Imperialismo, marxismo e questione nazionale
Riflessioni sul pensiero e sulla prassi di Marx e di Lenin
di Eros Barone
La borghesia è sempre in lotta; da principio contro l’aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto col progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri.
Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletariato deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch’esso ancora nazionale, seppure non certo nel senso della borghesia. 1
K. Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista.
1. Una priorità strategica
La questione nazionale ha occupato un posto centrale nel pensiero di Lenin soprattutto a partire dal 1913-1914 in poi, diventando una priorità strategica negli anni della guerra mondiale e, dopo la rivoluzione d’Ottobre, in quelli della costruzione dello Stato sovietico, che coincidono con un nuovo periodo della storia del movimento operaio: il periodo dell’Internazionale comunista. Il concetto di nazione elaborato da Lenin traeva origine, per un verso, dalla categoria storica di Stato nazionale come prodotto dello sviluppo democratico borghese soggetto alle variazioni strategiche della lotta di classe internazionale, categoria messa a punto da Kautsky, e per un altro verso dalla tesi di Marx il quale affermava il carattere condizionato e temporaneo della validità del principio di autodeterminazione delle nazioni in rapporto ai fini dell’internazionalismo proletario e, nel contempo, subordinava il superamento delle differenze e delle rivalità nazionali al progresso del socialismo.
Il primo scritto organico di Lenin sul tema delle nazionalità risale al 1903 2 e contiene un preciso riferimento alla discussione che aveva accompagnato il riconoscimento del diritto di autodeterminazione dei popoli nel paragrafo 9 del programma del POSDR. In questo periodo Lenin impostava la questione nazionale sulla base sia dei conflitti nazionali in atto nell’impero russo sia della lotta contro il regime zarista, mantenendo, sulle orme di Marx, il presupposto della subordinazione di tali conflitti agli interessi della rivoluzione proletaria. Due anni dopo, con la rivoluzione di Pietroburgo, Lenin dichiarava che la questione nazionale aveva ormai assunto una posizione di rilievo tra i problemi della vita sociale russa e che occorreva concentrarsi ancor più sul tema anche per le conseguenze che i conflitti nazionali avevano sull’organizzazione del partito. In questo campo Lenin fu sempre un tenace sostenitore della struttura centralistica unitaria, che egli difese contro tutte le tendenze, diffuse in certe organizzazioni nazionali socialiste della Russia, ad adottare anche per il partito il criterio di una struttura autonomistico-federativa fatta valere per l’assetto delle nazionalità.
Nell’autunno del 1913 il Comitato centrale del POSDR approvò un’importante risoluzione riguardo alla questione nazionale, in cui spiccavano tre punti: a) l’uguaglianza dei diritti di tutte le nazionalità con larga autonomia provinciale e autogoverno locale; b) il diritto di autodeterminazione spinto fino alla separazione per tutti i popoli oppressi dell’impero zarista; c) la distinzione tra questo diritto e l’opportunità di esercitarlo condizionatamente «al punto di vista del progresso sociale nel suo insieme e degli interessi della lotta di classe del proletariato verso il socialismo». 3
È importante tener conto del fatto che in quegli anni Lenin, sviluppando la sua polemica contro le tesi austro-marxiste, 4 si mosse nell’àmbito dell’esperienza dello Stato multinazionale russo, molto diverso da quello austro-ungarico e fortemente segnato da una realtà che non consentiva una soluzione pacifica e riformistica del problema nazionale, ma solo uno sbocco rivoluzionario, cioè l’abbattimento dello zarismo, sbocco per il quale anche i movimenti nazionali separatisti sembravano utilmente sfruttabili. Rifacendosi quindi alle tesi di Marx e di Engels sulle tendenze di sviluppo del capitalismo, Lenin elaborò la “legge generale del capitalismo” con cui individuava nel processo di mondializzazione del sistema capitalistico due effetti contraddittori: uno di carattere dirompente, che derivava dall’impulso centrifugo dei movimenti nazionali di massa; l’altro unificante, connesso alla crescente integrazione economica delle nazioni. 5 Lenin considerò questo fenomeno, in quanto tipico del capitalismo giunto al suo punto estremo di maturazione, come un importante fattore del suo superamento in direzione del socialismo.
Orbene, il programma nazionale del movimento socialista doveva focalizzare l’intreccio di questi effetti e sostenere l’uguaglianza e il diritto di autodeterminazione dei popoli, ma insieme anche il principio internazionalista contro ogni possibile deviazione di nazionalismo particolaristico borghese nell’àmbito della coscienza proletaria. Inoltre, ricalcando anche in questo le orme di Marx, Lenin ribadiva il carattere progressivo dei grandi Stati centralizzati e l’interesse del proletariato a riscattarsi dagli idiotismi di stampo medievale, in quanto la coesione economica di vasti territori offriva le condizioni più favorevoli al dispiegarsi della sua lotta contro la borghesia: la via al socialismo passava, insomma, attraverso le grandi unità statali, quale prodromo alla futura unità socialista dei popoli.
