La controversia sull’imperialismo e l’accumulazione del capitale tra Rosa, Nikolaj e Ilič
di Eros Barone
Si tratta di vedere non soltanto i contrasti, ma anche l’unità. Nelle crisi questa unità si afferma con forza elementare, mentre secondo Rosa Luxemburg quest’unità è assolutamente impossibile. In altri termini: nel capitalismo Rosa Luxemburg cerca delle contraddizioni superficiali, logico-formali, che non siano dinamiche, che non si sopprimano, che non siano elementi di un’unità contraddittoria, ma neghino invece recisamente questa unità. In realtà abbiamo a che fare con contraddizioni dialettiche che sono contraddizioni di una totalità, che si sopprimono periodicamente e si riproducono costantemente, per fare poi esplodere l’intero sistema capitalistico in quanto tale solo a un determinato livello dello sviluppo, ossia per annientare insieme a sé anche il tipo precedente di unità,
Nikolaj I. Bucharin
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L’origine e il significato dell’Accumulazione del capitale di Rosa Luxemburg
L’interesse di Rosa Luxemburg verso i problemi dell’accumulazione capitalistica nacque dalle difficoltà concettuali che ella riscontrò nell’esporre gli schemi marxisti della riproduzione allargata, allorché era impegnata nella stesura di un manuale popolare di economia politica nel periodo a cavallo tra il primo e il secondo decennio del ’900.
Come è noto, nella Terza Sezione del II volume del Capitale Marx delinea in primo luogo il processo della riproduzione semplice, in cui non esiste accumulazione, secondo il seguente schema, laddove I è il settore che produce i mezzi di produzione e II quello che produce i mezzi di consumo:
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C₁ + V₁ + pv₁ = P₁
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C₂ + V₂ + pv₂ = P₂
Affinché il sistema economico prosegua di anno in anno senza scosse è necessario che P₁ = C₁ + C₂ e P₂ = V₁ + V₂ + pv₁ + pv₂. Da queste due equazioni è facile ricavare la terza che caratterizza gli scambi fra i due settori:
V₁ + pv₁ = C₂.
Lo schema della riproduzione semplice è chiaramente un’astrazione funzionale per meglio intendere il processo reale in cui l’accumulazione è, al contrario, un fenomeno costantemente attuale. Infatti, se si suppone che il plusprodotto (ossia il plusvalore) di I e di II cresca sino a consentire l’aumento del capitale investito, l’incremento del plusvalore dovrà distribuirsi fra C, V e pv dei due settori in maniera tale da realizzare la suddetta eguaglianza V₁ + pv₁ = C₂. Affinché l’accumulazione si verifichi, è però necessario che all’inizio dell’anno il prodotto complessivo sociale sia tale che:
P₁ > C₁ + C₂
P₃ > V₁ + V₂ + pv₁ + pv₂
e quindi
V₁ + pv₁ > C₂.
Ad esempio, utilizzando uno degli schemi di Marx, 1 sia la situazione iniziale la seguente:
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4000 C₁ + 1000 V₁ + 1000 pv₁ = 6000 P₁
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2000 C₂ + 500 V₂ + 500 pv₂ = 3000 P₂
6000 C + 1500 V + 1500 pv = 9000 P
Si tratta dello schema della riproduzione semplice, il presupposto del quale è che I (V₁ + pv₁), ossia la somma dei redditi (salari + plusvalore) realizzati nel settore I, sia uguale a C₂, ossia al capitale costante del settore II. Questo perché II, dove vengono prodotti i mezzi di consumo, deve riacquistare da I il proprio capitale costante logorato, scambiandolo con un valore equivalente di mezzi di consumo richiesti da I. Quindi si verifica che 1000 V₁ + 1000 pv₁ = 2000 C₂.
Ecco invece uno schema di partenza per una riproduzione allargata:
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4000 C₁ + 1000 V₁ + 1000 pv₁ = 6000 P₁
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1500 C₂ + 750 V₂ + 750 pv₂ = 3000 P₂
5500 C + 1750 V + 1750 pv = 9000 P
In questo schema l’identità di cui sopra si realizza soltanto se 500 pv nel I vengono risparmiati e destinati all’acquisto di nuovo capitale costante e variabile che si distribuisce nei due settori. Marx effettua una serie di calcoli per esemplificare questo processo che è progressivo. In generale, dunque, nello schema della riproduzione allargata formulato da Marx non può aversi accumulazione se, come si è mostrato in precedenza, la somma dei redditi del settore in cui si producono mezzi di produzione non è superiore al valore del capitale costante impiegato nel settore in cui si producono mezzi di consumo.
«La realtà dell’accumulazione capitalistica esclude quindi che C₂ = V₁ + pv₁. Tuttavia anche nell’accumulazione capitalistica potrebbe verificarsi il caso che, in conseguenza dello svolgimento del processo di accumulazione compiuto nella precedente serie dei periodi di produzione, C₂ non diventasse soltanto uguale, ma addirittura maggiore di V₁ + pv₁. Con ciò si costituirebbe una sovrapproduzione del II che potrebbe essere rimossa soltanto con un grande crack in seguito al quale del capitale di II si riversasse su I». 2 Per concludere, è opportuno ribadire, sottolineando il significato che assume per Marx l’analisi del processo di riproduzione e di circolazione del capitale complessivo sociale, che in virtù di esso nel modo di produzione capitalistico sono inevitabili forti squilibri.
