Karl Marx, critico della “crescita”
di Michele Cangiani
La mercificazione ai fini della valorizzazione del capitale invade nuovi campi della vita sociale: le public utilities, i beni comuni, le scienze, la formazione dell’opinione pubblica, il “tempo libero”. La politica tende a sparire – nel suo significato proprio di organizzazione democratica della società ai fini del benessere dei suoi membri. È la decadenza della democrazia, cioè della libertà “positiva”: della capacità politica degli individui, cioè della loro consapevolezza e della loro possibilità di contare. La devastazione dell’ambiente umano comporta ovviamente una diminuita capacità di percepire, spiegare e contrastare la devastazione dell’ambiente naturale.
Tramontata la politica dell’economia del benessere, è in auge quella del benessere dell’economia: una politica asservita al fine della valorizzazione capitalistica, la quale, tuttavia, non cessa di essere compromessa dalle sue stesse contraddizioni e da un ambiente – umano e naturale – gravemente danneggiato e potenzialmente ostile. La guerra è parte integrante di questo quadro. Le guerre sono tanto confacenti alla “crescita” quanto disastrose per l’ambiente.
Sommario: L’ecologia nel materialismo di Marx, Adattamento o collasso, La società del denaro, Marx nell’epoca neoliberale
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L’ecologia nel materialismo di Marx
La questione ecologica – cioè il problema del rapporto fra l’esistenza umana socialmente organizzata e l’ambiente naturale – s’impone ai nostri giorni in modo sempre più evidente.
E preoccupa che la capacità di reagire a uno squilibrio chiaramente esiziale manchi o sia carente. Provvedimenti raccomandati per evitare un mutamento disastroso del clima non vengono applicati, in parte se non del tutto. L’impronta ecologica andrebbe più che dimezzata per conseguire l’equilibrio a livello planetario: ma ciò appare estremamente difficile, dato anche il peso quanto mai diseguale, nel causare l’impronta, dei diversi modi di vita nel mondo, determinati in primo luogo dalla disponibilità diseguale di denaro, tecnologia e potere.
Quali insegnamenti possiamo trarre dall’opera di Karl Marx, nonostante che, rispetto all’epoca in cui egli visse, ora la questione ecologica sia enormemente più grave, in seguito allo sviluppo della nostra società? Solo alla metà del XX secolo si fa risalire l’inizio del cosiddetto antropocene, l’era geologica in cui l’attività umana è diventata un fattore primario del cambiamento del sistema Terra. Ciò che conta, comunque, è la specifica organizzazione del sistema sociale: la sua forma capitalistica, oggetto della teoria di Marx, è tuttora vigente, e la comprensione delle sue caratteristiche fondamentali rimane necessaria per affrontare la questione ecologica. Questa è la tesi proposta dal presente articolo, insieme a quanto ne consegue: l’inevitabilità del ricorso alla teoria di Marx, che spiega tali caratteristiche in modo radicale, cioè – come egli stesso, ancora giovane, ebbe a dire (“Per la critica della filosofia del diritto di Hegel – Introduzione”, 1844) – cogliendo «le cose alla radice».
Il capitolo V, Libro I del Capitale, in cui viene introdotto il concetto di «processo di valorizzazione» che distingue il capitalismo, inizia con il concetto di «processo lavorativo». Tale concetto parte da un principio generale, che riguarda, potremmo dire definisce, la questione ecologica: la specie umana fa parte del sistema Terra. Vivendo nella natura, per mezzo della natura, gli esseri umani ne fanno l’oggetto del proprio lavoro, per i propri fini e con la tecnica e i mezzi di cui sanno dotarsi. In tal modo, afferma Marx, l’uomo cambia la natura cambiando se stesso. Egli chiama «ricambio materiale organico» (Stoffwechsel, termine tradotto anche con “metabolismo”) tale processo, considerato nei suoi «momenti semplici e astratti» (Marx, 2011, p. 204). Si tratta, cioè, del concetto generale della condizione universale della vita umana, a prescindere dai modi particolari della sua organizzazione sociale. Questo concetto non implica, in Marx, un atteggiamento economicista (produttivista, sviluppista, tecnocratico ecc.) e nemmeno l’idea della natura asservita, indiscriminatamente sfruttata. Al contrario, a un livello analitico meno astratto, quello della teoria della società capitalistica quale specifica organizzazione sociale, Marx compie una critica radicale dell’economicismo quale generalizzazione fallace, spiegandolo come espressione ideologica di tale «forma di società».
A questo livello analitico, in cui si tratta di ciò che caratterizza il capitalismo, viene definito anche il modo in cui la questione ecologica si pone storicamente. Emerge così un secondo principio, distinto dal primo riguardante la generale condizione umana, ma ad esso legato, in quanto ne costituisce lo sviluppo logico, il necessario completamento: nel sistema Terra, l’adattamento all’ambiente degli umani avviene mediante l’organizzazione sociale, in cui inevitabilmente essi esistono. La natura umana è sociale: questa è la rivoluzione teorica di Marx, a partire dalle sue undici Tesi su Feuerbach del 1845. Su questo principio poggiano sia la sua «critica dell’economia politica», cioè la teoria della società capitalistica quale specifica «forma di società», sia l’approccio da lui adottato riguardo alla questione ecologica, vista come problema del rapporto fra il sistema sociale e il suo ambiente – sia umano sia naturale. In altre parole, il sistema sociale, considerato come forma organizzativa storicamente specifica della vita umana, interagisce con il più vasto sistema del quale fa parte, il sistema Terra. Come interagisca, dipende dalla sua organizzazione ovvero «forma».