Di qui proviene il dissenso di Lenin rispetto sia alle tesi federalistiche sia alle tesi dell’“autonomia nazionale” (non importa se territoriale o culturale). Ma di qui proviene anche la sua polemica con l’ultrainternazionalismo della sinistra radicale dei Gorter e dei Pannekoek, accusata di cadere nello stesso errore di sottovalutazione dei movimenti nazionali che al tempo di Marx era stato commesso dai proudhoniani. Contro il vizio economicistico ìnsito nel ragionamento di Rosa Luxemburg, Lenin valorizzava le indicazioni di Marx intorno alla relativa autonomia del politico dall’economico, affermando non solo che la fine dell’indipendenza economica non implicava affatto la fine degli Stati nazionali, ma che le guerre di liberazione nazionale continuavano a essere possibili anche nell’età dell’imperialismo, in cui tale fenomeno si era esteso dall’Europa al mondo coloniale. La sostanza della sua controversia con la Luxemburg verteva appunto su questi nodi e vedeva Lenin ribadire la posizione di Marx, che la Luxemburg aveva ritenuto di dover rovesciare: la soluzione del problema nazionale era preliminare alla soluzione del problema di classe.
2. Rivoluzione socialista e diritto di autodeterminazione
Naturalmente, con lo scoppio della guerra mondiale alla divergenza tra i due teorici marxisti subentrerà l’ormai maturata apertura di Lenin alla prospettiva di una rivoluzione generale, coinvolgente le grandi masse contadine dei popoli coloniali. Mentre la Luxemburg si caratterizzava per la sua ottica “occidentalistica”, Lenin attraverso l’analisi dell’imperialismo coglieva la funzione rivoluzionaria (proprio perché antimperialista) delle lotte nazionali dei popoli asiatici, pur nel loro stadio e nella loro componente democratico-borghese. Dal 1914 in poi Lenin collegò strettamente i termini della questione nazionale e coloniale dentro la tematica dell’imperialismo. Nella strategia della rivoluzione mondiale i compiti del proletariato venivano chiaramente definiti, distinguendo i ruoli differenziati della nazione oppressa e di quella dominante. In questa il proletariato doveva lottare contro la propria borghesia nazionale a favore del diritto di autodeterminazione, nel senso della libertà di separazione; nella nazione oppressa doveva battersi, invece, per affermare il medesimo principio nel senso della libertà di unione, secondo lo spirito dell’internazionalismo proletario. Diversamente, in entrambi i casi il proletariato si sarebbe schierato, ciascuno nel proprio paese, a fianco del nazionalismo particolaristico delle rispettive borghesie.
Alla fine di questo processo Lenin concepiva la federazione come una fase puramente transitoria verso l’unità mondiale dei popoli in una società socialista. Su questo punto Lenin fu inflessibile, polemizzando anche con Trotsky a proposito del progetto degli Stati Uniti d’Europa, in quanto privo di qualsiasi base economica. Dopo la rivoluzione d’ottobre Lenin dovette ritornare con insistenza sulla questione nazionale e sul diritto di autodeterminazione, non solo perché a quel punto l’intera problematica era diventata il banco di prova della credibilità del nuovo governo bolscevico, ma anche per rintuzzare l’uso antisovietico che di quel principio facevano le potenze dell’Intesa, incoraggiando tra le nazionalità della Russia le spinte separatiste alimentate dalle forze controrivoluzionarie. 6 Ciò spiega perché nel 1920, al II Congresso dell’Internazionale comunista, Lenin riepilogò le sue tesi sulla questione nazionale, avvertendo ancora una volta che l’internazionalismo non era concretamente realizzabile se non dopo aver soddisfatto le aspirazioni nazionali dei popoli.
In seguito, nel periodo dell’Internazionale comunista, la questione nazionale fu sempre meno un problema interno all’Unione Sovietica e sempre più un problema mondiale, affrontato dai popoli coloniali e semicoloniali: musulmani (Persia, Turchia, Arabia, India) e asiatici (Indonesia ed Estremo Oriente). Solo alla fine di questo periodo, con l’espansione della Germania nazista, il problema si ripropose in Europa per i paesi assoggettati da Hitler. È giusto precisare che, davanti al mutamento del quadro delle tensioni politiche internazionali tra le due guerre mondiali, l’attenzione dell’Internazionale comunista ai movimenti nazionali oscillò tra i due poli dell’Occidente europeo e dell’Oriente asiatico, rimanendo tuttavia sostanzialmente fedele alla linea del pensiero marxista-leninista.
Nel 1913 Stalin pubblicò il saggio sul marxismo e la questione nazionale e coloniale, che resta ancor oggi un importante contributo sull’argomento. Era stato lo stesso Lenin a conferire tale incarico a Stalin, inviandolo a Vienna con il preciso compito di scrivere l’opera Il marxismo e la questione nazionale e coloniale 7 e per fargli conoscere da vicino le manifestazioni concrete delle conflittualità nazionali nell’impero austro-ungarico. Lenin seguì con grande attenzione il lavoro di Stalin, il quale, dal canto suo, sviluppò e applicò nel modo chiaro e coerente che gli era abituale i concetti fondamentali dell’impostazione leniniana. Nel saggio in parola Stalin contestò la teoria austro-marxista delle nazionalità, soprattutto nella versione che ne aveva dato Otto Bauer, col duplice risultato di valorizzare il fattore linguistico tra quelli che determinano i caratteri di una nazione 8 e di fissare la questione nazionale in termini territoriali. La soluzione, riferita alla realtà russa ed articolata con tutti gli opportuni adattamenti alle realtà specifiche, segue la linea maestra indicata da Lenin: autonomie regionali, per raggruppamenti definiti con criteri di classe e non nazionali, e perciò conciliabili con i fini dell’internazionalismo. 9
Nel corso degli anni Venti Stalin tese a sviluppare il nesso leniniano tra questione nazionale e coloniale, unificando entrambe in una “questione generale” che va oltre il quadro interno degli Stati multinazionali per internazionalizzarsi fino a investire tutto il movimento di emancipazione antimperialista delle colonie. Nel definire l’impostazione comunista del problema nazionale Stalin pose l’accento sul nesso organico esistente tra la lotta di liberazione nazionale in Europa e nel mondo afro-asiatico, tale da non rendere concepibile l’una senza la connessione con l’altra. In tal modo il diritto di autodeterminazione poteva riscattarsi da una certa genericità e specificarsi nel significato rivoluzionario del diritto di separazione e di indipendenza statale delle nazioni coloniali ed europee. La crisi del potere capitalistico avrebbe proceduto parallelamente all’affermazione dell’uguaglianza di fatto delle nazionalità, come premessa della solidarietà internazionale dei lavoratori.