«… l’equilibrio esiste soltanto nell’ipotesi che l’ammontare di valore degli acquisti unilaterali e l’ammontare di valore delle vendite unilaterali coincidano. Il fatto che la produzione di merci sia la forma generale della produzione capitalistica, implica già la funzione che il denaro assolve in essa non soltanto come mezzo di circolazione ma come capitale monetario e produce determinate condizioni, peculiari a questo modo di produzione, della conversione normale, e quindi dello svolgimento normale della riproduzione, sia su scala semplice che su scala allargata, che si trasformano in altrettante condizioni di svolgimento anormale della riproduzione, in possibilità di crisi poiché l’equilibrio stesso, dato il carattere primitivo di questa produzione, è un caso. […] L’offerta continuativa di forza-lavoro da parte della classe operaia in I, la ritrasformazione di una parte del capitale-merce di I in forma di denaro del capitale variabile, la sostituzione di una parte del capitale-merce di II con elementi naturali del capitale costante C₂, tutti questi presupposti necessari della riproduzione si condizionano reciprocamente, ma si attuano mediante un processo molto complicato comprendente tre processi di circolazione che procedono indipendentemente l’uno dall’altro ma si intrecciano reciprocamente. La complessità del processo stesso offre anch’essa molti motivi per uno svolgimento anormale.» 3
Così Marx. Vediamo ora come si pone il problema per la Luxemburg, la quale osserva che se è ovvio che l’accumulazione di II dipende da quella di I e viceversa, e che, quindi, devono essere osservate determinate proporzioni nell’accumulazione di entrambi e nella spesa dei rispettivi capitalisti, tali da consentire l’equilibrio del ricambio complessivo, non ne deriva affatto che basti osservare tali proporzioni affinché sia assicurata la continuità automatica dell’accumulazione: è pure necessario che si attui un aumento delle domande solvibili di merci. E questa maggior domanda da dove proviene? Non dal consumo dei capitalisti perché in tal caso si avrebbe consumo improduttivo e non accumulazione; non dagli operai che, acquistando i mei di consumo, restituiscono ai capitalisti solo le somme di salari precedentemente ricevute e non un soldo di più. D’altro lato, se si accetta come valido lo schema di Marx ne deriva che il fine dell’accumulazione appare essere l’aumento della produzione per l’aumento della produzione, e l’accumulazione si trasforma, per dirla con la Luxemburg che usa questa immagine per criticare Tugan-Baranovskij, esponente del “marxismo legale”, in «una instancabile giostra a vuoto», un assurdo inseguimento della sempre maggior produzione.
Del resto, che le pagine dedicate da Marx all’accumulazione fossero solo un abbozzo, non solo è detto espressamente dal suo collaboratore ed editore, Engels, ma emerge anche dal fatto che gli schemi non tengono conto dell’aumento di produttività del lavoro e quindi della diminuzione del valore unitario delle merci e dell’aumento relativo del capitale costante rispetto al capitale variabile. In effetti, se il rapporto V/C muta costantemente nei due settori, la realizzazione delle anzidette proporzioni diventa quanto mai problematica, non essendo affatto garantito che il sistema dei prezzi soddisfi le esigenze tecniche della produzione e viceversa. Ma non basta: a confermare l’insufficienza degli schemi della riproduzione allargata è Marx stesso, quando sottolinea la contraddizione fondamentale del capitalismo fra l’espansione delle forze produttive e la base ristretta dei rapporti di consumo. Con ciò l’unica interpretazione corretta degli schemi della riproduzione allargata di Marx diventa la seguente: l’accumulazione del capitale è impossibile in una società capitalistica pura (quale è quella ipotizzata da Marx) costituita solo da capitalisti e operai. L’accumulazione è concepibile a condizione che vi sia una domanda integrativa di acquirenti che non siano né capitalisti né operai.
Orbene, partendo da questo punto di vista il problema della realizzazione del plusvalore si chiarisce: la produzione capitalistica può fare assegnamento su acquirenti non capitalisti (siano essi i produttori indipendenti, artigiani e contadini, sopravvissuti nella società moderna, siano invece paesi che si trovano in condizioni economiche precapitalistiche), cioè su un mercato che non solo consente la realizzazione del plusvalore ma offre anche le materie prime e la forza-lavoro necessarie all’allargamento della produzione stessa. Questa impostazione logica (che esprime il «nudo contenuto economico del rapporto») va però verificata concretamente come «processo storico dello sviluppo del capitalismo sull’arena mondiale, in tutto il suo variopinto e mobile atteggiarsi»). 4 Se il capitalismo ha bisogno di un ambiente non-capitalistico, è chiaro che tale ambiente non può essere una società ove lo scambio è assente (economia naturale di tipo feudale o comunistico-primitiva); quindi il capitalismo interviene con la violenza politica, la pressione fiscale e il basso prezzo delle merci per liquidare i residui dell’economia naturale: in Europa le rivoluzioni antifeudali, fuori d’Europa la politica coloniale, ne sono le espressioni storiche. Il fine di tale azione è molteplice: appropriazione di risorse naturali, “liberazione” di forza-lavoro, introduzione ed estensione dell’economia mercantile, separazione dell’agricoltura dall’artigianato.
L’accumulazione capitalistica mira a sostituire dovunque l’economia mercantile all’economia naturale e la produzione capitalistica alla semplice economia mercantile. Ma nel momento in cui la produzione capitalistica ha assorbito l’intera vita economica di tutti i paesi, il capitale entra in un vicolo cieco perché «l’accumulazione diventa impossibile: la realizzazione e capitalizzazione del plusvalore si trasforma in un problema insolubile. Nel momento in cui lo schema marxiano della riproduzione allargata corrisponde alla realtà, esso segna la fine, il limite storico del movimento dell’accumulazione, il termine della produzione capitalistica. L’impossibilità dell’accumulazione significa, dal punto di vista capitalistico, l’impossibilità di un’ulteriore espansione delle forze produttive e perciò la necessità storica obiettiva del tramonto del capitalismo. Di qui il moto contraddittorio della fase ultima, imperialistica, come conclusione della parabola storica del capitale». 5
Dunque la fase imperialistica del capitalismo è quella della industrializzazione ed emancipazione in senso capitalistico delle precedenti zone di investimento del capitale, in cui si svolgeva la realizzazione del suo plusvalore. Tratti caratteristici di tale fase sono i prestiti internazionali, la costruzione di ferrovie, la rivoluzione e la guerra, visti dalla Luxemburg proprio come mezzi per trarre alla luce il giovane capitalismo delle nazioni economicamente arretrate. Per contro, a codesta nascita ed espansione del nuovo capitalismo si contrappone la costituzione, mediante il protezionismo e l’abbandono del libero scambio, di aree di caccia riservata «non appena il grande capitale ebbe preso talmente piede nei principali paesi del continente europeo, da porre con urgenza il problema delle condizioni della sua accumulazione. E queste dovevano far passare in primo piano, contro la reciprocità di interessi fra gli Stati capitalistici, il loro antagonismo, la loro concorrenza nella lotta per la conquista dell’ambiente non-capitalistico». 6 In parallelo allo sviluppo del protezionismo – e con esso logicamente connesso – si verifica l’enorme aumento degli armamenti. Infatti il militarismo, oltre ad essere il mezzo con cui si attua la trasformazione violenta del mondo esterno ed interno, ha anche una funzione economica importante per la realizzazione del plusvalore, è un campo di accumulazione. Le imposte prelevate dai lavoratori salariati e da quelli autonomi, in quanto vengono utilizzate dallo Stato nell’acquisto di materiale bellico, creano una domanda di prodotti che non servono né al mantenimento dei lavoratori né a quello dei capitalisti. E con ciò esse forniscono al capitale una ulteriore possibilità di produrre e di realizzare del plusvalore, accrescendo peraltro i mezzi materiali del dominio del capitale stesso.