Dunque, nella teoria di Marx, secondo il suo metodo, il concetto astratto di «ricambio materiale organico» pone solo il problema; esso è la premessa per passare a livelli meno astratti, dove si colloca l’oggetto essenziale del lavoro teorico: i modi del «ricambio», diversamente determinati nelle diverse società e, all’interno di queste, nelle fasi e circostanze particolari della loro storia.
Tale metodo implica la comparazione tra forme diverse di società. Si entra così nel campo degli storici e degli antropologi; specialmente questi ultimi non hanno evitato di chiedersi come la questione ecologica sia stata risolta e quale sia stata la sua rilevanza nel determinare la stabilità dei sistemi sociali nel lungo e lunghissimo periodo – oppure la loro decadenza. L’ovvio presupposto è che un interscambio equilibrato con l’ambiente è condizione basilare per l’esistenza e la riproduzione delle società umane. Marvin Harris (1979) arriva, anzi, a spiegare le diverse culture come «sovrastrutture», cioè come organizzazioni costituite al fine di garantire il vitale equilibrio fra le tre dinamiche «materiali» basilari: lo sviluppo demografico, le risorse offerte da un dato territorio e le tecniche disponibili. Per esempio, in caso di crescita demografica, la soluzione poteva essere un territorio più vasto oppure uno sviluppo tecnologico che consentisse di aumentare la produzione nello stesso territorio, quale fu il passaggio dall’agricoltura itinerante o “taglia e brucia” all’agricoltura stanziale, adottando tecniche quali l’aratura, la concimazione, la rotazione delle colture, il riposo periodico degli appezzamenti.
Harris pretende di spiegare in tal modo qualsiasi cultura, compiacendosi di essere più materialista di Marx, di rifarsi piuttosto a Feuerbach. Il suo materialismo appare infatti ben diverso da quello di Marx, il quale 1) non si riduce alla spiegazione di ogni caso concreto mediante un unico modello, e 2) concepisce ogni sistema sociale come interazione complessa di fattori diversi, non come determinazione unilaterale da parte delle dinamiche materiali su tutto il resto. Che sia sempre possibile mettere empiricamente in relazione aspetti di una data cultura con dinamiche “materiali” – per esempio, il divieto religioso di mangiare carne di maiale in zone diventate più densamente popolate e/o più aride in seguito al disboscamento – non spiega perché ad una soluzione si sia arrivati oppure no; e perché, se sì, una data soluzione sia stata scelta invece di altre. La spiegazione va cercata mediante l’analisi delle diverse culture nel loro complesso e con la loro storia, nel corso della quale cambiamenti “sovrastrutturali” possono anche verificarsi autonomamente, e con effetti non predeterminati sulle dinamiche “materiali”.
In una importante nota all’inizio del capitolo “Macchinario e grande industria” del Capitale, Marx (2011, n. 89, p. 406-7) critica ogni unilateralismo riduttivo: ai suoi tempi, le opposte correnti della scuola hegeliana. Ai nostri giorni, un’opposizione simile esiste fra il “materialismo” di Harris e il “culturalismo”, per il quale date norme riguardanti, mettiamo, divieti alimentari deriverebbero da convinzioni religiose. Ogni società, sostiene invece Marx, va spiegata dal punto di vista del «processo storico», partendo dai «rapporti di vita» – dalle istituzioni sociali, diremmo oggi, ovvero da un determinato sistema socio-culturale, inteso come organizzazione complessiva della vita umana – per comprendere tanto la tecnologia quanto le «nebulose religiose», sempre in rapporto, s’intende, con l’indispensabile processo del «ricambio materiale». La dinamica sociale complessiva scaturisce da diverse dinamiche particolari che si influenzano e si combinano. Un cambiamento tecnologico può indurre oppure non indurre un cambiamento istituzionale, così come quest’ultimo può indurre o no innovazioni tecniche, e, in caso affermativo, le alternative possono essere diverse, riguardo sia alla natura delle innovazioni sia al loro impiego.
Un’altra questione è la tendenza dei sistemi (sociali, nel nostro caso) a riprodursi. Ciò implica che le istituzioni essenziali che li caratterizzano vengano mantenute (p. es., nel sistema capitalistico, la valorizzazione del capitale), magari strumentalizzando altre istituzioni (p. es. il benessere può essere politicamente garantito oppure non garantito, secondo la convenienza) e/o danneggiando l’ambiente umano e naturale, quindi, almeno alla lunga, il sistema stesso.