Poi tra gli anni Venti e Trenta, intrecciandosi alla polemica sull’alternativa tra “il socialismo in un paese singolarmente preso” 10 sostenuto da Stalin e “la rivoluzione permanente” propugnata da Trotsky, il contrasto ideologico e politico sulla questione nazionale raggiunse la massima asprezza. In particolare, Stalin, rovesciando dialetticamente l’argomentazione del suo avversario con puntuali citazioni dalle opere di Lenin, confutò la validità della parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa proposta da Trotsky e si avvalse di tale confutazione per dimostrare la necessità sia di instaurare il socialismo in un paese singolarmente preso sia di procedere poi negli altri paesi. Nello stesso senso si pronunciò il VI Congresso dell’Internazionale comunista (1928), al momento di approvare il proprio programma. 11
Caduta ogni possibilità rivoluzionaria in Europa, la massima solidarietà andava garantita ai movimenti nazionali in Asia e in Africa, anche giustificando le più ampie alleanze di forze sociali. Ma quando l’espansionismo nazista ripropose in Europa il problema dell’indipendenza nazionale, l’Internazionale comunista la estese all’Europa con la svolta tattica dei “fronti popolari” in cui il proletariato fu spinto a schierarsi con le forze della borghesia democratica nella lotta di liberazione antifascista. 12
3. Complessità e coerenza dell’impostazione marxista e leninista
Una volta appurate sia la complessità che l’originalità del contributo che il pensiero marxista ha portato, a partire da Marx e da Engels 13 e durante l’età leniniana e post-leniniana, al dibattito sulla questione nazionale, vanno, comunque, individuati alcuni temi unificanti che permettono di porre in rilievo una certa organicità sistematica nello svolgimento del dibattito, dell’indagine e delle esperienze che hanno caratterizzato tale contributo. Il concetto di nazione è uno di questi temi. I marxisti lo hanno elaborato in base al punto di vista del materialismo dialettico, attingendo alla formulazione della cultura anglo-francese della prima metà dell’Ottocento (cui aveva attinto, nel corso della sua formazione intellettuale, lo stesso Marx). Il risultato che derivò da questa elaborazione fu quello di riproporre l’idea dello Stato nazionale come “formazione storica contingente”, totalità non omogenea, ma divisa tra gli interessi antagonistici delle classi sociali. Eccezion fatta per l’offuscamento di questa visione classista nella ‘forma mentis’ dei riformisti e, a maggior ragione, dei socialsciovinisti, questo concetto restò saldo anche quando l’influsso del positivismo alimentò una visione evoluzionistica della vita e della storia.
Il nesso tra questione nazionale e rivoluzione socialista è un secondo importante tema unificante, benché quanto mai esposto ai ripensamenti sollecitati dalle tesi revisionistiche. Sennonché, per quel tanto che le teorie marxiste perseverarono nel finalizzare le lotte nazionali agli obiettivi della rivoluzione socialista, è innegabile che esse introdussero una delle innovazioni più significative nel criterio di valutazione del relativo fenomeno, in completa rottura con i canoni dell’ideologia del nazionalismo borghese. 14 La portata di questa rottura diventò ancor più evidente quando si trattò di affrontare la questione nazionale all’interno stesso dell’analisi dell’imperialismo. Ciò avvenne in una congiuntura ideologicamente critica che vide il passaggio dalla crisi del razionalismo positivistico a una cultura irrazionalista e attivistica basata sui miti eroici della potenza, sull’etica del superuomo, sul primato razziale e sul diritto delle nazioni “civilizzate” a dominare l’intero universo “selvaggio”. Combinata con questi elementi, l’idea nazionalitaria fu deformata in un nazionalismo egoistico, aggressivo e prevaricatore, che non conservava più nulla di quello spirito di fratellanza tra i popoli che pure aveva animato i moti liberali ottocenteschi. 15
Il terzo tema unificante è rappresentato dalla ricerca di una sintesi tra il sentimento nazionale e l’internazionalismo, ricerca che è stata sicuramente non solo una delle prove più ardue di coerenza ideologica, ma anche quella in cui meglio si è espressa la inedita peculiarità culturale del marxismo in questo campo di analisi. Qui è l’originalità stessa della nozione di internazionalismo proletario a rendere inconfondibile il modo di definire l’impegno delle grandi masse lavoratrici nelle lotte di liberazione nazionale, ovvero come necessario presupposto della loro reale, e non utopistica, solidarietà internazionale. L’internazionalismo proletario reca in sé un valore nuovo – la fratellanza del proletariato delle varie nazioni – che lo distingue da ogni modello precedente o contemporaneo. Esso è distante dall’internazionalismo europeista di derivazione medievale, basato sulle idee conservatrici della “res publica christiana” e della “Santa Alleanza degli Stati”, così come dalla generica e astratta ispirazione cosmopolitico-umanitaria dell’internazionalismo ottocentesco, di stampo radical-borghese; ma soprattutto è frontalmente antitetico all’internazionalismo capitalistico, fondato sulla solidarietà degli interessi imperialistici del capitale monopolistico. Nell’internazionalismo proletario la questione nazionale trova, invece, una soluzione corrispondente alla visione di un mondo nuovo fondato sulla solidarietà tra i lavoratori e sulla collaborazione tra i popoli: il mondo del socialismo/comunismo.