Ma, conclude la Luxemburg, «con quanta maggiore potenza il capitale, grazie al militarismo, fa piazza pulita, in patria e all’estero, degli strati non capitalistici e deprime il livello di vita di tutti i ceti che lavorano, tanto più la storia quotidiana della accumulazione del capitale si tramuta in una catena continua di catastrofi e convulsioni politiche e sociali, che, insieme con le periodiche catastrofi economiche rappresentate dalle crisi, rende impossibile la continuazione dell’accumulazione e necessaria la rivolta della classe operaia internazionale al dominio del capitale, prima ancora che, sul terreno economico, esso sia andato ad urtare contro le barriere naturali elevate dal suo stesso sviluppo». 7
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La critica di Bucharin alle tesi della Luxemburg
Dodici anni dopo la pubblicazione del saggio di Rosa giungerà, ad opera di Bucharin, una risposta compiuta ed articolata alle tesi della marxista polacco-tedesca. Motivazioni teoriche e politiche caratterizzano, infatti, L’imperialismo e l’accumulazione del capitale. Fra le prime vanno considerate le reazioni negative, comuni anche a Lenin e a Bucharin, che avevano accolto il libro di Rosa: reazioni che però risultavano, sul piano teorico, insufficienti e, per di più, provenivano da personaggi che appartenevano all’area riformista della socialdemocrazia. Le seconde traevano origine dalla lotta contro il “luxemburghismo” che si stava svolgendo sia nel Partito comunista tedesco che in quello polacco, talché Bucharin si rese conto che era indispensabile fare i conti con i fondamenti teorici del “luxemburghismo”. Il testo mantiene tuttora un valore scientifico che gli è stato riconosciuto da tutti i critici della Luxemburg in quanto tributari, in larga misura, delle argomentazioni di Bucharin (fra costoro meritano di essere menzionati marxisti come Paul Sweezy ed economisti eterodossi come Joan Robinson). Tuttavia, benché il libro di Bucharin sia contraddistinto dalla durezza di tono che è propria di un saggio critico-polemico, va detto che l’autore, figura di primo piano del marxismo bolscevico, non nasconde la sua ammirazione per l’opera, non solo politica ma anche teorica, della Luxemburg, come si desume da questo riconoscimento: «Se confrontata con le miserabili chiacchiere dei riformisti di entrambi gli orientamenti [la diade Bernstein-Kautsky] l’opera di Rosa Luxemburg si erge alta come una torre. È stato un ardito tentativo teorico e il frutto di una brillante intelligenza teorica. Non abbiamo certo bisogno di sottolineare che la parte storica del lavoro rappresenta una descrizione, rimasta fino a oggi ineguagliata, delle imprese di conquista coloniale del capitale». 8
Sennonché, come si è visto nel paragrafo precedente e volendo schematizzare al massimo, per comodità espositiva, una problematica complessa, il dilemma attorno al quale ruota la controversia si può così riassumere: possibilità di sviluppo indefinito del sistema capitalistico o, inversamente, necessità del suo crollo economico. Su questa base s’innestano poi altri temi, come quello della natura e delle cause dell’imperialismo, mentre si andava delineando una controversia parallela sulla natura delle crisi. A questo proposito, non vi è dubbio che Lenin sia, nella sua polemica contro il populismo, il più prestigioso esponente marxista della teoria della possibilità dello sviluppo capitalistico e Rosa Luxemburg la più tenace sostenitrice della necessità economica del crollo. 9
L’argomentazione di quest’ultima si basa su due punti: 1) la realizzazione del plusvalore, condizione per l’accumulazione, non è di fatto possibile in una società a due sole classi (capitalisti e proletari), come è quella implicita negli schemi di Marx; 2) le terze persone che forniscono la domanda si trovano all’esterno del modo di produzione capitalistico.
Tutto il primo capitolo del libro di Bucharin è una confutazione degli argomenti della Luxemburg, in cui viene dimostrato, attraverso la ricostruzione degli schemi della riproduzione allargata, come sia possibile che aumenti il consumo degli operai, il consumo dei capitalisti e il capitale costante della società, e come sia data, prescindendo «da una serie di momenti essenziali, specificatamente capitalistici, ad esempio dalla circolazione monetaria», 10 «la possibilità di un equilibrio tra le differenti parti della produzione sociale da un lato, e dall’altro la possibilità di un equilibrio tra produzione e consumo». 11 Questa prima parte dell’analisi, che trascura il momento del denaro, non si conclude dimostrando che l’equilibrio è raggiunto ma mostra solo «per quale via può avere luogo una riproduzione allargata». 12
Nelle pagine seguenti Bucharin ribadisce ancora una volta la sua critica fondamentale: Rosa Luxemburg non comprende la differenza tra riproduzione semplice e riproduzione allargata, si riferisce alla seconda come se si trattasse della prima e di fatto esclude «sin dall’inizio la riproduzione allargata». Dopodiché, Bucharin osserva ironicamente che, «una volta che si è esclusa la riproduzione allargata all’inizio della propria dimostrazione logica, riesce naturalmente facile farla sparire anche nella sua conclusione, in quanto si tratta soltanto della riproduzione semplice di un semplice errore logico». 13 In altre parole, avendo escluso in partenza la possibilità della “produzione per la produzione”, la conclusione logica che la Luxemburg ne trae è una pura petizione di principio: non vi è dubbio che Bucharin ha qui colto l’essenza dell’equivoco ìnsito nell’Accumulazione. E l’equivoco risulta tanto più curioso se si tiene conto che la Luxemburg aveva giustamente individuato il significato del più rapido aumento del settore dei mezzi di produzione rispetto a quello dei mezzi di consumo.