Adattamento o collasso
La grande, drammatica alternativa si pone fra la persistenza, anche mediante parziali cambiamenti, di un dato sistema sociale oppure la sua decadenza, magari la sua fine. La questione ecologica – essendo, come indicato da Marx, condizione generale dell’esistenza umana – è sempre rilevante al riguardo. Su questo tema Jared Diamond costruisce una vasta ricerca comparativa nel libro Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (2005). Un’organizzazione produttiva capace di instaurare e mantenere l’equilibrio ecologico è stata la condizione grazie alla quale, normalmente, le società del passato sono durate, anche per secoli e millenni. Diamond analizza accuratamente le condizioni naturali, da una parte, e sociali, dall’altra, di tale equilibrio in società premoderne e in qualche caso particolare nella nostra società. Il problema ecologico si pone qualora l’ambiente naturale tenda a impoverirsi progressivamente a causa di un eccessivo sfruttamento. Ciò può accadere a causa di una modificazione delle variabili in giuoco (p. es. l’aumento della popolazione). Oppure, una tendenza insita in una data cultura manifesta i suoi effetti distruttivi solo nel lungo periodo. Trovare una soluzione risulta più difficile quando sono le istituzioni fondamentali di un’organizzazione sociale a rivelarsi inadatte: per esempio, perché sono state importate da una popolazione proveniente da altri territori con caratteristiche geologiche e climatiche differenti, come sembra sia avvenuto nel caso dell’isola di Pasqua–Rapa Nui.
Oltre al definitivo collasso di Pasqua, Diamond esamina altri casi di squilibrio crescente fra società e ambiente naturale, come quello della decadenza della civiltà Maya. Anche in esso, l’esigenza di riprodurre un’organizzazione sociale gerarchica, con diversi piccoli re in competizione fra loro, prevalse su quella di mantenere uno scambio equilibrato con l’ambiente naturale. In generale, osserva Diamond, la diseguaglianza sociale tende a ostacolare un feedback adeguato a contrastare pericolose derive ecologiche, perché i privilegiati non rinunciano a pratiche inscindibili dal loro status e inoltre si illudono di potersi salvare a spese degli altri: ma poi il «collasso» travolge tutti.
Perché, invece, si chiede Diamond, altre popolazioni seppero adattarsi e riadattarsi efficacemente? I Tikopia, per esempio, riuscirono a mantenere l’equilibrio nella loro piccola isola nel Pacifico (isole Salomone) per tremila anni, mediante il controllo demografico e metodi variabili ma sempre compatibili di coltivazione e di pesca. Intorno al 1600, cessarono l’allevamento dei maiali, rivelatosi dannoso per l’ambiente, nonostante che esso fosse fonte di prestigio. La capacità dei Tikopia di reagire al presentarsi di uno squilibrio ecologico, e anzitutto di riconoscerlo, fu favorita, secondo Diamond, da una gestione comunitaria del territorio e dal controllo egualitario della vita sociale. Il potere dei capi dei clan era limitato e non fine a se stesso. Tutti si riconoscevano nei valori tradizionali e in interessi comuni. Diamond ricorda l’indicazione di Raymond Firth, che il titolo del suo libro del 1936 – Noi, Tikopia (2006) – riprende un’espressione frequente con la quale gli isolani confermavano a sé e agli altri un forte sentimento comunitario.
Giustamente Diamond affronta la questione ecologica da una prospettiva etnologica, cioè sulla base di uno studio olistico e comparato di società diverse. Dato che la nostra società è un termine inevitabile della comparazione, egli non manca di porre la questione del collasso anche riguardo a essa. Alle forme di danneggiamento dell’ambiente presenti nelle società precedenti – consumo eccessivo di risorse, deforestazione, erosione e perdita di fertilità del suolo ecc. – altre se ne sono aggiunte, quali il cambiamento climatico e l’accumulo di sostanze tossiche. Inoltre, la globalizzazione ha reso l’intero pianeta un’unica piccola isola, segnata da diseguaglianze e prepotenze. Nella misura in cui problemi e rischi sono mondiali, non possono essere esternalizzati; una parte dell’umanità può scaricarli su un’altra, ma non può sfuggire a un futuro comune collasso.
La nostra società si distingue da quelle del passato anche per lo sviluppo scientifico e tecnologico, compresa la conoscenza delle altre società oltre che di se stessa. Queste particolarità, si chiede Diamond, rappresentano un vantaggio o un maggiore rischio? Nell’ultima parte del libro, egli descrive molti casi di politiche, di pratiche e di movimenti ecologici che hanno ottenuto buoni risultati. Perfino (rare) compagnie petrolifere e minerarie hanno brillantemente provveduto a salvaguardare l’ambiente, traendone anche vantaggi, di immagine ed economici. D’altra parte, secondo Diamond, la situazione complessiva continua ad essere segnata, da una parte, da un progressivo, insostenibile degrado ambientale; dall’altra, dal dominio di interessi finanziari di breve periodo, da una politica inadeguata se non corrotta, da irresponsabilità e ignoranza diffuse, da intollerabili diseguaglianze, da migrazioni e guerre… Ma Diamond non rinuncia a qualche ottimismo, confidando nel fatto che «gli interessi delle grandi imprese, degli ambientalisti e della società nel suo insieme coincidono più spesso di quanto non si creda» (Diamond 2005, p. 449-50). Nelle note finali (ibid., pp. 547-550) troviamo diversi sensati suggerimenti: scelte di consumo capaci di influenzare la produzione, diffusione di informazioni, associazioni ambientaliste e così via. Sarebbe bello se…, suggerisce l’ottimismo: ma finché dovremo usare il condizionale… E perché, in fondo, il mondo va in un verso e non nell’altro?