4. Una coscienza enantiodromica: l’internazionalismo proletario
Naturalmente, resta da chiedersi in che misura questo insieme di messaggi, insieme ideali e prescrittivi, sia stato recepito e sia divenuto operante nel comportamento delle classi lavoratrici. Purtroppo, il riscontro dei fatti non è dei più esaltanti, se non ci si ferma alla cronaca quotidiana 16 e si fanno i conti con i momenti delle scelte decisive, quando il margine di tolleranza delle classi dominanti si restringe o si chiude e diviene ben visibile il tallone di ferro della dittatura borghese. Come la storia insegna, ciò vale in particolare per il periodo della Seconda Internazionale, ossia da quando i partiti operai, diventati partiti di massa, furono oggettivamente investiti di una corresponsabilità nel corso degli avvenimenti. Giudicando in questa materia, è bene però non dimenticare (per comprendere meglio, certo, e non per giustificare) che se il sentimento nazionale ha radici più o meno spontanee nelle masse, e come coefficiente della subcultura popolare è un combustibile facilmente infiammabile da chi detiene l’uso e il controllo degli strumenti di formazione dell’opinione pubblica, tutto il contrario avviene per la coscienza internazionalista, che è il prodotto di una operazione di lungo periodo, che procede controcorrente tra ostacoli, resistenze e regressioni, scontando, specialmente in Italia, il grave ritardo storico della formazione di un partito rivoluzionario del proletariato.
Detto questo, non si deve comunque sottovalutare la gravità del cedimento che vi fu nei partiti e nelle masse operaie davanti all’ondata di isteria nazionalistica che si levò in Europa nel primo quindicennio del secolo XX, a cominciare proprio da quegli imperi multinazionali al cui proletariato si era rivolto il discorso dei teorici marxisti. Certo, sul comportamento delle masse e dei partiti influì la scelta opportunista del movimento operaio organizzato di anteporre l’opportunità tattica delle conquiste graduali della lotta quotidiana ai grandi disegni strategici del socialismo: assorbiti dai problemi della politica interna, nel cui ambito si svolgeva la battaglia riformistica, e condizionati dagli interessi economici delle aristocrazie operaie che aspiravano a dividersi una parte dei sovrapprofitti a esse garantiti dall’imperialismo, i partiti operai smarrirono la dimensione internazionale della causa proletaria e fu più facile che gli antagonismi nazionali finissero col prevalere su quelli di classe. 17
A scanso di equivoci, va precisato che lo sbaglio non fu di non distogliere le masse lavoratrici dalle lotte nazionali, nel nome di un’estraneità o di un’indifferenza che Marx per primo si preoccupò di smentire: 18 lo sbaglio fu quello, piuttosto, di non premunirsi contro il pericolo che la direzione delle lotte nazionali restasse fuori o sfuggisse dalle mani delle forze operaie. Lo scoppio della guerra mondiale colse queste forze in coda e non alla testa dei movimenti nazionali che precipitarono verso le soluzioni imposte dalla guida politica, ideologica e morale di una borghesia più o meno pervasa di mentalità bellicista e di spirito nazionalista. Accadde così che ogni movimento nazionale rincorse il suo obiettivo indipendentistico, supponendo di poterlo ritagliare dal più generale contesto della dissoluzione dei grandi imperi: ne derivò una incontenibile proliferazione di Stati nazionali, senza che nessuno avanzasse un programma concreto di riorganizzazione dei loro rapporti, capace di impedire un’assurda “balcanizzazione” dell’Europa.
In questa vicenda la Russia costituì un caso a sé: qui la questione nazionale fu sciolta nel corso di un processo rivoluzionario storicamente inedito che, sfociando in una Federazione di Stati nazionali socialisti con ampie prerogative autonomistiche, si mantenne in linea con i postulati della teoria leniniana. Ma, per quanto riguarda gli Stati che si costituirono sulle macerie degli imperi austro-ungarico e ottomano, la debolezza delle strutture politiche ed economiche è stata giustamente riconosciuta come la causa originaria della loro incapacità di sopravvivere nelle condizioni di isolata sovranità. Di qui, le convulsioni del dopoguerra e tra le due guerre mondiali, su cui continuarono a proiettarsi gli effetti dei precedenti errori, coinvolgendo anche il movimento operaio nel periodo dell’Internazionale comunista. Il fermento di tanti nazionalismi insoddisfatti lavorò a favore dell’involuzione autoritaria di quasi tutti gli Stati di nuova costituzione: in altre parole la soluzione distorta dei nodi nazionali in Europa ebbe una parte importante nell’accelerare la crisi della democrazia borghese occidentale, che tra gli anni Venti e Trenta generò il fascismo e il nazismo.