Il secondo capitolo del libro di Bucharin è dedicato all’introduzione del denaro nella riproduzione allargata. E qui il critico coglie un altro errore della Luxemburg ponendo in rilievo come dalla confusione tra realizzazione e accumulazione, che costituisce l’antecedente di tale errore, si giunga a concepire «il capitalista totale come un capitalista singolo». In sostanza, l’Autrice «ipostatizza questo capitalista totale» e, muovendo dal presupposto secondo cui, se «tutti i capitalisti devono realizzare il loro plusvalore in una sola volta […] essi hanno bisogno di “terze persone”», «non comprende che il processo si svolge per gradi». 14 In effetti, le cose non stanno così, poiché il capitalista collettivo non è la somma aritmetica dei singoli capitalisti e il movimento del capitalista collettivo non è, tanto a livello dell’accumulazione quanto a livello della realizzazione, il semplice risultato di singoli atti. Quindi, ciò che nel capitalista collettivo appare come logico, dal punto di vista del capitalista individuale diventa illogico, e viceversa: ovvero l’aumento della produttività che nel capitalista individuale ha per fine l’accrescimento del plusvalore, nel capitalista complessivo ha per fine sé stesso. Questa differenza non dimostra l’impossibilità dell’accumulazione, ma solo che l’accumulazione si svolge attraverso un processo contraddittorio che fa di essa l’accumulazione capitalistica e non un’accumulazione genericamente intesa. E conduce – come Lenin asseriva – a riscoprire anche sotto questo profilo la reale opposizione fra lo sviluppo delle forze produttive sociali e le barriere che le stesse incontrano sul loro cammino per il fatto di essere asservite al capitalista privato. Se si parte da questo punto di vista, il problema della Luxemburg perde allora consistenza, non è più il problema, ma si risolve nell’altro problema di come la contraddizione si manifesti, di quali siano le sue espressioni fenomeniche ed in quali punti del processo di riproduzione e ridistribuzione annua vengano alla luce. Così teoria dello sviluppo e teoria delle crisi marciano di pari passo, essendo le due facce della stessa medaglia.
In definitiva, anche se nella posizione di Bucharin si annida un equivoco – quello secondo cui le crisi possano essere evitate se al capitalismo “concorrenziale” si sostituisce il “capitalismo organizzato”, cioè pianificato - 15 e anche se questa tesi si coniuga con l’altra per cui l’anarchia capitalistica, il non coordinamento dei singoli atti, è la vera causa delle crisi, resta certamente vero che in Marx esiste una chiara concezione del nesso dialettico tra singoli capitalisti e capitalista collettivo.
La parte seguente del libro di Bucharin (soprattutto il terzo capitolo) espone la teoria delle crisi, richiamandosi alle posizioni di Lenin. Qui si può osservare che la polemica contro le tesi “sottoconsumistiche” della Luxemburg cede, almeno in parte, il passo alle critiche verso Tugan-Baranovskij: evidentemente anche Bucharin avverte l’esigenza di definire teoricamente e metodologicamente il significato degli schemi marxiani per evitare che da essi si possa giungere a dedurre, come ha fatto l’economista ucraino, persino la possibilità di uno sviluppo equilibrato e indefinito del capitalismo. Il consumo, che sino ad allora creava pochi problemi, acquista pertanto un peso maggiore e la tesi che Bucharin formula, in coerenza con la sua concezione del “capitalismo organizzato”, è la seguente: «Le crisi risultano dalla disproporzionalità della produzione sociale. Il momento del consumo costituisce però un elemento di questa disproporzionalità». 16
L’ultimo capitolo del libro di Bucharin è quello in cui vengono criticate le tesi sull’imperialismo. L’interpretazione delle radici economiche dell’imperialismo è quella classica, che connette la nuova fase al sorgere del capitale finanziario e alla caduta del saggio di profitto. Bucharin rimprovera alla Luxemburg una visione ‘general-generica’, affermando che «i tratti specifici di un’epoca storica specifica e delimitata in lei scompaiono, coperti dalle considerazioni generali sull’espansione del capitalismo. 17 Egli, dal canto suo, rileva che se le “terze persone” debbono essere gli acquirenti, queste “terze persone” debbono anche vendere (e perciò rientrano, per questo verso, nella sfera inerente alla produzione), 18 e che se il capitalismo deve crollare per la mancanza di “terze persone”, «le prospettive della rivoluzione sarebbero veramente pessime», 19 per l’immenso numero di “terze persone” ancora esistenti. La conclusione del lavoro di Bucharin è quindi anche immediatamente politica: il “luxemburghismo” non porta a conclusioni operative conseguentemente rivoluzionarie «ma, al contrario, a conclusioni che fanno apparire la rivoluzione impossibile per lungo tempo». 20
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Il problema delle classi medie in Marx
Va detto che, molto probabilmente, tanto la Luxemburg quanto Bucharin hanno frainteso il significato dello schema del “capitalismo puro” in Marx. A questo proposito, giova richiamare un articolo di Andrea Ginzburg in cui questo autore ha affrontato tale argomento proponendo una interpretazione di Marx che mantiene ancor oggi una piena validità. 21 Secondo Ginzburg la questione della riduzione, a due sole classi, del sistema capitalistico delineato da Marx è stata fraintesa da Claudio Napoleoni (ma anche dalla Luxemburg e da Bucharin), i quali hanno confuso il problema della teoria del valore e della distribuzione con quello della realizzazione. Osserva, appunto, Ginzburg che, per quanto concerne l’origine del plusvalore, «è del tutto irrilevante sapere se, e come, esso si suddivida fra le classi per qualche motivo intitolate a percepirne una parte», 22 e quindi è necessario ridurre la società a due classi; per quanto concerne invece la realizzazione del plusvalore l’esistenza di altre classi non solo non è negata da Marx, ma è vista come necessaria. Parimenti, è vero, come rileva Lucio Colletti, che l’importanza che Marx ha attribuito al consumo «resta da valutare sulla base e nel quadro della sua affermazione, mille volte ripetuta, che la logica del capitalismo è la produzione per la produzione», 23 ma è da valutare tenendo distinta la logica dal suo modo di attuarsi.
