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materialismostorico

Una nota su Marx e la rivoluzione

di Giuseppe Raciti (Università di Catania)

marx with workers1. Al posto di una premessa

Robert Musil si è posto questo problema: perché il moderno scienziato, poniamo il fisico relativista oppure il quantistico, non vive all’altezza delle sue teorie? Perché invece di sperimentare la vita come sperimenta le teorie, conduce perlopiù la più sciatta delle esistenze terrene? Per Musil si tratta di una questione etica: nella scienza moderna manca il riflesso etico. Va però osservato che appoggiarsi a una “concezione”, una qualsiasi, e tanto più una concezione etica, è un rimedio peggiore del male. «Avere una concezione, avverte Kierkegaard, […] presuppone una sicurezza e un benessere nell’esistenza pari all’avere su questa terra moglie e figli […]»1.

Di che colore è la vita quotidiana mentre penso alla fissione dell’atomo? Che cosa cambia, nelle mie bige giornate, se mi persuado della efficacia del paradosso di Schrödinger? Beh, credo che dovrebbero cambiare parecchie cose. Del resto, una teoria che non investe la vita e la lascia da parte, la chiude tra parentesi, che specie di teoria è? Ecco un problema che Musil, scienziato e matematico, si pone da filosofo. È la ragione (sia detto di passata) per cui scrive l’Uomo senza qualità.

Ma la questione si pone a maggior ragione con il tema in parola: Marx e la rivoluzione. Se da marxista ritengo che tutta la teoria di Marx ruota attorno all’asse della rivoluzione, perché allora mi limito a discuterne nelle riviste e nei convegni anziché scivolare, certo molto problematicamente, anzi disperatamente, verso la soglia della lotta armata? Questo aut-aut, di primo tratto assai rozzo, riguarda più o meno tutte le teorie, ma in modo particolare quelle filosofiche. Althusser lo ha precisato bene: la filosofia è l’aspetto politico di una teoria2. Musil direbbe che la filosofia, e più ancora la narrativa filosofica, è l’aspetto etico di una teoria. In quel che segue non tratterò del conflitto tra etica e politica, tanto meno del madornale equivoco di una politica sottoposta al controllo dell’etica. Etica e politica sono realtà incomponibili. Ma il senso di questa opposizione fondamentale è immanente alla serie delle polarità messe qui in discussione.

 

2. Determinismo e antideterminismo

Per prima cosa propongo di distinguere in termini consapevolmente schematici3, giusto per marcare le differenze macroscopiche, le due idee principali di rivoluzione, la conservatrice e la marxiana. La prima origina dal soggetto, ma si tratta di una soggettività che ha perduto tutti i suoi contrassegni metafisici, sicché il mondo cambia per effetto di una radicale rifondazione del soggetto. La seconda investe i rapporti di produzione e in particolare la proprietà privata dei mezzi di produzione, onde il mutamento del soggetto, nel senso classico della μετάνοια, sopraggiunge come una specie di contraccolpo4. In un caso il soggetto è una potente fonte di “irradiazione”, nell’altro è un epifenomeno.

Come tutti gli schemi, anche questo è deficitario, approssimativo e pieno zeppo di eccezioni. La più cospicua delle quali, e si tratta di una eccezione che ci riguarda da vicino, fa riferimento alla posizione di Gramsci. In un passaggio molto frequentato dagli studiosi, Gramsci scrive:

«Se[…] l’individuo, per cambiare, ha bisogno che tutta la società si sia cambiata prima di lui, meccanicamente, per chissà quale forza extraumana, nessun cambiamento avverrebbe mai. La storia invece è una continua lotta di individui e di gruppi per cambiare ciò che esiste in ogni momento dato, ma perché la lotta sia efficiente, questi individui e gruppi dovranno sentirsi superiori all’esistente, educatori della società, ecc.»5.

Tra le implicazioni di questo testo ne isolo una, la più funzionale al nostro discorso. La posizione di Gramsci è antideterminista. Gramsci, cioè, non pensa alla prassi rivoluzionaria come al precipitato di un processo più generale che trascende (e riduce a concausa) il momento volontaristico. Nei termini di Marx, ma anche di Engels, questo processo più generale è indubbiamente storico, e tuttavia è assimilato a un «processo naturale [Naturprozess]». Che non si tratti di una metafora ma di una scelta di campo, si comprenderà strada facendo.

Nella lettera a Engels del 7 dicembre 1867, destinata a fornire gli spunti essenziali per la recensione del Capitale, Marx afferma che gli «sviluppi positivi» esposti nel testo (formazione del denaro, cooperazione, divisione del lavoro, sistema delle macchine ecc.) si articolano «“secondo un impulso naturale” [naturwüchsig]», con l’effetto di «mostrare dal solo lato sociale [nur sozial] lo stesso processo di rivolgimenti [Umwälzungsprozeß] che Darwin ha documentato dal punto di vista della storia naturale»6. È la fase culminante del così detto materialismo scientifico.

Ma negli anni Ottanta Marx comincia a contestare la riduzione a “sistema” del suo lavoro teorico. In un inciso della celebre lettera a Vera Zasulič si concede un riferimento ironico, forse sarcastico, alla «[sua] così detta teoria»7 e nell’attacco delle Glosse a Wagner afferma molto piccato di non avere «mai costruito un “sistema socialista”»8. È la proposizione, in termini non ancora canonici, cioè engelsiani (cfr. la lettera a Bloch del 1890), del così detto materialismo storico.

Il richiamo al darwinismo implica l’idea della continuità dei processi materiali, nel senso elementare che essi si dispiegano senza fratture9, ma con ogni evidenza il riferimento all’ipotesi evolutiva si rivela molto problematico dal punto di vista rivoluzionario; d’altra parte, come vedremo tra poco, gli anni Settanta registrano una rinnovata attenzione, da parte di Marx, alle peculiarità storiche, con particolare riferimento alla situazione russa; contestualmente si profila l’idea di una pluralità di soluzioni sociali non necessariamente legate all’epilogo rivoluzionario. Con ciò, per ragionare in termini il più possibile sintetici, l’opzione scientista e quella storica rappresentano le due fattispecie del determinismo.

Dopo il Quarantotto Marx realizza che le «rivoluzioni proletarie», distinte non per grado ma per natura da quelle borghesi, sono votate al fallimento; esse, cioè, rifiutano le soluzioni febbrili, i successi effimeri10. Ma la catena dei fallimenti approda infine a una svolta, si dipana cioè fino al punto «in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro [Umkehr]», onde «le circostanze stesse [die Verhältnisse selbst] gridano: Hic Rhodus, hic salta! […]»11. Ebbene, chi dovrà decifrare la lingua inarticolata dei Ver- hältnisse? Qual è, in altri termini, il ruolo destinato alle risorse della volontà, per es. alla volontà di un “gruppo” gramsciano o di un “partito” organizzato militarmente («dall’alto al basso»12)? Tutte queste domande riguardano a buon diritto la storia del marxismo europeo e non cessano di confrontarsi, spesso drammaticamente, con la duplice struttura del determinismo marxiano. Ad ogni modo è qui, cioè all’altezza del 18 Brumaio, che prende corpo, credo, l’intenzionalità determinista. Come cercherò di mostrare più avanti, essa è preparata dalla “critica della politica” che domina i testi degli anni Quaranta.

Torniamo ora alle oscillazioni testuali tra le due specie del determinismo. Si tratta perlopiù di excerpta molto noti e particolarmente battuti dalla critica. Il lettore è avvertito: non c’è nulla di nuovo sotto questo sole. Nel cap. XXIV del Capitale, alla fine, si legge che la produzione artigianale si è dissolta «con la necessità di un Naturprozess» e che questa prima negazione ne genererà un’altra, secondo il principio della «negazione della negazione», ma stavolta a detrimento dello stesso capitale13. Nell’ed. francese del 1872, entièrement revisée par l’Auteur, il senso dell’argomentazione resta sostanzialmente lo stesso: «[…] la production capitaliste engendre elle-même sa propre négation avec la fatalité qui préside aux métamorphoses de la nature»14. Ma qualche anno dopo, nel 1877, Marx torna a citare questo brano dal francese e ne fornisce una interpretazione piuttosto sorprendente. Si tratta di una lettera polemica indirizzata (ma non spedita) alla redazione della Otečestvennye zapiski, in cui Marx risponde alle osservazioni del populista N.K. Michajlovskij, facendo notare che questi «deve a ogni costo trasformare il mio schizzo storico della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica del percorso universale fatalmente imposto a tutti i popoli, indipendentemente dalle circostanze storiche in cui si trovano posti […]»15.

Questa rivisitazione del testo, come dicevo, è sorprendente, e non tanto per i contenuti, che sono del massimo interesse, ma per la semplice ragione che nelle due versioni del brano del Capitale si parla esplicitamente di necessità e fatalità. La correzione di rotta, forse più implicita che ragionata, si spiega con la circostanza che nel decennio successivo all’uscita del Capitale Marx ha fatto getto dell’involucro scientista. In particolare, cade l’idea di un “canone” occidentale, secondo il quale è la borghesia, al culmine del suo sviluppo economico, a fissare le condizioni per la svolta rivoluzionaria. Ora Marx “storicizza” l’assunto. La Russia può intraprendere la sua via al comunismo «senza sperimentare la tortura [del] regime [capitalistico]», può incamerarne «tutti i frutti sviluppando i suoi propri presupposti storici»16. Sullo sfondo c’è la complessa questione del ruolo della obščina, la comunità agraria russa, le cui potenzialità possono configurare un altro accesso all’emancipazione comunista, in aperta contraddizione con la “meccanica” del modello occidentale. Ma se da questa contraddizione, che emerge dallo studio “comparato” dei contesti storici17, si affacci la possibilità di eludere la drammatica esperienza della rivoluzione, è un nodo testuale e teorico ancora da sciogliere. Qualche anno dopo, nel 1881, Marx si mostra più cauto e nella lettera alla Zasulič, molto travagliata (ne rimangono, come si sa, ben quattro stesure), torna a descrivere la «génese de la production capitaliste» come una «“fatalité historique”»18. A tutta prima sembra un “passo indietro”, sennonché l’anno successivo, nella prefazione all’ed. russa del Manifesto, le perplessità appaiono superate, a segno che la Russia viene trionfalmente indicata come «l’avanguardia del movimento rivoluzionario in Europa»19.