Ma il destino dell’Europa, indebolita o neutralizzata nel potenziale rivoluzionario del suo proletariato, spiazzò la visuale teorica dei marxisti anche nei confronti delle lotte di liberazione delle colonie e semicolonie, a loro volta sbilanciate in senso nazionalistico quanto più la prospettiva della rivoluzione socialista mondiale sembrava chiudersi assieme a quella della solidarietà internazionale. 19 Sennonché resta pur vero, alla luce del marxismo, che l’internazionalismo non è un principio astratto, bensì il riflesso politico e teorico del carattere mondiale dell’economia, dello sviluppo mondiale delle forze produttive e dell’estensione mondiale della lotta di classe. Orbene, dal punto di vista del movimento operaio, la storia della “questione nazionale”, qui trattata limitatamente all’età leniniana e ad alcuni essenziali riferimenti all’età post-leniniana, sembra indicare che la mancanza o l’offuscamento della coscienza internazionalista comporta una tendenziale disidentificazione culturale e di classe che porta il proletariato a rinserrarsi in modo subalterno entro i confini delle frontiere nazionali: ma da qui gli è più difficile, se non impossibile, combattere nei momenti cruciali della storia per l’affermazione dei propri valori.
5. “Il rapporto del giudaismo verso l’emancipazione del mondo di oggi”: antisemitismo, antisionismo ed antimperialismo
Uno dei nodi ideologici posti in luce dalla resistenza del popolo palestinese alla strategia della “terra bruciata”, dello sterminio e dell’esodo forzato portata avanti dallo Stato d’Israele è quello del rapporto tra antisionismo e antisemitismo, o meglio antigiudaismo (giacché anche gli arabi sono etnicamente semiti). Si tratta allora di opporsi nel modo più fermo, pur continuando a usare il termine ideologicamente deviante di ‘antisemitismo’ ormai invalso nell’uso, alla fallace equazione tra antisionismo e antisemitismo, che costituisce il pernio della propaganda filosionista sul “diritto a esistere dello Stato d’Israele”.
La premessa storica fondamentale da cui occorre partire è che il sionismo come fenomeno politico e ideologico, indipendentemente dall’ispirazione messianica ed emancipatrice che animò le prime generazioni di militanti (ispirazione che indusse l’Unione Sovietica a sostenere nel 1948 la nascita dello Stato d’Israele, salvo rendersi poi conto del grave errore politico che era stato commesso), si è progressivamente identificato con un movimento di chiaro stampo colonialistico su base razziale e religiosa, che punta, usando tutte le armi possibili (compreso lo sterminio e la deportazione), a modificare radicalmente la composizione demografica della Palestina in nome della colonizzazione di quel territorio da parte di nuclei etnici ebraici provenienti da tutto il mondo.
Sennonché non va sottaciuto il fatto che, essendo gli elementi storici (natura ideologica del sionismo), gli elementi economici (sfruttamento di risorse petrolifere marittime e di forza-lavoro a basso prezzo) e gli elementi politici (strategia di colonizzazione integrale del territorio palestinese) tra loro strettamente connessi, questi ultimi seguono necessariamente la logica complessiva dei primi due. Una siffatta connessione dovrebbe indurre anche l’osservatore più moderato ed equanime a interrogarsi sulla natura complessiva del sionismo. Al contrario, vengono accusati di antisemitismo non solo i critici storici del sionismo come fenomeno complessivo, ma anche i critici della politica di Israele a partire dagli anni novanta del secolo scorso, allorché questo Stato, dopo gli accordi di Oslo del 1993, tese a moltiplicare gli insediamenti di coloni nei territori della cosiddetta Cisgiordania. Con questa sciagurata politica, che la ‘Road Map’, lungi dal modificare, finì sostanzialmente con l’avallare, Israele mostrava, per un verso, di non accettare la coesistenza con uno Stato palestinese e, per un altro verso, di voler perseguire la strategia della colonizzazione integrale dei territori, confinando l’autonomia palestinese all’interno di ‘bantustan’ privi di una reale sovranità politica ed economica.