Emerge così la basilare obiezione teorica e metodologica che il libro di Diamond suscita: l’approccio etnologico – nel senso sopra accennato, di una teoria della «forma» ovvero dell’organizzazione fondamentale che caratterizza ogni società – viene adottato per le società del passato, ma non per la nostra. Essa non viene posta in quanto tale come problema teorico e politico. Restiamo con la speranza che tutti si comportino meglio, che le corporations rinsaviscano, che la politica faccia il suo dovere, che gli ambientalisti si diano da fare, ecc.
Ritengo che ciò non corrisponda all’approccio della “decrescita”, il quale implica, invece, che la nostra società venga messa in questione nelle sue caratteristiche essenziali, che vanno ovviamente determinate. Qui entra in gioco Marx, come afferma una corrente abbastanza recente e forse ancora minoritaria di studi sul necessario collegamento fra “Marx e la decrescita” – come s’intitola un saggio di Marino Badiale e Massimo Bontempelli (2008).
La società del denaro
Lo studio comparato di forme di società diverse dalla nostra è una logica conseguenza del metodo storico e olistico di Marx. I “Quaderni etno-antropologici” (Marx 2020) sono dei suoi ultimi anni: 1879-1882; ma il tema delle “Forme che precedono la produzione capitalistica” si trova già oltre venti anni prima, nei manoscritti noti come Grundrisse, del 1857-58, nei quali Marx arriva a concepire la sua teoria del valore e del capitale, studiando e superando gli economisti classici: si tratta appunto dei Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, come recita il titolo in italiano (Marx 1976).
La prima pagina delle “Forme…” espone i concetti fondamentali, illustrati poi con riferimenti storici. Tipicamente, nella società capitalistica e di mercato, scrive Marx (ibid., p. 451), il «lavoro libero» viene scambiato «con denaro allo scopo di riprodurre e valorizzare il denaro, di essere consumato dal denaro come valore d’uso non destinato al godimento ma al denaro». Questa fondamentale «condizione storica» della produzione implica il «lavoro libero» da vincoli premoderni, quali la schiavitù e la servitù della gleba, e inoltre «la separazione del lavoro libero dalle condizioni oggettive della sua realizzazione, dai mezzi e dal materiale di lavoro». Avviene «il distacco del lavoratore dalla terra quale suo laboratorio naturale», in seguito alla «dissoluzione» sia della piccola proprietà sia della «proprietà fondiaria comunitaria». In entrambi questi contesti l’individuo aveva uno status, una consistenza come «proprietario» nelle tre dimensioni: nel suo rapporto con gli altri membri della società, con l’ambiente naturale e con se stesso. «L’individuo si riferiva a se stesso come proprietario, come padrone delle condizioni della sua realtà» e «agli altri come comproprietari» o come «proprietari autonomi accanto a lui» (ibid.). Questo si può dire in generale delle società premoderne; anche in quelle caratterizzate da invalicabili divisioni di ceto, il lavoratore non era separato dalle «condizioni oggettive della sua realizzazione». L’intera società non ne era separata: e questa è una condizione necessaria, sebbene non sufficiente, affinché le risorse naturali vengano impiegate in modo efficace e “compatibile”, nell’interesse comune.
Più avanti Marx definisce in generale la proprietà come il rapporto «socialmente mediato», cioè storicamente realizzato in modi diversi, dell’individuo con le condizioni materiali della sua esistenza. L’appartenenza alla propria società, non importa a quale livello della gerarchia sociale, costituisce il singolo come soggetto, mettendolo così, nello stesso tempo, in un determinato rapporto con «la terra come suo corpo inorganico» (Marx 1976, p. 472). «Inorganico» nel senso che funziona come un organo esterno rispetto agli organi del corpo umano. Conviene notare di nuovo che non sarebbe logico leggere questa definizione generale del rapporto con la natura come sintomo, in Marx, di una mera strumentalizzazione della natura, del suo asservimento al fine assoluto dello sviluppo produttivo. Questo è, piuttosto, ciò che tende ad accadere nella società capitalistica e che egli denuncia, sulla base della teoria di tale «forma di società», diversa da tutte le precedenti.
Marx accenna a diversi tipi di organizzazione sociale prima del capitalismo, quindi a diverse forme di proprietà: da quella comunitaria delle tribù all’ager publicus dell’antica Roma, dato ai cittadini con concessione revocabile; dalla «proprietà comune diretta» nella sua «forma slava» alla «forma di proprietà germanica», in cui le famiglie fanno parte della comunità in quanto possiedono terra. Egli analizza, poi, come si crearono, in Inghilterra in particolare, i presupposti della società capitalistica: due fondamentalmente, il capitale monetario da investire e il lavoratore «libero» o «nudo». Tale genesi storica del capitalismo è oggetto del capitolo XXIV del Capitale sulla «cosiddetta accumulazione originaria», ma è già accennata nei Lineamenti…, nella sezione che precede quella sulle “Forme…” e ancora in questa.