Sempre nell’Ottantadue, a un passo dalla fine (marzo 1883), le lettere registrano un episodio sintomatico. Marx riferisce a Engels di un colloquio con un certo dr. Kunemann, incontrato a Monte Carlo al ritorno dal soggiorno algerino, il quale afferma che «la scienza […] lo ha convinto che il progresso può essere solo “lento”: nessuna precipitazione rivoluzionaria [keine revolutiore Überstrzung]… altrimenti si sarà poi costretti a fare marcia “indietro” quasi tanto quanto si era andati avanti (come p. es. nella processione di Echternach) […]»20. La caratteristica di questa processione danzante di origine medievale consiste nel fatto che il corteo esegue due passi avanti e uno indietro. Il lettore sagace avrà già intuito che si tratta della medesima impasse, denunciata praticamente negli stessi termini, su cui verte la polemica leniniana contro l’opportunismo menscevico: Un passo avanti e due indietro. La chiusa di Marx è lapidaria, e sembra uscita dalla penna di Lenin: Kunemann è un «filisteo repubblicano»21.

La posizione di Engels è interlocutoria, talvolta ondivaga, ma gli studiosi di settore, si capisce, preferiscono definirla “tattica”. Nella nota prefazione del 1895 alle Lotte di classe in Francia scrive che la parlamentarizzazione del movimento rivoluzionario è una leva che agisce a suo favore, in quanto la massa dei votanti è destinata a crescere «con la spontaneità, la costanza, l’inarrestabilità e in pari tempo la calma di un Natur- prozess»22. Il richiamo al «processo naturale» rimette in gioco la formulazione scientista, ma la sua applicazione al contesto politico concreto lascia spazio a una sensibilità finalmente storica, di cui farà tesoro Lenin con la critica del «modello fisso», definito «stereotipato» e «antistorico»23, e con il richiamo al «centralismo volontario» della Comune, «alieno da qualsiasi schema prefisso»24.

Ma in una lettera del 1878 Engels dichiarava al suo corrispondente: «Ciò che da noi [in Germania] necessita del massimo sviluppo possibile è proprio il regime economico borghese, il quale concentra il capitale e spinge al culmine le contraddizioni […]»25. Questa convinzione ribadisce a distanza di trent’anni il contenuto di uno straordinario brano giovanile, concepito alla vigilia del Quarantotto, dove il sodale di Marx ragiona sugli effetti del dominio monarchico in Germania. In sintesi, poiché tale dominio ha ostacolato lo sviluppo politico del terzo stato, allora l’antagonismo tra borghesia e comunismo dovrà necessariamente attraversare uno stadio preliminare, anche a costo di manomettere l’orologio della storia: si tratterà infatti di «aiutare i borghesi a esercitare il dominio il più presto possibile, per tornare a rovesciarli il più presto possibile»26. Sembra di assistere alla sequenza (irresistibile) di un film di Charlie Chaplin.

 

3. La soluzione bolscevica

Limitiamoci per ora alla semplice constatazione che la posizione espressa da Gramsci non è affatto in linea con il determinismo che contrassegna molte pagine di Marx e di Engels. Di esso si trova traccia, perlomeno nel tratto essenziale, cioè nella funzione attiva del soggetto nella prassi rivoluzionaria, in molti degli esponenti più recenti della teoria della emancipazione. Penso per es. alla nozione di corps-de-vérité elaborata da Badiou27, al parrēsiastēs foucaultiano28 o anche alla ripresa del concetto di μετάνοια, di cui discute in pagine acute Boris Groys29. In tutti questi casi, malgrado le differenze specifiche, che qui non possiamo trattare, è in atto il proposito di antagonizzare la deriva deterministica da una postura non riducibile, non in “ultima istanza”, al fattore economico.

Qui sarà appena il caso di osservare che si tratta di posizioni debitrici di istanze fondamentali del grande pensiero conservatore (e anarchico) europeo. Il Dasein heideggeriano, lo Übermensch nicciano, il Typos jüngeriano, ma anche l’Einzige stirneriano, tracciano altrettante linee di forza in funzione di uno sconvolgimento profondo, talvolta radicale e violento, del dominio del sussistente. Del resto, tutti gli schemi sono fallaci. Lo prova il fatto, per es., che una “tendenza” (non dico una “posizione”) anti-economicista, non del tutto dissimile dalle conclusioni della così detta reazione, trova ricetto anche nell’ultimo Lukács, a proposito di una celebre pagina del III libro del Capitale, in cui Marx afferma che lo «sviluppo delle capacità umane», da intendersi come «fine a se stesso [Selbst-zweck]», può delinearsi solo una volta che sia stato valicato il regno economico della necessità30. Il movimento circolare, anulare del Selbst- zweck, rileva qui Lukács, «sarebbe un controsenso nel quadro della prassi economica, in quanto il dispiegarsi delle capacità come fine a se stesso [Selbstzweck] sta in contrasto con la sua struttura», o sia, per semplificare, contraddice alla finalità intrinseca al regno della necessità: l’estrazione del profitto31.

Per lo più si ritiene che Lenin abbia riformulato su nuove basi l’opposizione tra determinismo e antideterminismo. Ciò nondimeno egli afferma: «Tutta la teoria di Marx è l’applicazione al capitalismo contemporaneo della teoria dell’evoluzione»32. Più che un “passo avanti”, sembra un “passo indietro”, non fosse che nel testo originale il termine usato da Lenin non è èvoljucija (evoluzione), bensì razviti (sviluppo). Non si tratta di un termine del vocabolario scientifico ma filosofico. La conseguenza di ciò è che in area italofona il passo rimanda inevitabilmente al fumoso contesto del darwinismo sociale, mentre in realtà la connessione è rivolta verosimilmente all’hegelismo. Troviamo infatti il termine razviti al centro di una importante discussione sulla dialettica svolta in Un passo avanti, due passi indietro (1904), in cui Lenin afferma che la «vera dialettica […] studia le svolte inevitabili, dimostrando la loro inevitabilità con l’analisi più minuziosa dello sviluppo [razviti] in tutta la sua concretezza»33. Questa osservazione va messa in rapporto con quanto si legge in un intervento successivo (Alcune particolarità dello sviluppo storico del marxismo, 1911), in cui Lenin definisce la dialettica una «dottrina dell’intero e contraddittorio sviluppo storico [istoričeskom razvitii]», vale a dire l’opposto di un «dogma»; essa, infatti, rappresenta «una guida per l’azione» (l’espressione è di Engels); questa funzione della dialettica, che potremmo definire immanente e contingente, non può essere persa di vista un solo istante se non si vogliono compromettere i suoi legami «con i precisi compiti pratici dell’epoca»34.

Lenin intende la dialettica come la mobile trama della necessità inscritta nelle pieghe profonde della processualità, una trama che occorre riportare pazientemente alla luce mediante l’analisi di tutte le fasi di che si compone lo «sviluppo». È su questo terreno instabile, essenzialmente “contingente”, o come si proverà a dire più avanti “qualitativo”, che si forma l’anomalo “determinismo” leniniano, il quale da un lato ha il compito di esautorare il “soggettivismo” e dall’altro si incarica di eludere il pericolo di una deriva utopistica («In Marx non vi è traccia del tentativo di inventare di sana pianta delle utopie, di fare vane congetture su quel che non si può sapere»35); ma, ecco il punto, esso si distingue dal determinismo evoluzionista (natura non facit saltum) perché “teorizza”, e infine realizza, la frattura rivoluzionaria.

Il proposito di opporre un determinismo d’ispirazione hegeliana (processualismo) a un’altra specie di determinismo, profondamente infiltrato dall’evoluzionismo e riconducibile grossomodo all’asse Engels-Kautsky36, può fornire una indicazione di massima sulla peculiarità dell’esperimento bolscevico.

L’eccezione leniniana non cessa di tormentare i sacerdoti del marxismo occidentale37; essa si incarna nell’evento non previsto e non prevedibile, non sul piano del marxismo come “scienza”, della rivoluzione bolscevica. Il fenomeno del leninismo è per così dire un caso di logica paraconsistente: dimostra la possibilità, e più ancora la praticabilità, di un pensiero che si muove in senso processualista e insieme rivoluzionario38. E non solo. Come artefice dell’Ottobre, Lenin è da una parte anti-determinista e dall’altra decisionista39. La domanda che si è posto, rimodulata in termini gramsciani, è più o meno la seguente: Forse che il senso della storicità non investe anche e specialmente la filosofia della prassi?40 Sicché, come si è visto, può affermare che il marxismo è una «dottrina viva», non un «dogma», dunque «una guida per l’azione», dal momento che i «compiti pratici […] possono cambiare a ogni nuova svolta della storia»41.

Ma ciò non ha impedito al leader bolscevico di polemizzare nei termini più aspri con il gruppo dei “riformatori” (in primis Bogdanov42): «Essi, scrive, prendono un pezzetto di agnosticismo e un po’ di idealismo da Mach, vi aggiungono un pezzetto di materialismo dialettico da Marx e balbettano che questo minestrone è uno sviluppo del marxismo»43. Com’è noto, dietro la feroce polemica dottrinale è in atto una lotta intestina per il controllo del partito dopo la rivoluzione del Cinque44, per cui mi pare opportuno sottolineare che tra Lenin e i così detti “machisti” non è mai in gioco lo scontro tra “ortodossia ed eresia”, tra tendenze totalitarie da una parte e genuinamente democratiche dall’altra. A dare il senso della febbrile situazione è Gor’kij nella lettera a Bogdanov del marzo 1909: «[…] siccome il pubblico operaio si schiererà decisamente dalla parte dell’empiriomonismo, la scissione dovrà apparire come una temporanea follia del compagno Lenin, ma quando quel compagno vedrà dove si trovano la forza e il partito, tornerà in sé»45. Se le cose non andarono così è proprio perché tra Lenin e Bogdanov, ovvero tra i protagonisti di due rivoluzioni, una sociale e l’altra politica, distinte non per grado ma per natura, non si consuma una lotta per la “libertà” ma per l’egemonia.