Orbene, è giusto riconoscere che vi sono casi in cui, effettivamente, sul piano storico e politico, ragioni e torti sono talmente mescolati tra loro che non è facile trovare un criterio oggettivo e preciso di giudizio per definire secondo un ordine di precedenza le ragioni ed i torti: basti pensare al conflitto greco-turco a Cipro o a quello fra gli indiani e i pakistani in Kashmir, o ancora a quello fra indiani e cinesi sui rispettivi confini. Ma nel caso del conflitto israelo-palestinese il dilemma dell’equidistanza non si pone per nulla, poiché è evidente a chiunque non sia ipnotizzato dalla propaganda bellica dell’imperialismo o animato da un’inguaribile malafede che i palestinesi hanno completamente ragione e gli israeliani hanno completamente torto. Di conseguenza, vanno isolati e politicamente combattuti, poiché in realtà gettano fango sulla resistenza palestinese e fanno il gioco dell’imperialismo euroamericano e del sionismo, i sostenitori della formula ‘né con Israele né con i palestinesi’, così come taluni gruppi di estrema sinistra che, negando il significato antimperialista e il valore strategico della lotta per l’autodeterminazione nazionale del popolo palestinese, coprono il loro opportunismo con una fraseologia pseudorivoluzionaria e un uso distorto delle categorie leniniane,
Tutto ciò è vero, ma è altrettanto vero, quando si pensa al contributo che ha dato al patrimonio filosofico, scientifico e letterario dell’umanità, che non si può non provare una grande ammirazione verso la cultura ebraica: e mi limito a citare, fra i tanti, i nomi di Spinoza, di Marx, di Freud, di Einstein e di Kafka. L’identità ebraica va dunque rispettata sul piano culturale, ma senza concedere a essa alcuna immunità giuridica e politica. Va quindi respinta nel modo più energico e più convinto l’idea secondo cui gli ebrei, a causa di quanto hanno dovuto sopportare sotto Hitler e i suoi alleati, non possono essere né giudicati né puniti. È da ritenere, al contrario, che proprio questo sia oggi il vero antisemitismo, anche se di ciò non vi è alcuna consapevolezza. Quella consapevolezza che indusse, invece, un testimone ebraico della ‘Shoà’ come Primo Levi a prendere le distanze dalla politica delle rappresaglie e della ‘guerra totale’ praticata in permanenza dallo Stato d’Israele, pronunciando le seguenti parole: «Quello che non potrò mai perdonare ai nazisti è di averci fatto diventare come loro». 20
L’equazione fra l’antisionismo e l’antisemitismo (equazione per sua natura storicamente infondata e culturalmente offensiva, se si pensa al grande numero di ebrei antisionisti che hanno popolato la storia del Novecento) sta oggi scivolando sul piano inclinato dell’equazione fra l’antisemitismo e la semplice critica ad Israele, come risulta dall’isteria filosionista della maggior parte dei ‘mass media’ e dalla politica repressiva di totale appoggio allo Stato israeliano assunta da alcuni governi europei come la Francia, la Germania e l’Inghilterra, i quali hanno persino vietato le manifestazioni popolari a favore della Palestina nei rispettivi paesi. A questo punto, non si capisce neppure più quali sarebbero i limiti della critica legittima a Israele, dal momento che anche l’appoggio a coloro che si battono per liberare i territori occupati nel 1967 viene ormai qualificato come espressione di antisemitismo. In realtà, la crisi dell’Occidente imperialista si manifesta anche in Israele e obbliga questo Stato a intraprendere azioni politico-militari funzionali non solo alla propria difesa ma a quella di tutto l’Occidente, oggi incalzato dall’impetuoso sviluppo economico dei paesi emergenti. In tal modo il ruolo di cane da guardia delegato a Israele dall’imperialismo euro-americano nel Vicino Oriente si va inciprignendo, nel mentre si acuisce la crisi politica al suo interno, come risulta nell’ultimo periodo dalle continue mobilitazioni di massa contro la politica autoritaria del governo retto da Netanyahu. Ecco perché oggi occorre dichiarare a tutte lettere che la politica israeliana e, alle sue spalle, quella statunitense, con il sostegno permanente del vassallo britannico e la complicità della quasi totalità dei governanti europei, tra i quali figura il valvassino italiano, divenuto da tempo uno dei maggiori fornitori dei micidiali sistemi d’arma con cui l’esercito israeliano semina a Gaza e nella Cisgiordania morte e distruzione sulla popolazione civile, sul territorio e sull’ambiente, costituiscono una fonte permanente di guerra e il pericoloso vettore di un conflitto bellico generalizzato a tutto il Vicino Oriente (non Medio Oriente, come in genere si dice adottando, senza neanche accorgersene, l’ottica geografica anglosassone): un conflitto che vedrebbe entrare direttamente in azione il vero gigante di quella regione asiatica che è appropriato definire come il Medio Oriente, ossia l’Iran, avversario tanto irriducibile quanto temibile dell’Occidente e di Israele. 21
Tornando al tema iniziale e tirando le fila del discorso che qui si è cercato di svolgere, va detto che se si vuole comprendere come mai con la creazione dello Stato d’Israele la “questione ebraica” sia diventata irrisolvibile, occorre ancora una volta richiamare quanto scrive Karl Marx, un ebreo antisionista ‘ante litteram’, nelle sue note Sulla questione ebraica: «La capacità a emanciparsi dell’ebreo d’oggi è il rapporto del giudaismo verso l’emancipazione del mondo di oggi... Qual è il fondamento mondano del giudaismo? Il bisogno pratico, l’egoismo. Qual è il culto mondano dell’ebreo? Il traffico. Qual è il suo Dio mondano? Il denaro. Perciò l’emancipazione dal traffico e dal denaro, dunque dal giudaismo pratico, reale, sarebbe l’autoemancipazione del nostro tempo», la quale, va da sé, è certamente anche emancipazione umana dello stesso ebreo dal suo giudaismo. La conclusione di Marx è tratta con rigore geometrico, e valendo nei confronti di qualsiasi altro Stato borghese, capitalistico e imperialista, vale ‘a fortiori’ anche nei confronti dello Stato d’Israele: «Se l’ebreo riconosce come non valida questa sua essenza pratica e lavora per la sua eliminazione, egli si svincola dal suo passato verso l’emancipazione umana senz’altro, e si volge contro la più alta espressione pratica dell’autoestraneazione umana». 22
6. Sovranità e autodeterminazione: un’antinomia della teoria borghese dello Stato
Un’ultima riflessione sollecitata dal pensiero e dalla prassi leninista non può non riguardare l’attuale guerra di Ucraina, laddove il primo rilievo che va fatto è che tale conflitto, inserendosi nel quadro strategico caratterizzato dall’accumulazione di forze economiche, politiche e militari dell’imperialismo europeo, dall’ascesa della Cina e dal declino relativo degli Stati Uniti d’America, assume una natura eminentemente interimperialistica. Ciò significa che anche la “questione nazionale” va ridefinita su queste basi, tenendo conto quindi del fatto che lo Stato nazionale, configurato quale involucro per lo sviluppo capitalistico nelle argomentazioni di Lenin, 23 non solo ha ultimato il suo ciclo nello sviluppo capitalistico di tutto il globo, ma sconta attualmente la sua insufficienza, in quanto involucro per tale sviluppo, di fronte ai grandi e grandissimi Stati (e blocchi di Stati) che si fronteggiano nell’arena internazionale.