Del resto, che Marx non si limiti a considerare due sole classi è comprovato dal fatto che tutta la parte sul concetto di lavoro improduttivo in Smith (I volume delle Teorie del plusvalore o Storia delle dottrine economiche) è anche un’analisi delle classi. Che Marx, un po’ prima di Bernstein, avesse affermato che esiste un «costante accrescimento delle classi medie che si trovano nel mezzo, fra gli operai da una parte e i capitalisti e i proprietari fondiari dall’altra, in gran parte mantenute direttamente dal reddito, e che gravano come un peso sulla sottostante base lavoratrice e accrescono la sicurezza e la potenza sociale dei diecimila soprastanti», 24 è naturalmente significativo. Quello che occorre chiedersi è quale posto avessero queste classi nella realizzazione (e, quindi, nelle crisi). A tale proposito, vi è un passo del Capitale di Marx, anch’esso molto significativo, dove si afferma che «allo stato attuale delle cose, la ricostituzione dei capitali impiegati nella produzione dipende soprattutto dalla capacità di consumo delle classi non produttive». 25
Vi è poi un brano del III volume della Storia, la cui attualità è impressionante. Commentando Malthus, Marx afferma che è necessaria una “terza classe di compratori”. Sono i consumatori improduttivi che salvano i capitalisti dalla sovrapproduzione (almeno in parte) «poiché i consumatori improduttivi non solo costituiscono un enorme canale di scarico per i prodotti gettati sul mercato, ma da parte loro non gettano alcun prodotto sul mercato; quindi, per quanto numerosi siano, non fanno concorrenza ai capitalisti, ma rappresentano tutta la domanda senza offerta». Chi sono questi consumatori improduttivi? Ecco la risposta di Marx: in primo luogo, i proprietari fondiari e i loro servitori, anche se «questi rentiers fondiari non bastano a creare una “domanda sufficiente”. Bisogna ricorrere a mezzi artificiali. Questi consistono in forti imposte, in una massa di sinecuristi statali ed ecclesiastici, in grandi eserciti, pensionati, decime per i preti, in un considerevole debito pubblico e, di tanto in tanto, in guerre dispendiose». 26 Naturalmente, sia la Luxemburg che Bucharin conoscevano bene la Storia delle dottrine economiche e ancor più Il Capitale (solo i Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica erano ancora ignoti). È però probabile che non abbiano prestato la dovuta attenzione agli sparsi, ma significativi, brani di Marx sulla funzione del consumo improduttivo. Del resto, la filologia non sostituisce l’analisi economica (anche se può essere di qualche aiuto) e i termini reali della problematica inerente al rapporto tra critica dell’economia politica, analisi delle classi e critica della politica non solo restano aperti, ma costituiscono anche una sfida ineludibile per l’approfondimento del materialismo storico. 27
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L’accumulazione del capitale nell’analisi di Lenin
Le tesi della Luxemburg, esposte qui nelle loro grandi linee, non incontrarono, come è noto, l’approvazione dei teorici più in vista della socialdemocrazia tedesca ed austriaca, i quali attaccarono aspramente il libro. Certo, come ha rilevato lo Sweezy, 28 la motivazione di tali attacchi era squisitamente politica: infatti, la diagnosi pessimistica della Luxemburg circa le possibilità di sviluppo del capitalismo eliminava le basi stesse dell’interpretazione riformista che, partendo dagli schemi della riproduzione, era giunta a due conclusioni, fra loro strettamente connesse: nessun limite esiste al progresso economico capitalistico, salvo la possibilità di crisi causate dalla disproporzionalità intersettoriale; sennonché anche queste ultime, con lo sviluppo del monopolio e l’intervento dello Stato, rappresentano un pericolo sempre minore.
Così la polemica teorica fra Rosa e i suoi critici di destra sulla questione dell’accumulazione del capitale era di fatto un momento della lotta politica delle due ali del movimento operaio. Del resto, l’Anticritica, con cui Rosa risponde soprattutto a Otto Bauer, risente di questo clima più chiaramente che non l’Accumulazione. Ed è tragicamente significativo che si tratti di un testo elaborato in carcere nel 1915 ed edito solo due anni dopo l’assassinio dell’Autrice, assassinio di cui i riformisti ebbero non piccola responsabilità.
Lenin, dal canto suo, era rimasto estraneo alla specifica polemica fra la Luxemburg e i suoi critici. Per la verità, egli si era occupato della questione dei mercati e della ‘realizzazione’ sin dal 1893, partecipando alla polemica dei marxisti russi contro i populisti e, successivamente, discutendo e criticando le posizioni dei cosiddetti “marxisti legali”: 29 si tratta di due fasi molto interessanti del suo pensiero e della politica socialdemocratica russa, la prima impegnata a dimostrare la natura “progressiva” del capitalismo rispetto alle strutture economiche precapitalistiche, la seconda rivolta a combatterne le interpretazioni e gli sviluppi opportunistici.
Innanzitutto, per Lenin gli schemi marxiani della riproduzione allargata non sono affatto insoddisfacenti: essi dimostrano che l’incremento della produzione capitalistica e, quindi, del mercato non dipende tanto dai mezzi di consumo quanto dai mezzi di produzione. Questi ultimi aumentano più rapidamente dei primi, cosicché, entro certi limiti, l’espansione del mercato è indipendente dall’aumento del consumo individuale; ciò non vuol dire che non esista un nesso fra consumo produttivo e consumo individuale, ma esprime lo sviluppo impetuoso delle forze produttive nella società capitalistica. Ed ecco qui il primo punto che pone in luce nettamente la diversità sostanziale del pensiero di Lenin rispetto a quello della Luxemburg. «Lo sviluppo della produzione, – scrive Lenin nel primo capitolo dello Sviluppo del capitalismo in Russia – (e pertanto anche del mercato interno) soprattutto in quanto concerne i mezzi di produzione, sembra paradossale ed è infatti una cosa contraddittoria. È una vera e propria produzione per la produzione, un ampliamento della produzione senza un corrispondente ampliamento del consumo. Ma questa non è una contraddizione della dottrina bensì della vita reale; è precisamente una contraddizione che corrisponde alla natura stessa del capitalismo ed alle altre contraddizioni di questo sistema di economia sociale. E questo ampliamento della produzione senza corrispondente ampliamento del consumo si accorda molto bene con la missione storica del capitalismo e con la sua particolare struttura sociale: la prima è di sviluppare le forze produttive della società; la seconda esclude l’utilizzazione di queste conquiste tecniche da parte della massa della popolazione. Fra le tendenza all’ampliamento illimitato della produzione, propria del capitalismo, e il consumo limitato delle masse popolari (limitato a causa della loro condizione proletaria) esiste una contraddizione evidente». 30
Un analogo concetto Lenin aveva espresso in un suo precedente scritto, Le caratteristiche del romanticismo economico (1897), là dove critica la teoria dell’accumulazione di Sismondi (cap. V). 31 E la Luxemburg lo cita nel capitolo dedicato al Tugan-Baranovskij, polemizzando e riportando testualmente un brano che sottolinea in particolare la preponderanza del settore dei mezzi di produzione e che conclude quasi con le stesse parole del brano sopra riportato. 32 Ciò che però la Luxemburg non sembra comprendere è che l’affermazione di Lenin, «la produzione si crea effettivamente un mercato», non conduce affatto alle conclusioni del Tugan-Baranovskij ed al riconoscimento della legge di Say. Infatti, intervenendo nella polemica fra il Tugan-Baranovskij e il Bulgakov, 33 Lenin osservava che l’illimitato ampliamento del consumo produttivo, dell’accumulazione e della produzione, ha come contropartita la proletarizzazione delle masse popolari che pone limiti molto ristretti all’allargarsi del consumo personale. Ciò implica una contraddizione che gli schemi della riproduzione allargata di Marx confermano, senza peraltro autorizzare a dedurne l’impossibilità del capitalismo.