D’altra parte, le lotte intestine non godono quasi mai di un chiaro e coerente riflesso dottrinale. Provo a fare un esempio. Il concetto di «verità assoluta [absoljutnaja istina]» difeso nella vasta prova teorica dell’Otto46, discende, secondo Lenin, da Engels; ma questi afferma: «[…] i principi sono giusti [richtig] nella misura in cui corrispondono alla natura e alla storia»47. Ora, natura e storia sono per Engels realtà dialettiche e come tali soggette a continui riposizionamenti (è l’assunto da cui parte Bogdanov). Per contro, Lenin ricava la giustezza dei «principi» da un rapporto “congetturale” con il paradigma della natura o meglio con la “materia”, alla quale pretende di accostarsi per gradi con un movimento di tipo “storico”: «Dal punto di vista del materialismo moderno, cioè del marxismo, i limiti di approssimazione delle nostre conoscenze alla verità obiettiva, assoluta sono storicamente contingenti [istoričeski uslovny], ma l’esistenza di questa verità è incontestabile, come è incontestabile che ci avviciniamo a essa»48. Così concepita, tuttavia, l’esperienza della «verità assoluta» appare non già sollecitata, bensì “inibita” dalla condizionalità storica; ma in questo modo, il movimento leniniano di approssimazione alla verità rivela un’implicita quanto insidiosa affinità con la dottrina dei “limiti creaturali”, per es. nel senso di I Cor. XIII, 12, in cui l’impossibilità di attingere la visione diretta (facie ad faciem) traccia il perimetro dello stato creaturale.

La caduta nell’esperienza sovrastorica è uno degli esiti di questa teoria. Bogdanov, com’è noto, era di questo avviso49. La posizione di Gor’kij è più ruvida, ma anche più penetrante:

«Come ogni buon pratico, [Lenin] è un terribile conservatore. “La verità è immutabile”: è una tesi necessaria per tutti i pratici, e se si dice loro invece che ogni verità è relativa, essi vanno su tutte le furie, perché non possono non sentire che gli manca il terreno sotto i piedi»50.

Gor’kij tocca qui un punto decisivo: la natura dell’ortodossia non è dottrinale ma “pratica”. Ortodosso è un certo modo, sempre attualizzato, sempre revocabile, di piegare non di spiegare la dottrina. Il movimento è così tutto prassico: a dispetto delle apparenze, la prova dell’Otto è interamente “politica”. Questo aspetto del leninismo si riflette in pieno in un’altra occasione testuale. Uno studioso51 ha opportunamente richiamato l’attenzione sulla circostanza che Lenin, nel già citato intervento del 1911, impieghi per due volte l’espressione pereocenka vsech tsennostej52, che traduce a calco il ted. Umwertung aller Werte (“trasvalutazione di tutti i valori”). Ora, il punto non è stabilire se Lenin abbia letto o meno Nietzsche; lasciamo pure questo compito agli storici della cultura; più significativo, credo, è rilevare che l’uso retorico di Nietzsche serve a connotare strumentalmente un periodo storico molto particolare (gli sconvolgimenti sociali prodotti dalla rivoluzione del Cinque) e che Nietzsche conta tra le fonti dell’“eretico” Bogdanov53. Dietro Nietzsche c’è allora Bogdanov. Nietzsche è la maschera di Bogdanov. È in questo modo che Lenin “smaschera” in base alle circostanze, alle urgenze del pragma, ora Bogdanov, ora Kautsky. In ognuno di questi “casi” polemici, Lenin si colloca sempre nel punto più distante dal rispetto delle “fonti”; il suo scopo è un altro: costruire tante dottrine e tante posture ortodosse, quante sono le «svolte inevitabili» della necessità storica. Ma il convergere della “svolta” sulla “necessità” non stinge su uno svolgimento evolutivo bensì contingentista. Secondo il Passo avanti, come abbiamo visto, è questo tipo di conversione, da cui sortisce il gioco dei continui riposizionamenti, a ospitare lo spirito della dialettica. Come spiegare altrimenti la connessione precaria, tipicamente leniniana, della necessità naturale e dello sviluppo storico? La soluzione evolutiva è soltanto una sciatteria traduttiva; le versioni italiane di Lenin, per lo più parafrastiche, equivocamente “popolari”, attendono ancora un adeguato trattamento editoriale.

Nelle Particolarità la chiave dell’interpretazione leniniana è sintomatica. Essa fa leva sull’analisi di un periodo di pericolosi attacchi alla supposta, cioè strategica e nient’affatto “filologica”, integrità del canone scientifico, l’epoca in cui prende corpo un «modo estremamente unilaterale» e «deformato» di assimilare il marxismo54. Siamo con ciò nella fase virulenta del «contagio machista»55 e tra le righe del testo si intravvede una diagnosi non meno precisa che sconcertante: il “fallimento” del Cinque, che vede Bogdanov in veste di protagonista, è stato la conseguenza di un uso improprio, anzi patologico, del patrimonio dottrinale. Ma ancora una volta, appena dissimulato dietro il pretesto ereticale, c’è il violento scontro al vertice per la guida del partito.

Si deve indubbiamente a Lenin e agli effetti, per esprimerci così, della sua μετάβασις εἰς ἄλλο γένος, se il “testamento” engelsiano del 1895 non è diventato il testo-guida del marxismo europeo. Si comprende poco e male il leninismo se si convertono in risultati dottrinali le continue e spesso pretestuose trasgressioni alla precettistica socialdemocratica. Con la “coerenza” di chi ha fatto strame di ogni residuo legame al dottrinarismo astratto, Lenin, com’è noto, ha rovesciato anche la tradizionale opposizione tra riformismo e rivoluzione. Nello scritto intitolato L’importanza dell’oro ecc. del 1921 ribadisce la posizione antideterminista affermando che la rivoluzione «è una trasformazione [preobrazova- nie] che demolisce le fondamenta, le radici del vecchio ordine, e non lo rimodella [peredelyvaet] prudentemente, lentamente, gradualmente, sforzandosi di demolire il meno possibile»; ma qualche riga dopo sostiene che per «un vero rivoluzionario il pericolo più grande […] è l’esagerazione rivoluzionaria, l’oblio dei limiti e delle condizioni che rendono opportuna ed efficace l’applicazione dei metodi rivoluzionari», ragione per cui l’adozione del riformismo post festum, dunque dopo la rivoluzione, non deve stupire il militante bolscevico, essa diventa piuttosto una «necessità» in ordine alle «questioni capitali dell’edificazione economica»56. Non si tratta di aporie o incoerenze, ancor meno di dilettantismo speculativo, bensì della piega caratteristica del pensiero leniniano, del suo modo inimitabile di incastrare la teoria nella prassi. Lukács ne sfiora l’essenza quando rileva che lo «sguardo sottile» di Lenin «è sempre diretto ai punti di svolta [Umschlagspunkte], in cui la teoria si converte nella prassi e la prassi nella teoria»57.

 

4. Critica della politica o critica della rivoluzione?

Nelle Glosse marxiane del 184458 l’interazione tra politica e rivoluzione è di natura “essenziale”, nel senso che la pratica rivoluzionaria presuppone quel tipo di concezione che Marx ascrive qui all’«intelletto politico». Vediamo rapidamente in che senso:

«Quanto più unilaterale e perciò: quanto più compiuto è l’intelletto politico, tanto più esso confida nella onnipotenza della volontà; tanto più cieco è riguardo ai limiti naturali e spirituali della volontà e tanto più incapace, di conseguenza, a scoprire la fonte dei malesseri sociali [soziale Gebrechen59.

L’«intelletto politico», la cui radice storica è individuata nella rivoluzione francese60, attinge compiutezza proprio nella unilateralità che lo affetta, la sua intrinseca astrattezza consiste appunto nella volontà di estendere la “parte” al “tutto”. Poco prima, Marx ha fissato la piena congruenza delle sfere della politica e dello stato. Egli scrive infatti:

«Più potente è lo stato, dunque più politico è un paese, e meno è disposto a individuare nel principio dello stato, o sia nell’odierna organizzazione della società [Gesellschaft], la cui espressione attiva, autocosciente e ufficiale è lo stato stesso, la ragione del malessere sociale [den Grund der sozialen Gebrechen] e a intenderne il principio generale»61.

L’accento speculativo di questo testo cade sull’aggettivo sozial. Esso confligge col senso stesso della “politica”, la cui espressione è il «princi- pio dello stato». Ciò che si caratterizza come sozial, intende dire Marx, non è affatto politico; ne viene che il carattere sozial non riguarda in nessun caso la sfera dello stato. Così, attenersi al senso dello stato, al suo perimetro oppressivo, è precisamente ciò che determina l’unilateralità dell’intelletto politico.

Dal gioco ossessivo dei corsivi si ricava un’altra dicotomia fondamentale, quella tra sozial e gesellschaftlich, praticamente intraducibile (in it. entrambi gli aggettivi significano “sociale”). Va tuttavia rilevato che l’elemento gesellschaftlich figura nel testo come del tutto intrinseco alle dinamiche politiche (dunque unilaterali e per ciò stesso oppressive) dello stato. La conseguenza è che l’elemento sozial connota aspetti della prassi non direttamente ascrivibili alla politica e, come vedremo tra poco, persino in conflitto con essa.

Due cose, a questo punto, mi sembrano sufficientemente evidenti: 1) che il principio politico della volontà è lo stesso principio che alimenta la “decisione” per la rivoluzione; 2) che la così detta visione determinista, rinunciando al principio della volontà politica, o comunque ridimensionandone la portata, può essere intesa, specie se si considera la sua genesi storico-fattuale (post-quarantottesca), anche come un essenziale correttivo rispetto agli effetti “catastrofici” (in senso gramsciano) della rivoluzione.

Anche su questo punto Marx è esplicito: «Bisogna convenire che la Germania è classicamente vocata alla rivoluzione sociale [zur sozialen Revolution], quanto inabile a quella politica»62.

L’incompatibilità teoretica e programmatica tra le due istanze, sozial e politisch, è ora tracciata con notevole sicurezza. Con l’avvertenza che l’aggettivo sozial, nel cui spettro semantico rientra ovviamente il sostantivo Sozialismus, vale giusto l’opposto di “sociale” nel senso di gesell- schaftlich.

Questa opposizione riaffiora parecchi anni dopo nel celebre passo dei Grundrisse in cui Marx afferma che l’uomo non è solo «un animale socialmente costituito [ein geselliges Tier], ma un animale che unicamente nella società [Gesellschaft] può isolarsi»63. Come termini attivi nella sfera del “politico”, Gesellschaft e gesellschaftlich configurano precisamente l’opposto di una “associazione”, e cioè, appunto, una Vereinzelung, uno stato di “isolamento”. Tutto ciò che riguarda l’individuo, il singolo, der Einzelne, non cresce su base sozial – la sua natura è infatti gesellschaf- tlich. Con ciò, l’intelletto politico, da cui dipende la volontà rivoluzionaria, è certo “sociale”, ma nel senso di “statale”. Per inciso, questa è la vera e potente risposta a Stirner.