La significativa connessione fra lo sguardo comparativo alle società del passato e l’analisi storica della genesi del capitalismo viene riaffermata nei “quaderni” del 1861-63, preparatori del Capitale, in cui Marx (2023, p. 99 sgg.) inizia la parte sulla «accumulazione originaria» con una versione rivista di un brano dei Lineamenti… Riguardo alle «condizioni oggettive del lavoro», cioè ai mezzi di produzione e in particolare alle risorse naturali, egli mette in rilievo non solo l’espropriazione, ma anche l’estraneità che i lavoratori subiscono. Quelle «condizioni oggettive» compaiono
in una forma resasi indipendente […] come valore, e lo scopo finale deve essere la creazione del valore, l’autovalorizzazione del valore, la creazione di denaro – non il godimento immediato ossia la creazione di valori d’uso. (Ibid., p. 101)
L’estraneità, d’altronde, riguarda non solo i lavoratori, ma la società intera. I capitalisti stessi, asserisce Marx, impersonano un ruolo determinato entro un sistema sociale, che funziona e si riproduce secondo le proprie leggi: che sono sociali e storiche, opera umana, ma appaiono invece, e sono presentate dagli economisti, come «leggi di natura eterne, indipendenti dalla storia» (Marx 1976, p. 9). Questa rappresentazione erronea è anche – secondo il concetto marxiano di ideologia – “vera”, in quanto espressione della realtà di un sistema economico che si è reso autonomo e quindi vincola gli individui e la società complessiva alle proprie esigenze. Nel Capitale, Marx (2011, p. 98) si riferisce a ciò con una metafora teatrale: «le maschere economiche delle persone sono solo la personificazione dei rapporti economici» («maschere» non traduce tutto il senso del termine usato da Marx: Charaktermasken, cioè maschere che designano ruoli predefiniti di personaggi teatrali).
Lo scopo di Marx è, in effetti, di mettere in rilievo le caratteristiche essenziali della società capitalistica, le sue “leggi”, quindi anche il suo rapporto con l’ambiente, in contrapposizione con le società antiche e primitive. Nel capitalismo, il denaro costituisce la «mediazione sociale», ovvero il modo e il significato dei rapporti dei singoli con l’organizzazione sociale (con l’attività produttiva anzitutto), con gli altri, con la natura e con se stessi: insomma, la loro sussistenza fisica e anche la loro soggettività. La frattura è enorme, sconvolgente. Prima, il lavoratore utilizzava le risorse naturali per mantenere sé, la sua famiglia e «l’intero sistema comunitario» – di ciò essendo ben consapevole, sulla base della propria identità culturale. Marx (1976, p. 463) precisa che, prima del capitalismo, «lo scopo economico era la produzione di valori d’uso, la riproduzione dei singoli nei rapporti determinati con la loro comunità». Correlativamente, l’importanza vitale del patrimonio naturale era quotidianamente evidente ai «proprietari», che non potevano non preoccuparsene, ovviamente nei termini definiti dalla loro cultura. La compatibilità ecologica tendeva a essere garantita: pur non essendolo sempre, perché le conoscenze hanno un limite e perché anche l’organizzazione sociale – che include la divisione sociale e che, in quanto sistema, tende a riprodursi in quanto tale, autoreferenzialmente – può agire in senso non-compatibile, magari nel lungo periodo (come nei casi di «collasso» esaminati da Diamond).
Resta comunque la differenza del capitalismo rispetto a tutte le altre società. Ora le «condizioni oggettive del lavoro vivo appaiono come valori separati, autonomizzati» (Marx 2023, p. 99), non più «disponibili come proprietà del produttore immediato» (ibid., p. 101): il capitale se ne è appropriato. Ai lavoratori «liberi» e «nudi», il cui «rapporto con la terra» e la cui proprietà degli strumenti si sono «dissolti» (Marx 1976, p. 477), non resta che entrare nel mercato della forza lavoro. La forma monetaria della ricchezza diventa lo scopo della produzione. La rottura rispetto alla precedente storia umana è profonda; mai, prima, la società era stata peculiarmente “economica”, cioè organizzata fondamentalmente da istituzioni economiche, sicché l’attività economica è diventata, da mezzo, fine: fine a se stessa.
Inevitabilmente, il rapporto vitale con l’ambiente naturale risulta trasformato. «Ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo», afferma Marx (2011, p. 552). E ancora, nel Libro III del Capitale (1968), a proposito della “Genesi della rendita fondiaria capitalistica”, egli denuncia i cambiamenti del sistema di proprietà della terra, dei rapporti di produzione e delle tecniche di coltivazione quali «condizioni che provocano una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita» (Marx 1968, p. 926). Da qui John Bellamy Foster e altri autori con lui protagonisti di un nuovo interesse per Marx ecologista traggono l’espressione metabolic rift (frattura metabolica) per indicare il tema delle loro ricerche (cfr. p. es. Foster 1999, Foster 2000, Burkett 1999, Saito 2023). Ovviamente, mentre la teoria più generale del capitalismo, per spiegare la frattura, resta più che mai attuale, ora l’evidenza della questione ecologica si è drammaticamente estesa dall’agricoltura all’ambiente naturale nella sua totalità.
