendenza alla contrazione della popolazione attiva (soprattutto fra le donne e nel Mezzogiorno)[2], contribuendo anche alla deresponsabilizzazione dei ceti imprenditoriali e al decadimento del tessuto industriale del Paese[3]. Quanto alla crisi in corso, poi, già il rapporto Istat 2008 ne prefigura l’impatto disastroso sul mondo del lavoro: cresce la disoccupazione (anche a fronte di un aumento degli attivi, sollecitato proprio dall’emergenza), cresce il ricorso alla cassa integrazione; e la perdita del lavoro riguarda soprattutto i tradizionali breadwinners dell’economia italiana.

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Aggressione a Rinaldini: i giornali di sinistra condividono le logiche comunicative del potere

di Pietro Ancona

Ieri i telegiornali hanno martellato duramente tutto il giorno e fino a notte tardissima la notizia della "aggressione" subita da Rinaldini ad opera di un gruppo di facinorosi appartenente ai Cobas. Naturalmente tutte le forze politiche ed i grandi capi delle Confederazioni hanno espresso solidarietà a Rinaldini e stigmatizzato duramente il comportamento "teppistico" dei Cobas. La dichiarazione più dura è stata del Ministro Sacconi che si è riferito all'azione di "soliti noti" mentre la Marcegaglia non ha fatto mancare la solidarietà sua e degli industriali italiani al Segretario della Fiom.

Il martellamento massmediatico continuerà anche oggi e durerà dal momento che viene utilizzato da una sapiente regia per criminalizzare le "reali" resistenze alla manovra padronale, nel caso della Fiat, per la realizzazione di accordi che ridurrebbero considerevolmente i dipendenti di Pomigliano d'Arco o di Termine Imerese. Il martellamento serve ad isolare e ridurre alla stregua di teppisti quanti lotteranno per salvare il pane delle loro famiglie. Molti di loro, da un anno vivono con 650 euro al mese, che è l'equivalente della somma che la signora Marcegaglia spende in una notte di albergo.

Stupiscono in questo contesto due cose: il fatto che Rinaldini non abbia smentito l'episodio ma anzi definisce teppisti i presunti aggressori quando sembra che il tafferuglio sia nato da persone del palco che volevano impedire al rappresentante dei Cobas di prendere la parola; stupisce la durissima condanna pronunziata dal "Manifesto" con un corsivo durissimo. "Da oggi, o di qua o di la". E' stata inferta una dolorosa ferita che fa da spartiacque".

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Contenuti e rischi dell’accordo sulla riforma della contrattazione

Antonella Stirati

diritti in pillole 48dbb79557327Il 15 aprile Uil e Cisl, ma non la Cgil, hanno sottoscritto un accordo per l’attuazione delle linee di riforma della contrattazione già da tempo in discussione e indicate in un documento sottoscritto nel gennaio scorso. Vediamo gli elementi di novità di questo accordo rispetto a quello del 1993, che ha finora regolato la contrattazione tra le parti, per poi riflettere su alcuni dei suoi possibili effetti sul salario reale e produttività.

 

I principali contenuti dell’accordo

Quadro generale

Come già nell’accordo del 1993, si prevedono due livelli di contrattazione, uno nazionale ed uno aziendale oppure territoriale, ma viene ora stabilito che non si possa contrattare sulla stessa materia in entrambi i livelli.

La durata di validità dei contratti viene portata da due a tre anni per entrambi i livelli di contrattazione. Durante il periodo di discussione sul rinnovo, per una durata di sette mesi, è prevista una “tregua” sindacale e non dovranno essere indetti scioperi. La stessa norma si applica, per un periodo di tre mesi, nella fase di rinnovo dei contratti aziendali.

E’ prevista la derogabilità da quanto stabilito nel contratto nazionale in aree territoriali interessate da crisi aziendali o per finalità di sviluppo economico delle aree stesse.