Lo schema determinista, al cui interno il vettore politico va perdendo la sua centralità, non è estraneo alle risultanze delle Glosse; esso mette fuori circuito la violenza volontaristica, la violenza dei soggetti, dei singoli, in funzione di una direttrice che in tanto è oggettiva, in quanto si impone, come verrà in chiaro più tardi, a partire dagli anni Sessanta, al modo del Naturprozess. Ma qui sarà opportuno precisare che l’opposizione tra il politischer Verstand e il Naturprozess, tra la l’«involucro politico [politische Hlle64 e la fatali historique, non va intesa nel senso di una banale opposizione tra violenza e pacificazione. Piuttosto, il Na- turprozess dispiega tutta la potenza dello svolgimento oggettivo, inscena un dramma in cui la violenza politica (soggettiva, borghese, statalista) è destinata a soccombere all’«ironia della storia universale», la forza «che mette ogni cosa sottosopra»65.

Ma le Glosse evidenziano già l’oscillazione caratteristica tra determinismo e volontarismo, come si evince dalle battute conclusive del testo, in cui Marx afferma che «senza rivoluzione il socialismo non può realizzarsi»66. Si tratta indubbiamente di un «atto politico», e come tale violento: il socialismo «ha bisogno della distruzione e della dissoluzione»; e tuttavia, aggiunge, quando «inizia la sua azione organizzatrice, quando cioè il socialismo si manifesta come fine a e mostra la sua anima, a quel punto esso deve far getto dell’involucro politico»67.

Il richiamo al «fine a sé», al Selbstzweck, ci riporta alle pagine del III libro del Capitale in cui Lukács individuava la compiuta emancipazione dalla necessità economica, l’ingresso nel regno della libertà. Si dirà perciò che questo concetto ritorna come una reminiscenza degli “anni di noviziato”. Ma forse non è così. Marx, per es., ci informa che la stesura del Capitale ha proceduto a ritroso: il primo libro è stato scritto per ultimo e il terzo per primo68. Sembra con ciò che il movimento anulare connoti anche la struttura del Capitale. Si potrebbe allora sostenere che l’influsso della logica hegeliana, in cui il “risultato” rende ragione dell’“inizio”, si è esteso fino a impregnare le procedure “private” della scrittura69. Comunque sia, il tema della circolarità, su cui è manifestamente costruito anche il concetto di “fine a sé”, distende le radici fino al nucleo più fondo del pensiero di Marx. Ma qui, sia per ragioni di spazio che di linearità tematica, la discussione sulle differenze tra il Selbstzweck marxiano e la circolarità hegeliana dovrà rimanere sullo sfondo. Proverò a riprenderne il filo nella nota 95.

La mia ipotesi (non vorrei chiamarla “tesi”) è che la chiusa delle Rand-glossen presenta o anticipa un movimento circolare di questo genere. Come abbiamo appena letto, il socialismo si realizza grazie alla violenza dell’«atto politico». Ma non si tratta di un mero rapporto di causazione, perché il socialismo, seguendo il passo di Marx, si realizza proprio in virtù del fattore contro il quale deve instaurarsi. Con ciò, l’effetto disabilita la causa; non solo si instaura al suo posto, ma ne cancella ogni traccia. Siamo nella pura “effettualità” – alla lettera: dominanza dell’effetto sulla causa. Si delinea allora una specie di paradosso, che tuttavia è tipico del pensiero di Marx, in ragione del quale si assume che la fine di un processo retroagisce sul suo cominciamento70. La formulazione più stringente del paradosso è molto citata: «L’anatomia dell’uomo fornisce una chiave per l’anatomia della scimmia»71. Di fatto, però, è l’assunto presupposto nell’ipotesi darwiniana, rimasto tuttavia inespresso, come si esprime polemicamente Marx, per via di uno svolgimento «grossolanamente all’inglese»72. Ma tutt’altra cosa è la logica del Selbstzweck, su cui vorrei cercare di gettare qualche luce. In questo caso si tratta di capire, per usare le stesse parole delle Glosse, in che senso l’«anima» del «fine a sé» «si manifesta» per determinare i rapporti tra socialismo e rivoluzione politica. Ovvero: in che modo il fine (il socialismo) retroagisce sul suo inizio (la rivoluzione politica)? Qui siamo del tutto fuori dalle discussioni sul garbuglio evolutivo.

In una pagina dedicata all’analisi della temporalità heideggeriana (ma con un sottotesto leniniano), Slavoj Žižek suggerisce che l’inizio di un processo, il suo “passato”, contiene elementi «potenziali nascosti, non realizzati», che occorre recuperare, e più precisamente “ripetere”, per renderli operativi nel presente. In questa maniera il presente retroagisce sul passato, il quale, dunque, non è mai pacificato, è sempre “aperto”73. Ho in mente una traiettoria di questo tipo quando alludo al modo in cui il socialismo può “riaprire” e per ciò stesso “riscrivere” l’origine politica che lo ha reso possibile.

Questo modo di riaprire il passato per scoprirne la sostanza viva e la forza reattiva è in realtà un’idea di Heinrich Heine, l’uomo che secondo Lukács sarebbe stato «più vicino di qualsiasi suo contemporaneo al punto di vista rivoluzionario di Marx»74. L’idea di Heine è che il compito dello storico consiste certamente nello spiegare «il presente con il passato», salvo tuttavia precisare che il passato «può essere veramente compreso solo per mezzo del presente», giacché il presente, al volgere di «ogni nuovo giorno, getta sul passato una nuova luce»75. La conclusione a cui giunge Heine è che i fatti del 1789 si “comprendono” alla luce della «grande settimana» del 1830, che a sua volta acquista nuovo senso, cioè nuova linfa, dagli esiti pur tragici della stagione quarantottesca. C’è allora una «rivoluzione universale», spiega Heine, che non cessa di “riscrivere” la «rivoluzione speciale»76. Di più: c’è un fine generale, un “fine a sé”, che attrae con la potenza di un destino le sorti dell’Occidente. Per Heine si tratta dell’avvento del comunismo. Nella prospettiva delle Glosse, concepite all’epoca in cui Marx e Heine, a Parigi, si legarono di una «stretta e intima amicizia»77, questo destino si compie con l’autodissoluzione della politica.

 

5. Politica della libertà, libertà dalla politica

Indubbiamente, il proposito di agganciare l’autodissoluzione della politica alla logica del “fine a sé”, del Selbstzweck, è piuttosto difficile da sostenere e mi fa ripensare, con le debite proporzioni, alla ballerina in equilibrio sulla punta di un piede, di cui parlava il vecchio Freud a proposito della precarietà delle sue tesi mosaiche. Non mi resta allora che fare appello all’esigenza sottostante, che è storica, certo, ma più ancora è “contingente”, cioè saldamente intrecciata alla “contemporaneità”; come tale, essa preme con la forza che alimenta le domande più elementari: Come si approda a questo regno? E in sottordine: è sufficiente, oggi come ieri, affidarsi al “contraccolpo” istituito nella Ideologie, secondo il quale la libertà “effettiva” del soggetto consegue «meccanicamente» alla ricomposizione dei rapporti di produzione? Per Gramsci questo schema è fallimentare.

Marx sostiene che «il vero regno della libertà» può «fiorire» soltanto sulla base del «regno della necessità»78 e in questa maniera delinea una processualità che è insieme storica e logica. È storica perché riguarda la parabola dell’organizzazione politica del dominio: il suo inizio e la sua fine; è logica perché il dominio fondato sullo sfruttamento (negazione) pone le condizioni per la sua autodissoluzione (negazione della negazione). Così, ciò che sul piano storico configura senza dubbio uno scarto, sul piano logico descrive uno svolgimento autotelico (Naturprozess). La “combinazione” dei due vettori scorcia il quadro storico-teorico del Capitale79.

Torniamo agli anni Quaranta. Nelle Glosse il socialismo è per un verso indeducibile: come prassi borghese la politica non può avere niente a che vedere con l’istaurazione del socialismo (esso infatti è sozial, non gesell- schaftlich, riguarda l’organizzazione sociale non quella statale); per un altro verso, tuttavia, la dissoluzione dell’«atto politico» rimette in moto, come si è cercato di dire, una specie particolare di processualità, basata su un movimento retroattivo. Per varie ragioni, alcune delle quali palmari, questa retroazione non è compatibile con lo schema evolutivo. Anzitutto, se il movimento evolutivo è generale (per Darwin non esistono percorsi evolutivi speciali), ogni altro movimento non può essere che “particolare”; esso, cioè, traccia dei percorsi singolari, ciascuno dei quali è “autonomo” e funziona come un “fine a sé”. Questo significa che la sua espansione piega in circolo, è anulare; a rigore, si tratta di una “processualità senza continuità”. Michel Foucault, lettore attento e spregiudicato di Marx80, descrive una processualità senza continuità quando afferma che in Iran, nel corso della rivoluzione khomeinista del 1979, è in atto «la volontà politica […] di non dare spazio alla politica»81. Forse è in questi termini che bisogna intendere l’idea riaffacciata da Marx negli anni Settanta di un determinismo privo di connotazioni scientiste o necessariste, l’idea cioè di un processo che muove in più direzioni a seconda delle diverse condizionalità storiche e senza il riferimento a un canone normativo, dunque in deroga a un principio di continuità, di cui l’esito rivoluzionario rappresenta il momento prescrittivo.

Questo ruolo prescrittivo della rivoluzione deve far riflettere. Dopo Lenin, dunque nell’eredità leninista, il fratturismo si è trasformato nel suo opposto, si è imposto negli snodi più drammatici del “secolo breve” come un’istanza fondamentale del richiamo al significato puramente sacerdotale (leninista, non leniniano) dell’ortodossia. Dal punto di vista delle dinamiche novecentesche, si vuol dire, anche il fratturismo finisce col sostituire la visione scientista a quella originariamente politica. A ben vedere, in effetti, è scientista, cioè canonico e prescrittivo, sia il riformismo di matrice kautskiana, sia il fratturismo di ispirazione leninista, perché in entrambi i casi vige un “modello” di cui si rivendica, da un lato e dall’altro, la corretta e conseguente applicazione (ortodossia sacerdotale). La contaminazione tra “scienza” e “fede”, la nascita di un’altra religione sotto le insegne della scienza, è il tema di Bogdanov.