Emerge a questo punto un’ulteriore differenziazione fra Lenin e la Luxemburg: infatti, mentre per quest’ultima le crisi del capitalismo hanno la loro base nella produzione di merci che non possono essere realizzate, per Lenin tale tipo di ‘spiegazione’ non ha, in realtà, valore esplicativo ma indica soltanto la possibilità di una crisi. Basti citare a questo proposito un passo del VII capitolo dello scritto summenzionato, Le caratteristiche del romanticismo economico: «Sismondi dice: le crisi sono possibili perché il fabbricante non conosce la domanda, esse sono necessarie perché, nella produzione capitalistica, non può esistere equilibrio fra produzione e consumo (ossia non può essere realizzato il prodotto). Engels dice: le crisi sono possibili, perché il fabbricante non conosce la domanda; esse sono necessarie, ma certo non perché il prodotto non può essere realizzato, il che è sbagliato. Il prodotto può essere realizzato. Le crisi sono necessarie perché il carattere collettivo della produzione entra in contraddizione col carattere individuale della appropriazione». 34
E, cosa curiosa, la teoria delle crisi come sottoconsumo che ai populisti serviva per negare la realtà dello sviluppo capitalistico e suggerire soluzioni “romantiche”, in Rosa Luxemburg diventa invece, in un certo senso, il metro per datare il crollo del capitalismo. Anche per Lenin l’imperialismo è capitalismo morente, ma non in quanto sarà spazzato dalla grande crisi di sottoconsumo, bensì in quanto «i rapporti di economia privata e di proprietà privata formano un involucro non più corrispondente al contenuto, involucro che deve andare inevitabilmente in putrefazione qualora ne venga ostacolata artificialmente l’eliminazione, e in stato di putrefazione potrà durare un tempo relativamente lungo (nella peggiore ipotesi, nella ipotesi che per la guarigione…del bubbone opportunistico occorra molto tempo!), ma infine sarà fatalmente eliminato». 35
La differenza fra le due posizioni è rilevante agli effetti della visione politica generale: infatti, mentre per un verso la Luxemburg è un’accanita sostenitrice della funzione decisiva dell’azione politica cosciente della classe operaia, sotto il profilo qui esaminato la sua impostazione contiene tutti gli elementi del fatalismo economico. Tale contraddizione, assente in Lenin, deriva da un eccessivo schematismo teorico che l’aveva portata a ipostatizzare quale essenza della crisi un determinato aspetto della crisi stessa, mentre le sfuggiva quel suo strato più profondo il cui riconoscimento permetteva, invece, a Lenin una assai maggior lucidità e capacità dialettica.
Ma non è questa la sola contraddizione, giacché Rosa Luxemburg concorda con Kautsky e con Lenin nel negare l’esistenza di una teoria marxista del crollo ‘naturale’ del capitalismo e di una legge dell’impoverimento crescente (al riguardo, è strano che, ridiscutendo codeste pseudo-teorie, ci si sia spesso dimenticati sia della polemica tra Kautsky e Bernstein a cavallo tra il XIX e il XX secolo, sia della netta presa di posizione di Lenin in materia). Ciò nondimeno, le sue tesi sulla realizzazione del plusvalore e sulla compressione dei consumi operano esattamente nella direzione opposta. 36 Infine, nel quadro dell’imperialismo tracciato dalla Luxemburg, il fenomeno della concentrazione del capitale non ha che un posto secondario o irrilevante: si parla dei monopoli unicamente in una breve nota ove cartelli e trust diventano nulla più di «manifestazioni specifiche della fase imperialistica sul terreno della lotta di concorrenza interna fra gruppi capitalistici per la monopolizzazione dei campi di accumulazione esistenti e per la suddivisione del profitto». 37
L’iniziale distorsione agisce anche qui, sino al punto di impedirle di vedere la funzione decisiva della concentrazione capitalistica, ridotta a mero fenomeno laterale del problema della realizzazione. Come e quanto tale posizione diverga da quella di Lenin merita di essere posto in evidenza con la citazione di un notissimo brano dell’Imperialismo: «L’imperialismo sorse dall’evoluzione e in diretta continuazione delle qualità fondamentali del capitalismo in generale. Ma il capitalismo divenne imperialismo capitalistico soltanto ad un determinato e ormai alto grado del suo sviluppo, allorché alcune qualità fondamentali del capitalismo cominciarono a mutarsi nel loro opposto, quando pienamente si affermarono e si rivelarono mi sintomi del trapasso a un più elevato ordinamento economico e sociale. In questo processo vi è di fondamentale, nei rapporti economici, la sostituzione dei monopoli capitalistici alla libera concorrenza». 38
In merito poi al significato teorico e metodologico degli schemi di Marx, occorre aggiungere che il ragionamento e la conclusione cui perviene la Luxemburg sono, anche in questo caso, fondati su una petizione di principio. 39 Negli schemi di Marx si presuppone che i rapporti di valore siano anche specchio fedele dei rapporti tecnici e ciò è legittimo per il fatto che, trattandosi di esempi di un ragionamento astratto, l’espressione di valore è di per sé un’espressione anch’essa astratta. Quindi nulla vieta di costruire uno schema nel quale (mantenendo le ipotesi di Marx e facendo variare la composizione del capitale) i rapporti di proporzionalità non siano compromessi. Insomma, gli schemi esemplificativi di Marx, espressi con determinati rapporti numerici, esemplificano una data ipotesi, con altri rapporti un’altra ipotesi. Lo schema della Luxemburg esemplifica il caso in cui non esiste proporzionalità, ma con ciò non dimostra alcunché che non sia già contenuto nell’assunto. Come scriveva Lenin nella già menzionata Nota sul problema della teoria dei mercati, «da soli gli schemi non possono dimostrare nulla; possono solo illustrare un processo, quando i singoli elementi di questo processo sono stati spiegati teoricamente». 40
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Una lunga controversia, una Rosa profumata ma con molte spine
La discussione sul libro della Luxemburg si riapre, all’interno della sinistra del movimento operaio, quasi un decennio dopo la pubblicazione dell’Accumulazione, con l’edizione postuma dell’Anticritica (1921) e con la traduzione in lingua russa dell’una e dell’altra opera (1921-1922). In realtà la discussione non poteva ulteriormente tardare da quando il Partito Comunista Tedesco aveva fatto sua la teoria di Rosa Luxemburg e da quando autorevoli teorici di altri partiti comunisti, come György Lukács, si muovevano, almeno in una certa fase, su una linea analoga. Gli anni 1923 e 1924 videro anche in URSS un vasto dibattito fra i critici e i sostenitori – con o senza riserve – dell’Accumulazione. Fra i primi il più importante è, come si è visto, Nikolaj Bucharin, i cui articoli, raccolti poi in un volume, davano risalto proprio a ciò che nella Luxemburg rimane in ombra: l’importanza decisiva del processo di concentrazione del capitale per la corretta interpretazione dell’imperialismo.