In effetti, se, mirando a una verifica del rapporto tra la teoria politica borghese e i fatti della storia recente, si ricercano i precedenti del conflitto ideologico tra il principio di sovranità nazionale e il diritto di autodeterminazione dei popoli, è inevitabile risalire, per un confronto con la guerra attuale, alla guerra delle Falkland-Malvinas tra l’Inghilterra e l’Argentina (1982), che mise a nudo l’inconciliabilità tra i due princìpi della teoria borghese dello Stato, la sovranità nazionale e l’autodeterminazione, propugnati dai due contendenti in quel conflitto: un conflitto che, essendo l’espressione di un’antinomia teorico-politica, non poteva che risolversi sul piano militare. Parimenti, nella guerra di Ucraina il dato dominante è lo scontro tra potenze imperialistiche che sono forze continentali: scontro in cui i princìpi di sovranità nazionale e di autodeterminazione sono stati proclamati da entrambe le parti e solo la violenza della guerra può determinarne le sorti.
Nove anni dopo, durante il drammatico e caotico processo della dissoluzione dell’Unione Sovietica, talune frazioni della borghesia ucraina fecero leva sul principio di autodeterminazione, anche se l’intento era più quello di ridefinire la relazione in una nuova Unione che non quello di conseguire l’indipendenza. Quelle stesse frazioni (o le correnti nazionaliste espresse da quelle frazioni) hanno poi negato l’autodeterminazione alle regioni russofone del Donbass, scatenando una guerra civile che nel 2014 ha portato alla secessione della Crimea e alla costituzione delle repubbliche di Donetsk e Luganks. È da notare che il principio di sovranità, eredità storica della Russia zarista passata poi nell’Unione Sovietica, è stato evocato dalle frazioni del capitalismo russo che appoggiano Vladimir Putin, negando legittimità storica all’autodeterminazione ucraina, benché lo stesso principio di autodeterminazione fosse stato fatto valere dalla Russia nel 2014 per l’annessione della Crimea e oggi nel riconoscimento delle repubbliche del Donbass.
D’altra parte, Stati Uniti e Unione Europea, che hanno riconosciuto nel 1991 l’Ucraina, nata dalla disgregazione dell’Unione Sovietica sulla base dell’esercizio dell’autodeterminazione, difendono oggi la sovranità ucraina ma negano l’autodeterminazione al Donbass. Va rammentato poi che, operando in senso inverso, le stesse potenze negarono con la guerra del 1999 la sovranità serba e riconobbero l’autodeterminazione del Kosovo: la questione, come è noto, fu decisa dall’intervento dei cacciabombardieri della NATO su Belgrado, intervento che durò ben 78 giorni. Infine, se è ancora una volta altamente significativo che in Ucraina, rispettivamente a Kiev e nel Donbass, sono stati propugnati due princìpi nazionali in contrasto antinomico fra di loro, non è meno rivelatore, quale manifestazione del quadro strategico che si è richiamato all’inizio del presente paragrafo, il fatto che entrambi i princìpi siano fatti valere dai contendenti sul campo mediante l’appoggio, per ora indiretto, dell’organizzazione militare dominata da una grande potenza imperialista, gli Stati Uniti, e mediante l’intervento diretto sul campo di un’altra potenza, la Russia. Dunque, Kiev rivendica l’adesione all’Unione Europea; le repubbliche del Donbass alla Russia e con essa all’Unione Economica Eurasiatica. Non è forse questa una dimostrazione paradigmatica sia del modo in cui lo scontro fra le potenze dell’imperialismo strumentalizza ai propri fini le motivazioni nazionali sia, per converso, del modo in cui tali motivazioni vengono a essere investite e inglobate dalla schiacciante preminenza di tale scontro?