LaMisère de la philosophie (1847) non scioglie il nodo, semmai prova a stringerlo ulteriormente. Se da una parte emerge l’intento esplicito di riabilitare le ragioni della politica: «Ne dites pas que le mouvement social exclut le mouvement politique. Il n’y a jamais de mouvement politique qui ne soit social en même temps», dall’altra si ribadisce che nel socialismo «il n’y aura plus de pouvoir politique proprement dit», per la ragione che «le pouvoir politique est précisement le résumé officiel de l’antagonisme dans la société civile»82. La société civile è dunque la Gesell- schaft, cioè il contesto in cui vige l’«antagonisme de classes» e che occorre distinguere nettamente da ciò che Marx chiama adesso «association»83.

Così, una volta caduto il fattore antagonistico, la cui ratio è radicata nel dominio statale, non si parla più di «révolutions politiques», ma di «évolutions sociales»84. Ma verosimilmente le due fasi individuate da Marx stanno tra loro in un rapporto di successione, cioè temporale. È la crux desperationis della transizione, la «parolina» di Kautsky85.

È interessante (ma anche frustrante) registrare che la versione del testo approntata da Kautsky e Bernstein nel 1885 e rivista da Engels, adotta una significativa scelta traduttiva, in quanto l’espressione évolutions sociales equivale al ted. gesellschaftliche Evolutionen86. Ma in questo modo viene a cadere la distinzione teorica e prassica tra gli aggettivi sozial e gesellschaftlich, che Marx comincia a discriminare con qualche coerenza a partire dalle Randglossen. Movendo da questa traccia retorica si potrebbero attribuire a Engels (o addirittura a Hess o più semplicemente alle circostanze di una scrittura ancora in fieri87) quei passi della Ideologie in cui spiccano concetti quali soziale Macht o kommunistische Gesell- schaft88. Ma la congettura ha il fiato corto, è solo avventurosa. Probabilmente, me ne rendo conto, la ricerca di una coerenza concettuale in un contesto emancipativo è equivoca.

Resta il fatto che rispetto al quadro del ’44 la kommunistische Gesell- schaft è un “passo indietro”. «Ogni rivoluzione, scriveva Marx, dissolve la vecchia società [die alte Gesellschaft]; per questo è sociale [sozial]»89. Considerata da questa angolazione la distinzione tra le due specie di socialità rivela altre implicazioni. Si profilano due scenari, non necessariamente antitetici.

La circostanza che «ogni rivoluzione», dunque la rivoluzione toutcourt, è sozial, può significare essenzialmente due cose: 1) anche la rivoluzione politica è sociale (nell’accezione antistatalista del termine rivoluzione), ma in questo caso o viene a cadere l’impianto dicotomico del testo oppure bisognerà assumere che il sozial retroagisce sul gesellschaftlich; 2) se «ogni rivoluzione» è sozial, essa, proprio come tale, diverge per natura (non per grado) dalla sua declinazione politica, dal momento che l’esito di quest’ultima – statalista e repressivo, in una parola normativo, – è “fissato” ab ovo (e sarebbe allora questo il senso dell’espressione usata da Marx: die alte Gesellschaft) dall’orientazione catastrofica90. Ma con ciò, la rivoluzione politica non è in nessun caso una rivoluzione; quest’ultima, infatti, è sempre sozial. Ne viene che l’uso indiscriminato del termine rivoluzione, a cui indulgono Marx ed Engels nelle note pagine del Manifesto a proposito dell’energia sovvertitrice della borghesia, è controfattuale, cioè metaforico.

L’alternativa di uno «stato non politico»91 affacciata da Lenin nel folto della discussione sull’istituto della dittatura del proletariato, non offre reali alternative, intendo dire storicamente attestate, al governo del sussistente; secondo Engels, seguito da Lenin, si tratta di un governo politico, politicamente necessario, quantunque «temporaneo»92. Ma qui, col senno di poi, bisogna osservare che è proprio questo accento sulla indeterminazione temporale, in fin dei conti sulla sua continuità, dunque sul mero avvicendamento delle formazioni di potere (essendo caduta, nell’onda lunga del secolo breve, anche la giusta, fondata obiezione di Lenin a Kautsky93), a sfocare in chiave millenaristica la teoria dell’autoestinzione dello stato. Più sopra ho cercato di ragionare su un altro significato della continuità: non temporale ma anulare; non politico, ma sociale e storico.

Per riassumere, è possibile distinguere nei testi marxiani due distinte articolazioni dell’elemento sociale: la prima è catastrofico-politica, la seconda è deterministico-storica. Orbene, la successione temporale tra l’una e l’altra, (il “rompicapo” della transizione), è forse un falso dilemma, falso perché dottrinale, in breve sacerdotale, in quanto dal punto di vista autenticamente storico, dunque senza ricorrere a dispositivi modellari, sia in senso scientista che fratturista, non è in questione un avvicendamento, un indugio necessariamente politico, tale cioè da implicare il passaggio da un “prima” a un “dopo”, bensì il modo in cui la situazione contingente viene articolando la serie dei suoi percorsi alternativi. Nei termini di Marx, questa prospettiva è imposta dalla necessità di evitare l’uso irriflessivo di una «chiave universale», secondo che impone «una teoria storico-filosofica la cui virtù suprema consiste nell’essere soprastorica»94.

Sul piano del determinismo storico l’effettiva “novità”, se vogliamo il “salto qualitativo”95, consegue all’autodissoluzione sociale della politica.

Un esito di questo tipo configura un fenomeno che ho provato a chiamare “processo senza continuità”; esso va inteso in questo senso, che l’ipotesi determinista, una volta liberata dall’involucro scientista, agisce solo sulla “contingenza” che connota la peculiarità dei singoli percorsi storici, o sia agisce su un piano estrinseco a ogni continuità modellare. Ma se la continuità è forclusa, il movimento è anulare.

Questo trattamento della contingenza è notoriamente al centro della ricerca dell’ultimo Althusser. L’obiettivo principale di questa ricerca è liberare la contingenza dal giogo della necessità, o più esattamente ripensare (e dunque reinventare) il rapporto dell’una e dell’altra, allo scopo di approdare a un «materialismo della contingenza» da contrapporre al «materialismo della necessità e della teleologia»96. Questo tipo di materialismo attinge senza posa all’elemento storico, da intendersi come il terreno di coltura delle singole formazioni sociali. In un punto importante il filosofo ragiona così: «Se non c’è risultato senza il suo divenire (Hegel), occorre altresì affermare che non c’è alcun divenire se non quello determinato dal risultato di questo divenire», e dunque: anziché «pensare la contingenza come modalità o eccezione della necessità, bisogna pensare la necessità come il divenire necessario dell’incontro delle contingenze»97. La mia opinione, procedendo su questa falsariga, è che il movimento che trasforma la contingenza nel fattore direttivo degli svolgimenti necessari, il processo che riassorbe e insieme rifunzionalizza la necessità nella contingenza, è analogo a quello che assegna il primato ai singoli percorsi storici rispetto alle modellazioni aprioristico-dottrinali. Ma con ciò il “passo avanti” è quello a cui Althusser sembra sottrarsi: il movimento della contingenza, proprio come tale, cioè proprio perché definitivamente affrancato dalle leggi della continuità, rimanda unicamente a se stesso, è anulare; esso è “fine a sé”.

Da ultimo, uno dei significati di cui si riveste il Selbstzweck marxiano, una delle sue possibili epifanie, è probabilmente da ravvisare nella circolarità alternata, cioè discontinua, in cui la contingenza rompe la trama “naturale” della necessità per riattivarla su basi “storiche”98.

Come scrive il giovane Marx nella famosa lettera a Ruge del settembre 1843, «non si tratta di tirare una linea retta tra passato e futuro, bensì di portare a compimento i pensieri del passato»99. Il senso di questo compimento implica evidentemente la processualità, ma in modo tale da escludere la «linea retta», ovvero la continuità.

In altre parole, è in questione la “riscrittura” del passato in funzione del presente. Il caso della obščina è per molti aspetti paradigmatico: un istituto del passato ancestrale della Russia contadina giunge a compimento nella contingenza della prassi storica: riscrive il passato a beneficio di un presente sempre indeducibile. Il che, s’intende, alla condizione che la prassi non sia semplicemente la realtà, tanto meno la realtà assoluta, l’incontestabile “materia”, ma la realtà revocabile: il progetto della realtà. Revocazione e praxis sono determinazioni convergenti.

 

6. Per non concludere

La via “italiana” all’emancipazione si sfibra (ma insieme si corrobora) intorno a questa accezione “aleatoria” del senso generale del conflitto.

Sotto l’impulso della “lotta”, la macchina del capitale si esibisce in una serie di “ristrutturazioni”, fino a che il “comando”, indotto a nuovi atteggiamenti, sempre più plastici e pervasivi, non riassorbe la pressione trasformandola in ricco e profittabile nutrimento. È lo scenario contemporaneo della repressione sotto specie di pacificazione generale, di irenistica globalizzazione, ma è anche la premessa teorica e prassica al risorgere “anteico” della lotta100.

Questo corps-à-corps segue da presso, rivitalizzandola, la “pantomima” del 18 Brumaio: il conflitto delle due rivoluzioni, una proletaria e l’altra borghese, una sociale e l’altra politica.


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ŽIŽEK, SLAVOJ, 2009
In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale , tr. it. di C. Arruzza, Ponte alle Grazie, Milano.