Alcuni anni dopo Fritz Sternberg riprende (con alcune varianti) la teoria di Rosa Luxemburg nel volume Der Imperialismus (Berlino, 1926), vivamente criticato dai marxisti sovietici. Questo rilancio dell’Accumulazione e la ripresa della discussione teorica ebbero un séguito in Germania e in Francia con epitomi divulgative del ‘magnum opus’. Nel 1929 vede la luce Das Akkumulations- und Zusammenbruchsgesetz des Kapitalistichen Systems 41 di Henrik Grossmann, in cui la tesi della Luxemburg viene rovesciata: il sistema capitalistico è destinato alla rovina non per l’impossibilità di realizzare il plusvalore, ma per l’insufficienza della massa del plusvalore stesso. Il Grossmann giunge a questo risultato servendosi degli schemi utilizzati da Otto Bauer nel 1912-1913 contro la Luxemburg. Anche qui gli schemi sono assunti come “dimostrazioni”.
Con il libro di Grossmann si può dire terminata (come scrive lo Sweezy) la discussione teorica fra marxisti sul dilemma “crollo o sviluppo”. Di lì a poco il nazismo avrebbe preso il potere in Germania. Nel frattempo l’interesse della letteratura marxista sovietica si andava concentrando, come era naturale, quasi esclusivamente sulle questioni della costruzione del socialismo. Gli anni posteriori al 1945 troveranno quindi i partiti della classe operaia, nei paesi occidentali, scarsamente attrezzati nelle premesse teoriche generali e perciò anche in difficoltà nel diagnosticare le moderne tendenze dell’economia capitalistica. Ciò spiega inoltre come mai abbiano potuto riprendere voga le pseudo-leggi dell’impoverimento crescente e del crollo meccanico del capitalismo assieme alla teoria del sottoconsumo, cui ha fatto séguito la controffensiva riformistica del neocapitalismo. Come dice Marx, quando la storia si ripete fa sempre la caricatura di sé stessa. I vari Giolitti (mi riferisco non a Giovanni ma al nipote Antonio e agli ambienti della destra riformista, di cui quest’ultimo fu un esponente di primo piano) sono infatti le caricature degli Hilferding, così come non mancano fra gli esponenti degli “estremisti di sinistra” le caricature di Rosa Luxemburg.
Ma la vitalità, la fecondità e la problematicità del lascito teorico e politico della Luxemburg vanno ben oltre i confini di una controversia di stampo ‘prima facie’ accademico e specialistico, poiché esse investono tutte le articolazioni del marxismo: dal modello teorico del Capitale all’applicazione di esso a paesi e sistemi determinati, dall’interpretazione del materialismo storico e del materialismo dialettico alla teoria del socialismo scientifico come teoria del passaggio rivoluzionario dal capitalismo al comunismo (con le relative sotto-teorie del partito, dell’imperialismo, della rivoluzione e della dittatura del proletariato, dell’insurrezione, della questione nazionale ecc.). Ancor oggi le critiche più organiche e penetranti alla teoria luxemburghiana della rivoluzione e dell’organizzazione sono quelle formulate da Lukács, il quale ha peraltro sviluppato anche alcuni fondamentali spunti leniniani, nelle Osservazioni critiche sulla Critica della rivoluzione russa di Rosa Luxemburg, contenute in Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano1967, soprattutto alle pp. 350-355. Lukács collega giustamente la critica dello ‘spontaneismo’ della Luxemburg alla critica della sua visione troppo rigidamente ‘organica’ dello sviluppo storico. Tale spunto critico era già presente nel saggio, caratterizzato prevalentemente dall’adesione, dedicatole un anno prima dell’apparizione del libro che lo rese celebre, cioè nel 1922.
Particolarmente fondati appaiono, nell’ottica dello scrivente, i rilievi di Luciano Amodio circa il sociologismo ed il profondo condizionamento secondinternazionalistico delle posizioni luxemburghiane, rilievi avanzati nella introduzione al volume degli Scritti scelti, Edizioni Avanti!, Milano 1963. Merita poi attenzione la condanna del “luxemburghismo” pronunciata alla Sessione dell’Esecutivo allargato del Comintern del marzo-aprile 1925, condanna inclusa nelle “Tesi sulla bolscevizzazione” dei partiti aderenti all’Internazionale Comunista e reperibile al seguente indirizzo nella Rete: https://www.storiauniversale.it/35-GLI-ERRORI-TEORICI-DELLA-LUXEMBURG-E-DI-ALTRI-COMUNISTI.htm.
Quanto alla sorte dell’opera e delle teorie della Luxemburg nell’epoca staliniana e nell’intreccio delle vicende del movimento operaio tedesco, cfr. M. Hàjek, Storia dell’Internazionale comunista (1921-1935), Editori Riuniti, Roma 1969, cap. II.
Quanto al giudizio di Stalin sulla corrente luxemburghiana, cfr. G. Stalin, Questioni del leninismo, Edizioni in lingue estere, Mosca 1946 ( Feltrinelli reprint), la famosa lettera contro Slutsky alla redazione della «Proletarskaja Revolucija», pubblicata col titolo A proposito d’alcuni problemi della storia del bolscevismo (pp. 383-395).
Una critica marxista-leninista del luxemburghismo può trovarsi in F. Oelssner, Rosa Luxemburg, Edizioni Rinascita, Roma 1953, soprattutto, ad esempio, nella ricerca delle radici filosofiche degli errori della Luxemburg, ravvisate nella mancanza in lei del materialismo dialettico (pp. 159-163).
Quanto infine ad una visione d’insieme dei diversi punti di incontro e di scontro fra Lenin e la Luxemburg sulle questioni dell’organizzazione, sulla questione nazionale, sulla dittatura proletaria in Russia dopo il 1917 ecc., cfr. P. Frölich, Rosa Luxemburg; La Nuova Italia, Firenze 1969, passim. Nell’introduzione all’edizione italiana di tale volume Marzio Vacatello individua e spiega in maniera corretta i limiti della Luxemburg nel confronto con Lenin tanto sulla questione del partito quanto su quella della dittatura del proletariato.