È ben vero che il superamento dei limiti imposti dalla forza della tradizione, dalla predeterminazione culturale degli scopi, rende la società moderna, rispetto alle precedenti, potenzialmente aperta a sempre nuove possibilità, alla «estrinsecazione assoluta» delle «doti creative» dell’umanità. Tuttavia, precisa Marx (1976, p. 466), tale nuovo grado di libertà e potenzialità umane viene contraddetto: con l’affermarsi della forma di mercato e capitalistica del sistema sociale s’impone il vincolo assoluto costituito da «uno scopo del tutto esterno». È il denaro che «media» i rapporti sociali e quelli con l’ambiente naturale. La società intera viene espropriata. Il denaro diventa, da mezzo, fine: un mediatore, il cui interesse predomina nell’affare e il cui potere condiziona/determina le decisioni. Scopo della produzione diventa il fare più denaro impiegando denaro. «Lavoro produttivo» è quello il cui impiego consente la valorizzazione del capitale. Correlativamente, l’ambiente naturale quale «condizione oggettiva» conta, “vale” come mezzo di quella valorizzazione. Anche la scienza e la tecnica, di cui il capitale tende a impossessarsi, vengono indirizzate e modellate a tale fine – nella loro applicazione, da una parte, al processo lavorativo (cfr. Il capitale, cap. 13), dall’altra all’impiego delle risorse naturali.
Nel capitolo sulla «accumulazione originaria», Marx presenta, riferendosi costantemente a documenti, la radicale e disastrosa trasformazione che coinvolge sia le popolazioni sia il territorio. La nuova «anima sociale», la generalizzazione dei rapporti mercantili, coinvolge non solo gli individui, il loro lavoro in particolare, ma anche la natura con tutte le sue risorse. Non manca un accenno alla tendenza globale del processo, alla ferocia del colonialismo (cfr. p. es. Marx 2011, p. 826). Troviamo in Karl Polanyi un’efficace espressione sintetica della logica e dell’esito di tale sviluppo storico:
Nel giro di una generazione – diciamo fra il 1815 e il 1845 […] il mercato che determina i prezzi […] dimostrò una capacità impressionante di organizzare gli esseri umani come fossero meri elementi di materie prime, e di combinarli, insieme alla superficie della madre terra, che ora poteva essere liberamente commercializzata, in unità industriali dirette da privati impegnati soprattutto a comprare e vendere allo scopo di realizzare un profitto. […] La fittizia definizione di merci applicata al lavoro e alla terra trasformò la sostanza stessa della società umana. (Polanyi 1983, p. 32)
Marx nell’epoca neoliberale
Marx non finì mai di studiare la strana società del denaro. Non si può dire, tuttavia, che egli non sia arrivato a determinarne, in modo tuttora insuperato, i tratti fondamentali. Nel Capitolo primo del Capitale, riferendosi agli economisti classici, egli asserisce che la propria analisi del valore della merce va ben oltre la questione che a loro interessava, la determinazione dei prezzi. La sua «critica» mira a definire – nel suo complesso e nella sua specificità rispetto ad ogni altra – la «forma di società» in cui vige lo scambio generalizzato di merci. Dopo questa caratteristica essenziale, nei capitoli seguenti vengono spiegate le altre, che costituiscono con essa un tutto coerente: il denaro nella sua forma moderna (determinata dal suo appartenere al mondo delle merci, al sistema di mercato) e la produzione finalizzata alla valorizzazione del capitale. (Per un’esposizione – minima – della teoria del valore e del capitale di Marx, cfr. Cangiani 2022).
Proprio questa base di concetti generali, faticosamente costruita da Marx, spiega che cosa sia la “crescita”, perché essa tanto caratterizzi la nostra società da essere inevitabile, anche al costo di conseguenze disastrose. Si tratta di una società peculiarmente “economica”: le sue istituzioni fondamentali e permanenti sono economiche, mentre tutte le altre istituzioni (riguardanti la politica, la morale, la scienza, la moda ecc.) sono variabili, con una dinamica relativamente libera, cioè limitata, se non indirizzata, dalle esigenze autonome e preponderanti del sistema economico. Esigenze incolmabili, essendo il “valore” rappresentato dal denaro in questa società, in cui “economia” non significa più “norme di gestione della casa”, ma impiegare denaro per ottenere più denaro. E come dice un proverbio contadino, “soldi e letame, non sono mai abbastanza”. Data la tipica autoreferenzialità del sistema economico entro il più vasto sistema sociale, a sua volta inserito nel sistema naturale, né il benessere umano né un «ricambio organico» equilibrato sono garantiti: al contrario. Marx ci consente di capire tutto ciò, e non importa che ai suoi tempi la teoria dei sistemi fosse ancora lontana nel futuro, così come la probabilità di un «collasso» causato da disadattamento ecologico.