Sennonché all’antinomia fra i due princìpi, che è stata oggetto della presente disàmina storico-teorica, fa riscontro la crisi autogena del principio di sovranità. A questo proposito, giova rammentare, innanzitutto, che il concetto di sovranità, a partire da Rousseau, costituisce l'elemento centrale della definizione moderna dello Stato borghese. Riducendo il raggio di tale concetto a quello di ‘sovranità nazionale’, sono note le vicende (nazionalismo, irredentismo e imperialismo) attraverso le quali il 'popolo-nazione', categoria determinata storicamente, geograficamente ed etnicamente, si è venuto configurando come l'essenza culturale del concetto di sovranità, ragione per cui, a partire dalla rivoluzione francese, non si è più data sovranità statuale che non fosse sovranità nazionale. È però attraverso quelle stesse vicende politico-ideologiche che il concetto di sovranità nazionale è giunto anche alla sua crisi. Ciò è accaduto perché esso ha corrisposto a un tentativo plurisecolare di riorganizzazione delle varie frazioni nazionali della borghesia trionfante, tale però che l'illimitata espansione di ciascuna ha messo in crisi la possibilità della convivenza di tutte. Da questa aporia è scaturita quella cessione della sovranità in particolari campi a enti o istituzioni sovrannazionali (ONU, UE ecc.) che era finora sembrata la caratteristica dell'attuale periodo storico. Va da sé che, come la storia in atto sta dimostrando, siffatta cessione della sovranità non costituisce un’alternativa alla guerra interimperialistica, ma ne è parte integrante.
In effetti, la contaminazione, oggi più che mai evidente, del concetto di sovranità popolare con il concetto di nazione (si pensi allo slogan leghista: “prima gli italiani”) ha l'immediato effetto di svuotare il primo delle sue potenzialità democratiche, coartandolo entro le maglie di un populismo reazionario. Va quindi seguito con attenzione il processo attraverso cui il concetto di sovranità nazionale svuota di ogni radicale istanza lo stesso concetto di sovranità democratica (o popolare). Ciò è tanto più paradossale perché è proprio nel corso di questo processo di svuotamento del concetto di sovranità popolare che si sviluppa la mobilitazione reazionaria delle masse e la partecipazione di queste, sia pure in forma subalterna e sotto il controllo di un potente sistema di comunicazione sociale, alla vita del sistema complessivo diviene, in generale, sempre più decisiva. 24
Ma questo paradosso, va detto, è altresì necessario se il concetto di sovranità deve mantenersi entro l'àmbito del suo uso borghese. In definitiva, è nel movimento congiunto di un concetto di sovranità nazionale che tende al suo illusorio superamento nella dimensione sovrannazionale, mentre in realtà genera guerra e “reazione politica su tutta la linea”, e di un concetto di sovranità popolare che si nega del tutto svuotandosi in un formalismo che è funzionale alla giustificazione della forza statuale della borghesia; è in questo movimento congiunto che va vista la crisi del concetto stesso di sovranità in generale. Se si volesse riassumere in una formula questo processo, si dovrebbe dire che l’obsolescenza del concetto di sovranità è del tutto connessa all'obsolescenza dei rapporti reali che registra. In altri termini, la crisi congiunta del concetto di sovranità popolare e del concetto di sovranità nazionale mette a nudo la natura borghese del concetto di sovranità. Pertanto, la sovranità non va ‘riconquistata’, ma condotta al termine della sua traiettoria storica, cioè distrutta. E coloro che assumono come programma di un movimento politico gli obiettivi dell’internazionalismo proletario, della dittatura proletaria, della socializzazione dei mezzi di produzione e della pianificazione centralizzata, sono nella posizione migliore per comprendere questa istanza in tutta la sua radicalità.
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L'elemento portante dell’imperialismo del dollaro e finanziario, che ha sistematicamente creato, oltre che terrorismo e guerre, situazioni di disoccupazione, stagnazione, sovrapproduzione, salari bassi, domanda inadeguata e instabilità finanziaria, è stato una spietata guerra di classe dell’oligarchia contro le classi subalterne e contro lo stato, per svuotarlo delle prerogative e poteri di definire una politica monetaria e economica nazionale e difendere le classi inferiori, che devono invece essere gettate nel “mercato libero competitivo”, mentre ciò che rimane dello stato diventa il braccio armato degli interessi dei dominanti.
Il contrasto al neoliberalismo e all’imperialismo può, realisticamente, avvenire solo sulla base di un rafforzamento dello stato, di consapevoli politiche di nazionalismo economico e, sul piano internazionale, di costruzione di rapporti che, basati su cooperazione e simmetria, generino stabilità e vantaggi per tutti.
Ciò presuppone il riemergere di una sinistra in grado di comprendere il capitalismo, il neoliberalismo, il quadro economico e macrofinanziario e soprattutto intenzionata a abbandonare il ruolo di maggiordoma, cosciente o sciagurata, della classe dominante burocratico finanziaria, per riscoprire la lotta e conflitto di classe, da tradursi in effettive scelte e politiche.
L'autocompiaciuta demonizzazione dei partiti e organizzazioni sociali che raccolgono lo scontento e la rivolta delle classi inferiori, secondo criteri ideologistici e di astratta purezza teorica, oltre a lasciare il tempo che trova, ostacola la riflessione sul grave tradimento della sinistra e un approccio di pragmatico e scientifico studio dei caratteri del capitalismo e imperialismo finanziario e del neoliberalismo, in vista della adozione di specifiche politiche sociali e economiche, nella realtà e condizioni date.
Nessun astratto messianismo rivoluzionario è e sarà di ausilio.