Certo è che persiste ancor oggi la tendenza a presentare la Luxemburg come l’anti-Lenin, ossia come una variante ‘libertaria’ e radicale del movimento operaio, sottolineando del suo pensiero politico alcuni elementi che sono anche i più formali (la rivoluzione come spontaneità, l’avversione verso l’organizzazione centralizzata ecc.), mentre resta in ombra lo sforzo per fare del movimento operaio un grande movimento politico nazionale ed internazionalista. 42 Qui, nella lotta per superare le pastoie economicistiche della socialdemocrazia, sta probabilmente il maggior contributo teorico di Rosa Luxemburg e, da questo punto di vista, diviene più agevole comprendere il significato dell’Accumulazione. Per un altro verso, poi, l’Accumulazione ha importanza, in quanto offre non pochi spunti per un ripensamento in termini marxisti del problema economico della dipendenza, circa il quale vanno perlomeno ricordati alcuni studiosi che hanno fatto tesoro della lezione di Rosa, quali Immanuel Wallerstein, André Gunder Frank e Samir Amin.
Indubbiamente la Cina ha raggiunto un livello di sviluppo industriale rapido e notevole, da impensierire le tradizionali potenze coloniali e imperialistiche, che non riescono a sottometterla. La crescita economica non ha fatto emergere delle chiare oligarchie finanziarie, che si impossessino del potere reale, riducano la classe politica a fantocci e maggiordomi e che poi si coordino a livello internazionale in una piramide feudale subalterna all'impero.
Al contrario le recenti azioni mostrano una classe politica e partitica determinata a non permettere il consolidarsi di squilibrate posizioni di potere finanziaro in mano a pochi gruppi privati in posizione antagonista rispetto allo stato e al partito, per evitare il rischio di finire nella condizione di fantocci come altrove, dove regna il simulacro della democrazia.
È abbastanza normale che i volumi di interscambio aumentino e così i flussi di capitale dato il tasso d'interesse più elevato e la prospettiva di ritorni reali, e l'immane dimensione di capitale fittizio e speculativo che circola per il mondo nel regime di imperialismo del dollaro.
I due nuovi momenti di diversità, che meritano una qualche attenzione, sono rappresentati dal fatto che lo yuan renminbi è l'unica moneta non controllata dall'impero (l'euro è un derivato del dollaro per esempio), e in secondo luogo dall'alleanza con l'Iran, per modificare in parte le modalità di fissazione del prezzo del petrolio e soprattutto per infastidisce sensibilmente il ruolo dei petroldollari.
Tutti elementi tra l'altro che giustificherebbero una guerra verso la quale forse qualcuno non nasconde troppo di volerci andare.
mi limito a esporre dati utili alla discussione, specialmente perché non è la sede questa per parlare d'altro. Quando pubblicherò il mio lavoro, di questo passo tra una ventina d'anni, sui sindacati sovietici, vedere commenti sull'ultima esternazione di Grillo non mi farebbe piacere (e non mi fa piacere in generale, peraltro).
Attenzione ad alcuni punti, che attengono sempre al discorso sul valore, sulle crisi, e sulla riproduzione ampliata (che più che ampliata è ormai gonfiata): muro contro muro valeva quando... c'era il Muro.
1. La RPC partecipa attivamente a gonfiare quel capitale fittizio e speculativo di cui giustamente rilevi le immani dimensioni. La borsa di Shanghai e quella di Shenzhen da un lato, e quella di Hong Kong dall'altro, dividendosi i compiti per tipi di operazioni e investimenti, regnano sovrane per volume di scambi a livello globale.
2. La RPC è il maggior possessore di dollari americani al mondo (3.170 miliardi questo mese). I sovietici fosse crollato il dollaro avrebbero avuto poche remore, almeno fino a metà degli anni Settanta, quando qualche demente pensò di risolvere i problemi di completamento del piano agricolo con acquisti cerealicoli da fuori (anche dagli USA...) usando i petroldollari (e infatti Bajbakov, una vita nel Gosplan (e non da mediano!), ha per questi politici parole di fuoco): loro crolla domani il dollaro si trovano in mano con un pugno di mosche, e non solo quelle.
3. Parliamo ora di debito: 13.000 miliardi di BOT e obbligazioni dei governi locali e private, il terzo mercato al mondo, in mano istituzioni pubbliche e private straniere, prevalentemente in dollari. Il debito pubblico in generale aumenta dal 2008 a un tasso maggiore di quello della crescita, e la pandemia ha fatto il resto (non lo chiamano quantitative easing ma lo è).
4. TANTA, ma TANTA, ma TANTA (...ho già detto "tanta"?) parte dei profitti pubblici e privati, ovvero delle SOE e delle ditte invece private, transitano a mezzo HKG su conti OFF SHORE... e lì diventano talleri a stelle e strisce... e quello è il "nero" (pardon, il "settore informale" dell'economia)! Ogni tanto mi diverto a vedere le fatture che ho sulla scrivania dei container a cui corro dietro... ultimamente va tanto di moda tra i privati Singapore...
Possiamo quindi non solo ipotizzare, ma constatare che L'ESTREMA INTERDIPENDENZA NELLA CATENA GLOBALE DI PRODUZIONE E RIPRODUZIONE DEL VALORE, FINO A USCIRE TOTALMENTE DAI CANONI DEL VALORE E A ENTRARE IN QUELLI DELLA PURA E SEMPLICE SPECULAZIONE, CON BOLLE IN EQUILIBRIO SEMPRE PIU' PRECARIO E PER GIUNTA SEMPRE PIU' COLLEGATE TRA LORO DI MODO CHE SE SCOPPIA UNA... NON SCOPPIA DA SOLA, rende impossibile un reale antagonismo fra i due giganti, che si odiano a morte ma, ahiloro, non possono fare a meno l'uno dell'altro.
Per questo, ma MAGARI E' UNA MIA PIA ILLUSIONE, perché preferirei fare la parete nord dell'Eiger e avere qualcuno che venisse a recuperare fra qualche anno le mie ossa piuttosto che pensare che stiamo andando incontro a questo, un conflitto armato fra Cina e USA, anche solo a livello locale, taiwanese, senza girarci troppo intorno, lo vedo AL MOMENTO lontano.
Potrà essere possibile, da un punto di vista puramente razionale, quando avranno risolto quelle contraddizioni interne tali per cui potranno fare del male l'uno all'altro senza farsi troppo del male da soli, o in una misura sopportabile / sostenibile per entrambi i sistemi.
Nel frattempo, guerre regionali che li vedano sui fronti opposti... a iosa. E già ce ne sono in corso. E forse faranno più danno che un conflitto aperto... ma stiamo già andando fuori tema...
Un caro saluto
Paolo Selmi