Note
1 KIERKEGAARD 2019, p. 44.
2 ALTHUSSER 1972, p. 76.
3 Una trattazione più articolata in RACITI 2017, pp. 63-91.
4 MARX 2017, vol. V, pp. 268-269; tr. it. 1967, p. 196: «Nella attività rivoluzionaria il mutamento di se stessi coincide col mutamento delle circostanze [Umstände]».
5 GRAMSCI 2007, vol. III, p. 1878.
6 MARX 1965, vol. XXXI, p. 404.
7 DANGEVILLE 1967, p. 176.
8 MARX 1963, p. 167.
9 DARWIN 2007, p. 267: «In base alla teoria della selezione naturale possiamo chiaramente comprendere tutto il significato del vecchio canone della storia naturale “Natura non facit saltum”».
10 MARX 2007, p. 13; tr. it. 2006, p. 24.
11 Ivi, p. 14; tr. it. p. 24.
12 LENIN 1969B, vol. VII, p. 200.
13 MARX 1964, vol. XXIII, t. 1, p. 791; tr. it. 2009, vol. I, p. 953.
14 MARX 1872, p. 342.
15 MARX-ENGELS 2006, pp. 235-236 (lettera in francese; il corsivo è mio).
16 Ivi, p. 233-234.
17 Ivi, p. 235.
18 DANGEVILLE 1967, p. 176.
19 MARX 1977, vol. IV, p. 576.
20 MARX 1967, p. 63; tr. it. 20212, p. 241 (lettera del 20 maggio 1882).
21 Ibidem.
22 ENGELS 1960, vol. VII, p. 524. Ma proprio nel testo di Marx prefato da Engels, Klassenkämpfe in Frankreich (ivi, p. 64), si legge che l’«insurrezione parlamentare» è da intendersi come un’«insurrezione entro i limiti della ragione pura».
23 LENIN 1962, vol. XI, p. 124. L’Autore dichiara di basare tutto il suo intervento sull’«esame attento di una situazione politica concreta».
24 LENIN 1966, vol. XXVI, p. 393.
25 MARX 1966, vol. XXXIV, p. 328; tr. it. 2006, p. 258 (lettera del 13 luglio 1878).
26 ENGELS 1977, vol. IV, p. 379.
27 BADIOU 2009, p. 184.
28 FOUCAULT 2009, p. 10; tr. it. 2016, p. 20: il tentativo di «ridurre il sapere al potere – di fare del sapere la maschera del potere in strutture nelle quali non vi è posto per il soggetto – non può essere che una pura e semplice caricatura».
29 GROYS 2006, pp. 80-96.
30 MARX 1964, vol. XXV, t. III, p. 828; tr. it. 2009, vol. III, p. 1012.
31 LUKÁCS 1986, p. 153; tr. it. 2012, vol. III, p. 173; il ragionamento è più esplicito in ivi, p. 152 (tr. it. p. 173): «Il regno della libertà, in cui Marx vede il valore massimo dello sviluppo sociale, […] non possiede carattere economico, esce fuori dalla sfera dell’economia, la quale, com’è detto […] senza mezzi termini, resterà sempre un regno della necessità».
32 LENIN 1967A, vol. XXV, p. 430; LENIN 1969A, vol. XXXIII, p. 84.
33 LENIN 1969B, p. 399 (qui il riferimento alla «grande dialettica hegeliana» è apertamente dichiarato); LENIN 1967C, vol. VIII, p. 400.
34 LENIN 1973, vol. XX, p. 84.
35 LENIN 1967A, p. 430.
36 La centralità del tema evoluzionistico nella riflessione kautskiana discende in linea diretta dalle risultanze dell’Anti-Dur̈ ing, secondo cui «la natura è il banco di prova della dialettica [die Natur ist die Probe auf die Dialektik], […] giacché la natura, in ultima istanza, procede non metafisicamente, ma dialetticamente» (ENGELS 1990, vol. XX, p. 22).
37 SOREL 1908, p. 8, ha denunciato anzitempo la degenerazione “sacerdotale” che affligge il marxismo di ieri e di oggi: «On peut remarquer, dans une très grande partie de la littérature marxiste, un effort constant pour reproduire des phrases du Capital, en sorte qu’on croirait quelquefois que ces auteurs sont plus familiers avec les livres des liturgistes qu’avec les méthodes scientifiques modernes».
38 PERLINI 1972, p. 112, “risolve” la questione nel modo caratteristico della saggistica d’alto bordo d’ispirazione francofortese: Lenin «oscilla fra determinismo e volontarismo, i quali, pur escludendosi a rigore, finiscono per richiamarsi a vicenda, quasi invocando una sintesi atta a privarli di quanto in sé hanno di astratto e unilaterale». Lascio al lettore riflessivo il compito di giudicare se si tratta di un’altalena retorica o di un ragionamento dialettico.
39 La linea di confine tra antideterminismo e decisionismo è del resto sottile. Nella teologia politica il Naturprozess è messo coerentemente fuori gioco: Ich hab’ Mein Sach’ auf Nichts gestellt, annuncia Stirner sulle orme di Goethe (Vanitas! Vanitatum vanitas, 1806), seguìto, alla lettera, dal cattolico Carl Schmitt. Anche qui saltano gli schemi. Così, per es., il Dasein heideggeriano “agisce” facendo ripartire ex novo la sequenza temporale: come nella XV delle Tesi di filosofia della storia del Benjamin “convertito” al marxismo (su questo punto, che qui non posso dettagliare, rinvio a RACITI 2023B, pp. 137-140).
40 GRAMSCI 2007, vol. II, pp. 1487-1490.
41 LENIN 1966A, vol. XVII, pp. 30, 29.
42 Il rapporto tra Lenin e Bogdanov è ricostruito in SCHERRER 1979, vol. II, pp. 493-546; ma cfr. anche SCHERRER—STEILA 2017, p. 59, STRADA 1971, pp. VII-XCIV e STRADA 1982B, pp. 3-54, oltreché, per la ricchezza e la maestria dell’affresco storiografico, VENTURI 1952, vol. I, specie le pp. 540-633.
43 LENIN 1963, vol. XIV, p. 187.
44 ZILLI 1963, pp. 658-667, SCHERRER 1979, p. 498: nel Cinque Bogdanov è considerato «il capo dei bolscevichi».
45 SCHERRER-STEILA 2017, p. 367.
46 Materialismo ed empiriocriticismo esce tuttavia l’anno successivo.
47 ENGELS 1990, p. 33.
48 LENIN 1963, p. 132 (versione modificata); LENIN 1968, p. 138.
49 BOGDANOV 1982A, p. 142: «Immaginate un uomo che pensi in termini religiosi e abbia formalmente accolto una dottrina profondamente ostile a ogni “fideismo”».
50 SCHERRER—STEILA 2017, pp. 441-442, lettera del 12 giugno 1909.
51 VENTURELLI 1993, pp. 320-330: p. 325.
52 LENIN 1973, pp. 87, 88.
53 Per l’incidenza di Nietzsche (attraverso Lunačarskij, certo, ma anche Gor’kij) sull’opera di Bogdanov, cfr. GLATZER ROSENTHAL 1994, in part. pp. 4-5 e SCHERRER—STEILA 2017, pp. 60, 92.
54 LENIN 1966A, p. 33.
55 Ibidem.
56 LENIN 1967B, vol. XXXIII, pp. 93, 92 (versione modificata); LENIN 1982, vol.
XLIV, pp. 222, 221.
57 LUKÁCS 19838, p. 37.
58 Il testo ora in MARX 2021.
59 Ivi, p. 36 (in questa e nelle successive citazioni i corsivi sono nel testo originale).
60 Ibidem.
61 MARX 2021, pp. 35-36.
62 Ivi, pp. 45-46. Nella frase precedente Marx abbozza questo quadro teorico-politico: «Bisogna convenire che il proletariato tedesco è il teoreta del proletariato europeo, come il proletariato inglese è il suo economista e quello francese il suo politico» (ivi, p. 45). Questo suggestivo plesso di corrispondenze trova il suo riferimento immediato nell’idea di Heine, secondo cui la filosofia tedesca è «il sogno della rivoluzione francese» (HEINE 1831, p. 66). Tutto il saggio di Marx andrebbe letto in effetti come una specie di controcanto ai versi di Heine (Die armen Weber), pubblicati in prima battuta sul n. 55 del Vorwärts! (10 luglio 1844). Sul rapporto tra Heine e Marx, per molti aspetti decisivo, perché schizza una liaison alternativa al sodalizio con Engels, cfr. RACITI 2015, pp. 103-158 e RACITI 2022, pp. 307-326.
63 MARX 1983, vol. XLII, p. 20; tr. it. 1986, vol. XXIX, p. 18.
64 MARX 2021, p. 56.
65 ENGELS 1960, p. 525.
66 MARX 2021, p. 55.
67 Ibidem.
68 MARX-ENGELS 2006, p. 236: «Io in effetti, in privato, ho iniziato il Capitale proprio nella sequenza inversa rispetto a quella presentata al pubblico (cominciando dalla 3a parte, quella storica), con l’unica differenza che il primo volume, affrontato per ultimo, venne subito messo a punto per la stampa, mentre gli altri due rimasero nella forma grezza che ogni ricerca originariamente possiede»(letteraaS.Schottdel3novembre1877). HEINRICH 2023, p. 257, lavora sui manoscritti, in parte ancora inediti, dei tre libri del Capitale e giunge a una sistemazione un po’ diversa: «Il più vecchio è il manoscritto principale del terzo libro (1864/65), seguono poi le diverse stesure del primo libro (1866-1875) e infine i manoscritti per il secondo libro (dalla fine degli anni ’60 all’inizio dei ’70)». Stranamente, ma forse il passo mi è sfuggito, Heinrich non cita la lettera a Schott.
69 Ma il rapporto tra Hegel e Marx è un altro problema irrisolto. Una sintesi aggiornata della secolare querelle si legge ora in HEINRICH 2023, pp. 183-187, 247-252, 259-266.
70 L’esempio più pregnante è senz’altro in MARX 1983, p. 372 (tr. it. p. 395): «Le condizioni e i presupposti del divenire, del sorgere del capitale, sottintendono appunto che esso non è ancora, ma si trova nella fase del divenire; essi scompaiono [verschwinden] quindi in presenza del capitale reale, del capitale che pone esso stesso, a partire dalla propria realtà, le condizioni della sua realizzazione».
71 Ivi, p. 39; tr. it. p. 38.
72 MARX-ENGELS 2019, vol. XLI, p. 216 (lettera a Engels del 19 dicembre 1860).
73 ŽIŽEK 2009, p. 164.
74 LUKÁCS 1951, p. 99; tr. it. 1979, p. 107.
75 HEINE 1981, vol. IV, p. 91; tr. it. 1972, p. 106.
76 Ivi, pp. 91-92; tr. it. p. 106.
77 LUKÁCS 1951, pp. 118, 122; tr. it. pp. 110, 114.
78 MARX 1964, p. 828; tr. it. p. 1012.
79 Per Marx, il «presupposto del rapporto capitalistico è un determinato stadio storico»; come tutti gli stadi storici, esso costituisce bensì una «differentia specifica», ma nella prospettiva di ulteriori sviluppi. «Un rapporto di produzione specificamente diverso», «un processo di vita sociale diversamente organizzato», dunque «una formazione sociale nuova»,si viene strutturando «sulla base» del precedente rapporto di produzione (MARX 1969, pp. 99-100). In questo contesto le lacerazioni del tessuto storico appaiono reversibili, sono cioè ricomprese in un movimento generale soggetto a leggi. Il processo, sia pure con molte incognite, è di tipo evolutivo.
80 RACITI 2023A, pp. 59-71, in part. p. 61, n. 12.
81 FOUCAULT 1998, p. 45.
82 MARX 1847, p. 177.
83 Ibidem.
84 Ivi, p. 178.
85 LENIN 1967D, vol. XXVIII, p. 237. Ma Lenin ha buon gioco: i problemi della transizione cadono uno dopo l’altro, drammaticamente, sotto i suoi occhi. La polemica a Kautsky è (e rimane) sacrosanta. Ma che senso può avere, nella situazione attuale, un “discorrere” labriolano di transizione? Se non è questione di pura e rivoltante scolastica, non è forse illogico, oltreché comico, anzi “farsesco”, nel senso indicato per primo da Heine e ripreso nel formidabile attacco del 18 Brumaio, anteporre il “dopo” (la transizione) al “prima” (la rivoluzione)? Il marxismo sacerdotale, come il kantismo sotto la lente hegeliana, si esibisce in un crawl all’asciutto.
86 MARX 1959, vol. IV, p. 182.
87 Ciò è del resto in linea con i criteri della nuova ed. della Ideologie (MARX 2017), che restituisce il senso di un lavoro corale (Marx, Engels, Hess et al.), anche a scapito dell’intelligibilità, dato che il lettore si ritrova al centro di un arcipelago conradiano, molto difficile da navigare.
88 MARX 2017, pp. 37, 496.
89 MARX 2021, p. 55.
90 BENJAMIN 2008, pp. 475-476, applica un ragionamento di questo genere all’istituto borghese della polizia: esso agisce sempre in guise repressive, in quanto il suo compito consiste nel “custodire”, cioè nel mantenere nel tempo, le origini violente (stataliste) del diritto. La polizia non protegge lo stato di diritto, ma il diritto dello stato.
91 LENIN 1967A, p. 412.
92 MARX-ENGELS 2006, p. 54 (lettera a Bebel del 18/28 marzo 1875).
93 Come si sa, la distinzione tra la dittatura di tipo autocratico e personalistico e la dittatura di classe, collettiva e ontologicamente democratica, è la chiave di volta della critica a Kautsky sostenuta in LENIN 1967D.
94 MARX-ENGELS 2006, p. 235.
95 Ma l’insistenza del marxismo sul “salto qualitativo” di cui parla Hegel nella Scienza della logica non è esente, non del tutto, da equivoci. Si tende infatti a sottovalutare o a spingere in secondo piano la circostanza che la qualità “supera” il gradualismo estrinseco della sequenza quantitativa per ripristinare l’ordine del concetto, cioè la “vera” processualità. Il “salto qualitativo” restituisce la vitalità del concetto alla “materialità” altrimenti inerte o astratta della quantità (cfr. HEGEL 1985, vol. XXI, pp. 365-366, dove si legge che il movimento quantitativo, l’incedere «a poco a poco», conduce il processo al suo punto di arresto). Passiamo rapidamente a Marx. Egli afferma che il denaro sotto specie di capitale si moltiplica su se stesso, cresce per cumulazione e non cessa di assediare il proprio «limite quantitativo». Questo limite, poniamo «una determinata somma di denaro», è per così dire incapsulato nella «determinazione formale» del denaro, nella «sua intima universalità», cioè nella sua «qualità». Ma il plesso denaro-capitale consta appunto di “denaro e “capitale”, di quantità e di qualità, di contenuto e di forma: da un lato è ancora un’istanza “naturale”, dall’altro ha già attinto la consistenza “sociale”, o sia la “qualità” che da un lato assegna al capitalismo i suoi tratti distintivi e dall’altro pone le basi della sua implosione (socializzazione del lavoro). Intanto, però, in questa duplice veste esso spinge all’estremo e vorrebbe godere dell’illimitato, fino a «inghiottire», come nel sogno plutocratico dell’antica Roma, «un’insalata di perle [Perlsalat]». Questa ipotiposi della contraddizione riveste un concetto brutale: il «processo infinito», la «tendenza costante ad andare continuamente al di là del limite quantitativo». Con ciò, il qualitativo contraddice al quantitativo, certo, ma forse anche in quest’altro senso, che la qualità, nonché saltare, piuttosto è “saltata” dalla quantità. Anche in questo difficile, labirintico passaggio testuale Marx fa ricorso al Selbstzweck, e precisamente quando afferma che in un contesto siffatto l’«arricchimento [das Bereichern] è fine a sé» (cfr. MARX 1983, pp. 195-196). Ma il “fine a sé” comporta la “retroazione”; orbene, in quale direzione? Essavolge dalla qualità alla quantità oppure procede al contrario? La questione non è di poco conto perché in Hegel, diversamente da Kant, si parte dal “qualitativo”, si parte dall’«essere qualitativo», onde la quantità, subentrando alla qualità, si fa carico della «mutabilità dell’essere»; ciò si spiega con il fatto che la quantità, intesa qui come «grandezza», «non è più in uno con l’essere, se ne è già distinta», essa, cioè, è il “negativo” della qualità, il suo «divenire», è la «qualità tolta o superata [die aufgehobene Qualität]» (HEGEL 1985, p. 67). Così, senza il primato della qualità, senza la sua negazione a opera della quantità, non ci sarebbe processualità. Ma ecco il punto: le cose stanno così anche in Marx? A tutta prima direi di no. Sembra infatti che in Marx spetti al denaro come qualità, al denaro “divenuto”capitale, di retroagire sulla potenza “infinita” del suo lato quantitativo (l’accumulazione). È allora? è forse la qualità, innescando un movimento avverso al paradigma hegeliano, a negare la quantità? Probabilmente sì: il “sistema” marxiano, che al postutto è una poderosa teoria del denaro, parte dalla quantità, su cui retroagisce il divenire qualitativo, cioè sociale, del capitale. In questo senso particolare, su cui sarebbe necessario soffermarsi in modo analitico, (ma questo è il compito di un’altra ricerca), il Selbstzweck marxiano fissa le condizioni per l’effettivo rovesciamento della circolarità hegeliana.
96 ALTHUSSER 1994, vol. I, p. 540.
97 Ivi, p. 566.
98 Un altro modo per affrontare il rapporto della quantità e della qualità consiste nel riferire la prima alla necessità e la seconda alla contingenza. Il trattamento contingentista del fatto storico è qualitativo.
99 MARX 1976, vol. III, p. 156.
100 Questo intreccio indissolubile di mosse e contromosse è il fil rouge degli interventi raccolti in NEGRI 2012. Ma per risalire ad fontes, cfr. TRONTI 1977, per es. a p. 193, in cui l’intreccio diventa parossistico, dato che «i proletari non combattono i loro nemici, ma i nemici dei loro nemici».