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manifesto

L'insicurezza per legge

di Marco Revelli

sicurezza lavoroLa notizia, se confermata, è di quelle che fanno arrossire di vergogna. Dopo aver attaccato il diritto di sciopero e intaccato lo strumento contrattuale in materia di lavoro (cioè fondamentali diritti e strumenti collettivi), il governo si preparerebbe a dirigere la propria azione restauratrice sul terreno stesso della tutela di quel bene essenziale che è la vita - la sicurezza, la salute, l'integrità fisica - dei lavoratori. Le anticipazioni sul progetto di «riscrittura» del Testo unico in materia di sicurezza e salute sul lavoro in discussione nel prossimo consiglio dei ministri sono molto inquietanti.  Dimezzate le sanzioni pecuniarie nei confronti dei datori di lavoro colpevoli di gravi inadempienze nelle misure di sicurezza (ridotte dagli originari 5-15.000 euro a 2.500/6.500). Abolito l'obbligo di arresto anche nei casi più gravi e per quanto riguarda aziende ad alto rischio industriale, e sua possibile sostituzione con una multa. Cancellato il riferimento alla «reiterazione». Attenuato il controllo pubblico sul rispetto delle norme a favore di «enti bilaterali» (organi concordati tra le parti sociali, consulenti del lavoro, università...).

C'è da augurarsi, con tutto il cuore, che le anticipazioni vengano smentite dai fatti (il ministero continua a ripetere che «un testo definitivo non c'è»).

Perché se, invece, fossero confermate, si tratterebbe di un fatto gravissimo.

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economiaepolitica

Le pensioni di Alesina

Sergio Cesaratto

pensionatiCon frequenza ossessiva dalle colonne de Il Sole 24 Ore il tridente Tabellini, Perotti e Alesina attribuisce molti mali del paese alla troppo bassa età di pensionamento, tesi ripetuta da Alberto Alesina nel suo editoriale del 14 marzo. Beninteso, il benaltrismo è un vizio odioso, ma lo è altrettanto il riduzionismo che sfocia nel semplicismo. “Le donne italiane al lavoro tra i 55 e i 64 anni – argomenta il docente di Harvard – sono circa il 23% del totale. In Svezia il 70% delle donne di quell’età lavora, negli Stati Uniti il 50%. La media europea (Ue-15) è di circa il 41%. Per gli uomini nella stessa fascia di età le quote sono 46% in Italia, 76% in Svezia, 58% nella media Ue e 70% negli Stati Uniti (dati Ocse 2007)”. Ineccepibile, così come il fatto che ciò accade per tutte le altre fasce d’età, con la sola eccezione dei maschi della fascia d’età centrale. Il tasso di occupazione fra i 15 e i 54 anni (occupati 15-54 su popolazione con più di 15 anni) nel 2007 è 69% per l’Italia (donne 57%) contro 76% (71%) della Francia, 79% (74%) della Germania, 77% (68%) della Spagna, 81% (79%) della Svezia (dati di fonte Ilo). Quindi il problema di cui parla Alesina ha un carattere ben più generale. Le donne, in particolare, lavorano in poche in tutte le fasce d’età e Alesina usa inappropriaamente i dati nell’attribuire alla “bassa” età pensionistica i bassi tassi di occupazione femminili per le over-55 (come mi ha prontamente segnalato Antonella Stirati).

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Le paure sbagliate del governo

Felice Roberto Pizzuti

La spesa sociale pro capite dell'Italia è un quarto in meno di quella dell'Europa a 15, eppure si continua a parlare di tagli alle pensioni e a non potenziare gli ammortizzatori sociali. Ma i mercati hanno dimostrato di temere molto di più la caduta dell'economia reale che un aumento del deficit di bilancio

Pensioni in Europa e insuccesso assicurato h partbLe posizioni emerse nel dibattito sulla proposta di aumentare gli assegni ai disoccupati sono sintomatiche dell’estemporaneità con la quale ancora si affronta il tema degli ammortizzatori sociali e, più in generale, dell’inadeguatezza delle politiche sociali correnti rispetto alle esigenze anche economiche accentuate drammaticamente dalla crisi in atto.

Quella che oramai senza enfasi può essere chiamata “la grande crisi del 2008” rende incontestabilmente più urgente il potenziamento degli ammortizzatori sociali, cosicché oggi appaiono particolarmente ingiustificate le contrarietà ad attuarlo o a subordinarlo alla riduzione delle prestazioni pensionistiche. Va tuttavia sottolineato che le carenze delle misure di sostegno al reddito del nostro sistema di welfare sono da anni sotto gli occhi di chi vuol vedere (o leggere: ad esempio, le periodiche edizioni del “Rapporto sullo Stato sociale” elaborato annualmente presso il Dipartimento di Economia Pubblica della “Sapienza”).

Fatta pari a 100 la spesa sociale procapite della media dell’Unione europea a 15, il dato italiano, dopo una riduzione di 7 punti negli ultimi dieci anni, è arrivato a 75. Se si fanno confronti omogenei, il divario è sensibilmente superiore a quello che emerge dai dati ufficiali.