Studiosi che si occupano della questione ecologica si sono interessati a Marx da diversi punti di vista. Tralasciamo il tentativo di coinvolgerlo in tendenze produttiviste, nella mitologia del progresso industriale ecc.; il presente articolo, nel suo insieme, ambirebbe a sostenere l’infondatezza di tali accuse. È vero che non sono mancate correnti marxiste influenzate da quelle tendenze. Ed è vero che, specialmente nell’epoca attuale del neoliberalismo trionfante, le organizzazioni del movimento operaio si trovano costrette dentro l’orizzonte dell’aumento del reddito nazionale ovvero dell’accumulazione del capitale. Anzi, come osserva Crawford B. Macpherson (1987, pp. 52 e 127-8), già nell’epoca del «liberalismo del welfare», nel trentennio “d’oro” del secondo dopoguerra, le società capitalistiche movevano in direzione di «qualche tipo di stato corporativo» invece che in quella di «un sistema partecipativo più genuinamente democratico». La classe lavoratrice, commenta Macpherson, cercava di «mantenere la propria fetta della torta, ma non metteva in questione i metodi della pasticceria».
D’altra parte, la tendenza a cercare di combinare sviluppo (capitalistico) ed equilibrio ecologico non è rara fra gli ecologisti. Abbiamo visto l’esempio di Diamond. Una critica delle illusioni di questo genere – per esempio, dei Sustainable Development Goals dell’ONU o dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) – si trova nel libro recente diKohei Saito (2024). Un capitalismo stazionario è impossibile, egli sostiene, e il capitalismo verde è solo un mito. Dobbiamo evitare la «trappola della crescita», «sviluppare la critica del capitalismo di Marx», avere una «visione del comunismo della decrescita» (ibid., p. 71). Il radicalismo di Saito fa anche riferimento alle contraddizioni dell’accumulazione capitalistica spiegate da Marx nel Capitale, Libro III: la tendenza alla crisi da sovraccumulazione, quindi l’esigenza di allargare i campi di investimento all’intero mondo e in ogni ambito della vita umana. Nonostante l’aumento della produttività, i salari devono piuttosto calare che crescere e il tempo di lavoro non va ridotto. Tale politica favorisce i profitti, quindi la formazione di nuovo capitale, ma d’altra parte tende a rallentare la domanda, ostacolando l’investimento redditizio del nuovo capitale.
Un interessante contributo alla comprensione del rapporto fra la contraddizione insita nell’accumulazione capitalistica e la questione ecologica è l’analisi di James O’Connor (1998) di quella che egli chiama la «seconda contraddizione» del capitalismo (rispetto alla prima, qui sopra menzionata). Ai fini dell’accumulazione, l’ambiente viene sia impoverito di risorse sia danneggiato (inquinamento, disordine urbanistico, disagio sociale ecc.). L’aumento conseguente dei costi diretti e indiretti di produzione induce il capitale a intensificare sia la rapina di risorse sia i danni ambientali, in un circolo vizioso o “feedback positivo”. In proposito, un precedente importante, anche per la lontananza nel tempo, sono le ricerche iniziate da K. William Kapp, in The Social Costs of Private Enterprise (1950). I «costi sociali» sono, per Kapp, quelli che le imprese esternalizzano, cioè scaricano sistematicamente e, in gran parte, irrimediabilmente nell’ambiente sia umano sia naturale.
Gli autori citati, e altri, che più o meno recentemente hanno cercato in Marx una risorsa per spiegare la crisi ecologica, che minaccia la distruzione del nostro pianeta o almeno della specie umana, non hanno potuto evitare di delineare un’alternativa al capitalismo – a partire, ovviamente, dalla teoria del capitalismo. “Ciò che ogni ambientalista deve sapere riguardo al capitalismo” è il titolo di un brillante e persuasivo libro, che si conclude con una rassegna su una possibile «rivoluzione ecologica»: sui problemi da affrontare, sui modi di farlo (Magdoff e Foster 2011). La questione è sempre quale sia l’organizzazione sociale, il modo di produzione. Decrescita non significa stagnazione, ma un modo diverso di impiegare e migliorare, ai fini del benessere dell’umanità e della natura, le risorse disponibili, umane e naturali. L’innovazione tecnologica, per esempio, potrebbe consentire l’aumento del tempo libero dal lavoro e un impiego ridotto di risorse naturali, sia direttamente sia elevando la produttività (rapporto fra prodotto e tempo di lavoro).
Che cosa e come fare è ovviamente un problema nostro: è significativa, tuttavia, e non sorpassata, la prospettiva generale indicata da Marx (2011, p. 90) nel Capitolo primo del Capitale: un processo economico «come prodotto di persone liberamente associate, sotto il loro controllo conscio, conforme a un piano». Anche riguardo all’ambiente naturale, la società moderna potrebbe aprire inesauribili potenzialità, consentendo, inoltre, di verificare e valutare gli effetti delle politiche adottate – sempre tenendo fermo il presupposto dell’equilibrio.