 

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Comments

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AlsOb
Saturday, 29 March 2025 14:33
L'autore di questa “nota” è convinto che “tutta la teoria di Marx ruota attorno all’asse della rivoluzione,”, siccome nessuna rivoluzione è avvenuta secondo i canoni convenzionali attribuibili a Marx e la teologia della gloria di Marx appare eccedere le auspicabili e immaginate dinamiche lineari, svolge una riflessione teoretica, sostenuta dalla personale ottica e sensibilità e da alcuni parziali puntuali riferimenti, sulle condizioni che hanno reso o renderebbero possibile una rivoluzione, alla luce del punto di vista di Marx, che alla fine risulterebbe meno dogmatico e univoco di quanto una astratta ortodossia scolastica e settaria afferma o crede.
La conclusione è che emerge “l’idea di un processo che muove in più direzioni a seconda delle diverse condizionalità storiche e senza il riferimento a un canone normativo, dunque in deroga a un principio di continuità, di cui l’esito rivoluzionario rappresenta il momento prescrittivo.”
e che si “approda a un «materialismo della contingenza» da contrapporre al «materialismo della necessità e della teleologia»”
Non vi è alcuna critica pregiudiziale a Lenin, il suo operato è semmai valutato in rapporto al nucleo tematico assunto e esposto.
Pertanto, come tra l’altro ammesso, nonostante la prolissa nota, nessuna novità è esibita, al di la della ulteriore razionalizzazione di fatti già constatati, che la teologia della gloria di Marx è troppo ottimistica e che nessuna rivoluzione si è verificata secondo un assiomatico canone, né si è presentato in modo efficace e coeso l’ideale soggetto rivoluzionario e né probabilmente il capitalismo costituisce un effettivo superamento del feudalesimo.
Ma se la contingenza storica assume un peso di rilievo, a maggior ragione occorre conoscere come funzioni il capitalismo, il sistema finanziario e quali decisioni prendere di volta in volta per assecondare un processo di organizzazione di strutture produttive e rapporti sociali verso configurazioni spirituali superiori, riuscendo a coordinare i due vettori, il “piano storico” e il “piano logico” citati nella nota.
Altrimenti si rischia solo l’esito notato schiettamente da Calvino, già molto tempo fa, inutili autocompiaciute ipostatizzazioni.
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Nicolai
Wednesday, 26 March 2025 14:34
L' autore dell'articolo si muove in un campo professorale che non accede alle necessita' reali. Accusare Lenin di travisare e adattare la teoria, contraddire se stesso nello stesso testo, non mi sembra una buon metodo. Dopo la rivoluzione la URSS ha dovuto far fronte prima alla guerra civile, quindi alla penuria di operai, al boicottaggio della Germania, nel mentre la gente doveva mangiare, vestirsi, ecc. Mancavano tutti i mezzi. Lenin si preoccupo' principalmente di aumentare la produzione e la produttività. Indico' l'adozione dei metodi produttivi del capitalismo come una tappa necessaria per la transizione: bisogna imparare dal capitalismo secondo la sua espressione. Anche invito' capitalisti esteri a investire in Russia, fornendo loro molte agevolazioni, che pero' non intervennero. Guarda caso la Rivoluzione cinese ha imparato da Lenin. Dopo il periodo burrascoso dei primi tempi, si accordo' con i capitalisti perché facessero investimenti in Cina. Cosa che e' avvenuta e, tempo quattro decenni, la Cina si e' impossessata della tecnologia occidentale e può ora concorrere con il capitalismo mondiale. Cosi come era cosciente Lenin, "e' un rischio introdurre metodi capitalistici" lo sono certamente anche i cinesi che mantengono comunque i dati fondamentali dell'economia sotto il controllo del Partito Comunista. Una cosa e' discettare di rivoluzione, altra e' avere la responsabilità di sopravvivere e portarla avanti. Non e' corretto polemizzare con Lenin, mediante argomenti filosofici. Più corretto mi pare fu Althusser che definì Lenin non un filosofo ma uno che usava la filosofia ai fini della rivoluzione.
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Sergio
Thursday, 27 March 2025 15:31
il testo è complesso, tuttavia mi pare di capire l'autore non ha nessuna intenzione di accusare Lenin ne di polemizzare, anzi al contrario l'autore approfondisce la posizione unica di Lenin nel dibattito tra determinismo e anti-determinismo, mostrando come egli rielabori la dialettica marxista in modo da giustificare la rottura rivoluzionaria senza cadere né nel soggettivismo utopistico né nell'evoluzionismo passivo. L'autore svela il nucleo pragmatico e anti-dogmatico del leninismo, mostrando come Lenin usasse la teoria non come un catechismo, ma come un'arma mobile nelle lotte politiche e filosofiche. Gor’kij coglie il punto: Lenin è un "conservatore pratico" che difende la "verità immutabile" non per dogmatismo, ma perché un rivoluzionario ha bisogno di certezze operative. Se la verità fosse solo relativa, il terreno della lotta crollerebbe. Gor’kij vede qui il pragmatismo conservatore di Lenin: la verità è un punto d’appoggio per l’azione, non un dogma metafisico. Lenin non ha una dottrina fissa: adatta il marxismo alle "svolte storiche". Nel 1921, dopo la Rivoluzione, difende i metodi riformisti nell’economia, pur avendo sempre condannato il riformismo prima del 1917. Lenin rifiuta ogni schema precostituito. La rivoluzione non è un prodotto automatico della storia, ma un evento che si prepara con l’analisi concreta e si realizza con la volontà politica.