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economiaepolitica

Le virtù della rigidità

Francesco Garibaldo

Operai al lavoroIl Financial Times del 22 Febbraio ha ospitato un articolo del professor Paul de Grauwe dell’Università di Lovanio che sin dal titolo - la flessibilità cede il passo alle virtù della rigidità - indica un cambio di paradigma. La argomentazione piena di buon senso e chiarezza dovrebbe aprire una riflessione critica anche in Italia dove dobbiamo ancora sorbirci l’ennesima predica del professor Pietro Ichino sul Corriere della Sera del 23 Febbraio -  è finito il tempo del “ma anche”.

De Grauwe in sintesi spiega che in una deflazione da debiti, come quella in corso, se le istituzioni sociali sono troppo flessibili – ad esempio le imprese possono licenziare facilmente e tagliare i salari senza indugi – gli effetti negativi saranno ampliati a dismisura perché le insolvenze si aggiungono una sull’altra senza freni, dato che la spinta alla pauperizzazione di vaste masse di lavoratori non trova freni. In tali circostanze sono necessari degli “interruttori” che siano in grado di fermare la spirale perversa, frenando il meccanismo cumulativo. Ebbene – udite, udite -i paesi con salari rigidi, buona sicurezza occupazionale sociale sono più favoriti perché la deflazione da debiti trova un pavimento su cui fermarsi, insomma la società non può impoverirsi oltre un certo livello e, aggiungo io, le aziende sono costrette più rapidamente ad aggiustamenti strutturali, piuttosto che scaricare il costo per intero sul lavoro.

Questa riflessione, di solare evidenza, cosa suggerisce sul tipo di rapporto tra Capitale e Lavoro  che le presenti circostanze richiederebbero? La risposta quasi naturale è: un miglior bilanciamento dei rapporti di forza che sbarri la strada al Capitale verso la sua naturale tendenza a scaricare sul Lavoro il costo dell’aggiustamento, tendenza facilitata dall’oggettivo ricatto sui lavoratori che la crisi comporta.

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rassegna sind

 

Nell'inferno del nuovo caporalato

Apartheid sul lavoro

di Alessandro Leogrande*

Una moderna schiavitù sta diventando funzionale ai bisogni delle società occidentali. Nei luoghi di segregazione i migranti sono controllati da padroni pronti a punire ogni tentativo di fuga. I caporali stranieri hanno preso il posto dei caporali italiani

(Da Il Mese di febbraio 2009) Oggi non è più una forzatura giornalistica parlare di schiavi del lavoro. Sono le direzioni distrettuali antimafia di molte città italiane, da Nord a Sud, a farlo. Sono alcuni dei nostri migliori magistrati che operano nell’ombra, lontani dalle inchieste sugli intrecci tra politica & affari, sui Ricucci e sui Romeo, a dirci che il reato di “riduzione in schiavitù” si sta pericolosamente estendendo nel mondo del lavoro. Le vittime sono lavoratori stranieri: quasi sempre stagionali dell’Europa dell’Est che costituiscono l’ultimo anello, il più povero, della catena migratoria dai loro paesi; o sans papiers enormemente ricattabili perché “clandestini” e quindi avviati verso un sottobosco di emarginazione legale che produce emarginazione sociale. Siamo di fronte a un nuovo apartheid, ai bordi della società e del mondo del lavoro. Il primo sfruttamento che subiscono i nuovi schiavi è esercitato da caporali, spesso della loro stessa nazionalità, anch’essi stranieri. Sono storie di miseria, violenza, degrado, brutalità quelle che le inchieste della magistratura rivelano. Ed è impressionante notare come, in una conversazione intercorsa tra due caporali polacchi operanti nel foggiano, e intercettata dai carabinieri, i due interlocutori si chiamassero – scherzando – “kapò”. A loro modo avevano tradotto la parola italiana “caporale” in “kapò”, e la utilizzavano tranquillamente per definire il proprio lavoro... Tuttavia, nel descrivere questo sottomondo che si sta estendendo, non bisogna lasciare il minimo spazio a interpretazioni xenofobe. Queste storie non si ripetono perché i loro attori sono “stranieri”; bensì perché – in una società come la nostra, in cui gli ultimi sono non-italiani - è proprio nel sottomondo delle migrazioni più deboli, privo di diritti e argini materiali, che ritorna il medioevo lavorativo. Pochi criminali fanno soldi sulla fatica e sul sudore di tanti altri, ma ciò che va messa in luce è una domanda più profonda: a chi giova tutto questo?