Il problema essenziale resta la «forma della società». Poco sopra l’indicazione di quella prospettiva, di quell’orizzonte da inseguire, Marx delinea un confronto fra la società moderna e le precedenti. Attualmente, i soggetti sociali diventati «individui» non sono più legati alla loro cultura come a «un cordone ombelicale» (ibid., p 111). «Dal XVIII secolo, nella “società civile”, le differenti forme dei nessi sociali si presentano al singolo come un puro mezzo per i suoi fini privati, come una necessità esteriore» (Marx (1976, p. 6). D’altra parte, il soggetto sociale si scopre individuo, ma anche «sociale»: «nella sua realtà, esso è l’insieme dei rapporti sociali» (Marx, VI Tesi su Feuerbach). La società può, e deve, venire riconosciuta e conosciuta come realtà storica, come opera e responsabilità umana.
Il manifestarsi dell’esigenza che il sistema sociale sia consapevolmente gestito ed eventualmente cambiato costituisce un ulteriore livello di complessità: quindi di libertà, ma anche di rischio: l’impresa può risolversi in fallimento. E anzitutto, occorre riconoscere e cambiare il sistema vigente. La «critica» di Marx spiega che il sistema di mercato e capitalistico di rapporti sociali ha «la forma di un movimento di cose, sotto il cui controllo [gli individui] stanno, invece di controllarle» (Marx 2011, p. 86). Il regno della libertà, modernamente pensabile, resta un’utopia fintantoché «il processo di produzione comanda gli uomini, non ancora gli uomini il processo di produzione» (ibid.). Nella misura in cui la possibilità di conoscere la società e di gestirla e cambiarla consapevolmente non si diffonde e non si concreta in istituzioni in senso lato politiche, il singolo diventato individuo si trova in una situazione paradossale: con la sua libertà di usare la società come mezzo «per i suoi fini privati», egli la riproduce inconsapevolmente come «necessità esteriore» che lo domina o almeno lo vincola.
Gli studiosi ai quali si è fatto riferimento in questo articolo sono fra quelli che, di fronte alla gravità dell’attuale crisi ecologica, hanno avvertito l’esigenza di ricorrere a Marx: sia per spiegare perché l’attuale sistema sociale abbia portato a tale crisi e sembri tutt’altro che adatto a superarla, sia per configurare una possibile alternativa.
Intanto, lo sviluppo neoliberale fa carte false pur di ostacolare il cambiamento. La mercificazione ai fini della valorizzazione del capitale invade nuovi campi della vita sociale: le public utilities, i beni comuni, le scienze, la formazione dell’opinione pubblica, il “tempo libero”. La politica tende a sparire – nel suo significato proprio di organizzazione democratica della società ai fini del benessere dei suoi membri. È la decadenza della democrazia, cioè della libertà “positiva”: della capacità politica degli individui, cioè della loro consapevolezza e della loro possibilità di contare. La devastazione dell’ambiente umano comporta ovviamente una diminuita capacità di percepire, spiegare e contrastare la devastazione dell’ambiente naturale.
Tramontata la politica dell’economia del benessere, è in auge quella del benessere dell’economia: una politica asservita al fine della valorizzazione capitalistica, la quale, tuttavia, non cessa di essere compromessa dalle sue stesse contraddizioni e da un ambiente – umano e naturale – gravemente danneggiato e potenzialmente ostile. La guerra è parte integrante di questo quadro. Le guerre sono tanto confacenti alla “crescita” quanto disastrose per l’ambiente. Solo un esempio, al riguardo: impressionante, fin dal titolo, il libro di Rosalie Bertell, Pianeta Terra. L’ultima arma di guerra (2018), sui gravi danni per l’atmosfera e la biosfera tutta di decenni di esperimenti militari. Da leggere.
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La mia opinione, sul tema posto, dall'autore di questo articolo, è enorme in quanto in questi ultimi 80 anni nel Mondo l'uso delle risorse sono state in tutte le diverse realtà Statuali anche se caratterizzati dai diversi sistemi politici, adottati il medesimo modello nell'uso delle risorse economiche, finanziarie e naturali ed è quello capitalistico come descritto negli studi ed elaborati di Carlo Marx. L'interrogativo che dovremmo porci è questo: la sostenibilità economica ed ambientale di questo nostro Pianeta al fine garantirne la sua continuità come può essere perseguita? La mia opinione è questa: Occorre porre al centro delle scelte Politiche la vita di tutti gli esseri viventi e garantire loro una vita degna di essere vissuta, indipendentemente dalla pancia che li ha generati (penso a tutte le forme di vita che conosciamo nessuna esclusa). Per perseguire tale obiettivo occorre praticare politiche mirate ad un' Economia di Pace e remunerare con prezzi equi l'uso e l'utilizzo di qualsiasi risorsa utile a produrre beni e servizi necessari all'intera comunità umana, animale e vegetale. La merce "denaro" non può che essere lo strumento necessario a misurare il giusto valore delle cose scambiate tra le diverse realtà territoriali esistenti. Lo strumento per assicurare la giusta ed appropriata redistribuzione della ricchezza prodotta occorrono Politiche fiscali appropriate, come ben definite nella nostra Carta Costituzionale. Precisamente nel suo art. 53 in cui è sancito il principio che ogni cittadino contribuisce alla spesa dello Stato in base alla propria capacità contributiva. Ed il sistema tributario è informato a criteri di progressività. Forse attuando un simile percorso in un contesto politico in cui vige un sistema democratico e partecipativo qualcosa potrà essere conseguito.