In definitiva a mio modestissimo parere l’intento dell’autore non è quello di sollevare una polemica con Lenin. L’autore si propone di decostruire il determinismo marxista tradizionale, affermando che la rivoluzione è un salto qualitativo contingente - non lineare né inevitabile - dove la politica, dopo aver servito da strumento di emancipazione, deve autodissolversi in una prassi sociale liberata, in un movimento anulare che trasforma retroattivamente il senso stesso della storia.
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Nicolai
Friday, 28 March 2025 11:01
Nella polemica contro Mach e Bogdanov, Lenin affronta il punto piu' profondo della teoria. Se la realtà e' un riflesso del pensiero o e' viceversa il pensiero riflesso della realta' . La questione ha, a mio parere, una sua attualita'. Judith Butler, teorica del transessualismo, sostiene appunto, come i machisti che il sesso e' un prodotto sociale, e' un riflesso di una idea che e' stata assegnata. Da cui discende tutta la teoria del genere attualmente in vigore. Cioè' si confonde la realtà materiale del genere con l'idea del genere. Fermo stante che l'ermafroditismo e' sempre esistito, constatato e accettato dalle comunità. altro e' teorizzarlo come prodotto sociale. Lenin polemizzando con i machisti, non faceva dunque solo una "lotta per il potere all'interno del partito" ma stava indicando una via fondamentale di come ubicarsi nella realta' tuttora valida.
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max
Wednesday, 26 March 2025 12:25
L’articolo, a partire in particolare dal paragrafo 3, si immerge a profusione in quel “revisionismo filosofico tipico” di cui parlava Lenin – rectius: tipicamente universitario, secondinternazionalista e socialdemocratico - a sua volta tipica espressione dell’attuale condizione di chi nelle università occidentali continua (suo malgrado) a “ruminare nella filosofia”. Due punti in particolare, perché il tempo è breve e perché ogni volta, come diceva Lenin, bisogna sempre precisare, precisare, e precisare…1) “mi pare opportuno sottolineare che tra Lenin e i così detti “machisti” non è mai in gioco lo scontro tra “ortodossia ed eresia”, tra tendenze totalitarie da una parte e genuinamente democratiche dall’altra […] tra Lenin e Bogdanov, ovvero tra i protagonisti di due rivoluzioni, una sociale e l’altra politica, distinte non per grado ma per natura, non si consuma una lotta per la “libertà” ma per l’egemonia”. Bene, filologicamente (perché gli scritti vanno studiati attentamente), sfugge che, dopo il fallimento del 1905, dopo la confusione che ne sorse, tra i Lunaciarski che cercavano dio, tra i Bogdanov, i Suvorov ecc. che pretendevano di mettere in discussione il materialismo dialettico, con ritorni a Kant a Berkeley e via discorrendo ecc., Lenin insistette ed insistette sulla necessità di salvaguardare l’unità politica dei bolscevichi, la quale non doveva risultare compromessa da questioni filosofiche, seppure rilevanti, che il “democratico” Bogdanov aveva cominciato ad abbracciare. In una risposta al giornale Proletari nel febbraio del 1908, Lenin scrive: «questa disputa filosofica non è... e non deve essere disputa di frazioni; qualsiasi tentativo di presentare questi dissensi come dissensi di frazione è radicalmente sbagliato», [in V. I. Lenin, Dichiarazione della redazione del Proletari, vol. 13, p. 424]. E in una lettera a Gorki del 25 febbraio 1908, Lenin ribadisce ancora: «ostacolare l’opera svolta ad attuare nel partito operaio la tattica della socialdemocrazia per dispute sulla superiorità del materialismo o del machismo sarebbe, a mio avviso, un’inammissibile sciocchezza. Dobbiamo azzuffarci a motivo della filosofia in maniera che il Proletari e i bolscevichi come frazione del partito, non ne siano danneggiati. E ciò è pienamente possibile», [in V. I. Lenin, Lettera a Gorki, vol. 13, p. 429]. Le priorità erano dunque altre, perché si trattava di capire quale via occorresse intraprendere, quella rivoluzionaria o quella dell’evoluzione graduale che, tuttavia, conduceva di fatto a neutralizzare le conflittualità attraverso insostenibili politiche di compromesso con la borghesia liberale. Chiaro!!! 2) “Si comprende poco e male il leninismo se si convertono in risultati dottrinali le continue e spesso pretestuose trasgressioni alla precettistica socialdemocratica.”. “Pretestuose trasgressioni” che l’articolo pensa di aver individuato con il noto (anche se non ai più) scritto L’importanza dell’oro del 1921 (vol. 33). Questo scritto andrebbe letto bene e meglio (ma soprattutto dialetticamente connesso con precedenti scritti di Lenin, uno dei quali da lui stesso citato), perché ad un certo punto, a p. 93, Lenin dice con grande coerenza, e non nascondendosi come avrebbero fatto molti: “Ci dicono: dopo aver provato i metodi rivoluzionari, avete riconosciuto che hanno fatto fiasco e siete passati ai metodi riformisti; non è questa una prova che voi considerate in generale la rivoluzione come un errore? Non è questa la prova che non si doveva, in generale, cominciare con la rivoluzione, ma si doveva cominciare con le riforme e limitarsi alle riforme?”. E a p. 95: “scrivevo nell’aprile 1918 nei Compiti immediati del potere sovietico…che bisogna trovare in ogni momento l’anello particolare della catena a cui aggrapparsi con tutte le forze per reggere tutta la catena e preparare solidamente il passaggio all’anello successivo”…A p. 43, “Noi abbiamo imparato anche, per lo meno fino a un certo punto, un’altra arte, necessaria nella rivoluzione: la flessibilità, la capacità di cambiare rapidamente e bruscamente la nostra tattica, di tenere in considerazione i mutamenti delle condizioni oggettive, di scegliere una nuova via verso il nostro scopo se quella di prima si è dimostrata inapplicabile, impossibile per un determinato periodo di tempo”. Proprio come già aveva sottolineato nei Quaderni filosofici, anteriori alla Rivoluzione, rovesciando materialisticamente Hegel, perché non esiste nulla di permanente o di assolutamente definito, perché tutto è interattivo e rientra nella natura dei rapporti materiali e sociali in continuo cambiamento. Di qui l’importanza della elasticità di ogni ragionamento (altro che ortodossia o risultati dottrinali o pretestuose trasgressioni), nel senso che i concetti dell’uomo devono essere «affinati, elaborati, duttili, mobili, relativi, reciprocamente connessi, essere uno nelle opposizioni, per poter abbracciare il mondo» (p. 137). Lenin ha saputo comprendere i momenti oggettivi della storia. Dialetticamente e materialisticamente. Ha saputo fare i conti sia con l’economismo, sia con il soggettivismo che è sempre vissuto e continua a vivere all’interno del movimento comunista, perché la duplicità antagonistica di idealismo e materialismo va concepita non in senso statico, ma dialettico. Le categorie leniniste, contrabbandate alla stregua di “tante dottrine e tante posture ortodosse, quante sono le “svolte inevitabili” della necessità storica”, presentano sempre un carattere operativo necessario di arricchimento della dialettica e della prassi, senza le quali gradualismo e riformismo sono invincibili. Chiaro!!!
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Sergio
Thursday, 27 March 2025 15:59
Ma infatti a me sembra che sia proprio questo che sostiene l'autore. Non capisco dove leggete una critica a Lenin. L'autore scrive ad esempio:

"l proposito di opporre un determinismo d’ispirazione hegeliana (processualismo) a un’altra specie di determinismo, profondamente infiltrato dall’evoluzionismo e riconducibile grossomodo all’asse Engels-Kautsky, può fornire una indicazione di massima sulla peculiarità dell’esperimento bolscevico".
E poi subito dopo:" L’eccezione leniniana non cessa di tormentare i sacerdoti del marxismo occidentale37; essa si incarna nell’evento non previsto e non prevedibile, non sul piano del marxismo come “scienza”, della rivoluzione bolscevica. Il fenomeno del leninismo è per così dire un caso di logica paraconsistente: dimostra la possibilità, e più ancora la praticabilità, di un pensiero che si muove in senso processualista e insieme rivoluzionario. E non solo. Come artefice dell’Ottobre, Lenin è da una parte anti-determinista e dall’altra decisionista. ’eccezione leniniana non cessa di tormentare i sacerdoti del marxismo occidentale; essa si incarna nell’evento non previsto e non prevedibile, non sul piano del marxismo come “scienza”, della rivoluzione bolscevica. Il fenomeno del leninismo è per così dire un caso di logica paraconsistente: dimostra la possibilità, e più ancora la praticabilità, di un pensiero che si muove in senso processualista e insieme rivoluzionario".

l’intento dell’autore non è quello di sollevare una polemica con Lenin. L’autore si propone di decostruire il determinismo marxista tradizionale, affermando che la rivoluzione è un salto qualitativo contingente - non lineare né inevitabile - dove la politica, dopo aver servito da strumento di emancipazione, deve autodissolversi in una prassi sociale liberata, in un movimento anulare che trasforma retroattivamente il senso stesso della storia.

saluti
s
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