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L'errore di puntare sui Fondi pensione

Felice Roberto Pizzuti

La crisi economica e finanziaria, più che rattoppi alle politiche previdenziali affermatesi negli ultimi decenni, dominati dall’eccessiva fiducia nei mercati e dall’illusionismo finanziario, ne impone un profondo ripensamento. Il ruolo essenziale va lasciato alla previdenza pubblica: quella complementare può essere, appunto, solo accessoria

Come era inevitabile, la profonda crisi finanziaria in atto in tutto il mondo sta manifestando i suoi effetti distruttivi di risparmio anche sui bilanci dei Fondi pensione privati.

In Italia, oramai da diversi mesi, i dati  progressivamente resi noti dai Fondi, dalle associazioni di categoria e dalla Covip segnalano che il confronto tra i rendimenti offerti dalla previdenza complementare e quelli maturati dal Tfr lasciato in azienda volge a favore di questi ultimi. Nel corso del 2008, la media ponderata dei rendimenti maturati da tutti i comparti operanti nell’insieme dei Fondi negoziali (gestiti da rappresentanti delle imprese e dei lavoratori) è stata negativa; e stato annullato il 5,9% del risparmio previdenziale ad essi affidato. I risultati dei Fondi aperti (gestiti da istituti finanziari), che si affidano maggiormente agli investimenti azionari e comunque più rischiosi, registrano una perdita superiore, pari all’8,6%. Il Tfr lasciato nelle aziende si è invece rivalutato del 3,1% (2,7% al netto del prelievo fiscale). Se dai dati medi si passa a quelli dei singoli comparti di ciascun Fondo, mentre i più prudenti  registrano risultati positivi (ma solo quelli “garantiti” e non tutti), le linee che includono investimenti azionari hanno raggiunto perdite massime del 28% tra i Fondi negoziali e del 39% tra i Fondi aperti.

A fronte di questi dati, diversi commentatori e operatori del settore della previdenza complementare si soffermano sulla considerazione che, nonostante i terribili andamenti dei mercati finanziari, l’adesione ai Fondi pensione risulta ancora conveniente perché consente ai lavoratori di acquisire i contributi aziendali e i vantaggi fiscali che invece non avrebbero lasciando il Tfr in azienda.

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Il valore reale del lavoro non c'è più

Massimo Roccella*

Il modello contrattuale doveva essere riformato per affrontare una situazione che, da più parti, veniva definita in termini di «emergenza salariale», ma evidentemente l'obiettivo, strada facendo, dev'essere stato perso di vista o forse i firmatari dell'accordo hanno ritenuto opportuno mutarlo senza darsi la pena di avvertire esplicitamente del cambiamento di rotta. Alla fine, tuttavia, non si può dire che essi non siano stati sinceri, se è vero che l'accordo quadro siglato a Palazzo Chigi sancisce che «obiettivo dell'intesa è il rilancio della crescita economica, lo sviluppo occupazionale e l'aumento della produttività», senza neanche un cenno all'esigenza di difendere (non diciamo di incrementare) il valore reale dei salari. Vero è che sviluppo economico e crescita occupazionale dovrebbero essere sostenuti da una «efficiente dinamica retributiva»: che però è concetto ambiguo, sicuramente non omologabile a quello di difesa del potere d'acquisto dei salari. Dal punto di vista delle imprese, ad esempio, la dinamica retributiva potrebbe apparire efficiente quanto più contribuisca a mantenere basso il costo del lavoro; altri potrebbe aggiungere che la compressione salariale è una necessità ineludibile se si vuol sperare in un incremento dell'occupazione.

Andiamo al merito. Al contratto collettivo nazionale si attribuisce la «funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore». Non si dice però quale sia il livello del trattamento certo o, per meglio dire, non si esplicita con la dovuta chiarezza che d'ora in avanti si firmeranno contratti nazionali che non garantiranno neppure l'obiettivo minimo della salvaguardia del potere d'acquisto. I salari, anzi, a livello nazionale dovranno essere negoziati sulla base di un parametro previsionale (elaborato da un fantomatico soggetto terzo, che l'accordo neppure ha individuato) depurato della cosiddetta inflazione importata, legata alle variazioni dei prezzi dei beni energetici, e dunque a priori non coincidente con il tasso d'inflazione effettiva; perché l'indice previsionale sarà applicato non sull'intera retribuzione, ma su un valore convenzionale da individuarsi, a quanto pare, nei singoli settori.