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gyorgylukacs

Introduzione [a Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale]

di Nicolas Tertulian

I testi: Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale. Questioni di principio di un’ontologia oggi divenuta possibile, Guerini e Associati, Milano, 1990

download 2.jpgProlegomeni all’Ontologia dell’essere sociale possiedono il valore di un testamento, per il fatto di essere l’ultimo grande testo filosofico di Lukács. Vennero infatti redatti poco prima della sua morte.

Sapendolo impegnato nella redazione dell’Ontologia, opera molto attesa da tutti coloro che erano interessati al suo pensiero, in una lettera spedita da Parigi, dove ci trovavamo per tenere alcune conferenze sulla sua Estetica, gli avevamo chiesto notizie intorno al suo lavoro. Il 14 gennaio 1971 egli ci mandò questa breve risposta, che permette di datare la nascita dei Prolegomeni: «Con l’Ontologia procede assai lentamente. In autunno ho messo giù la prima stesura di un prolegomenon (circa 300-400 pagine). Ho ancora il problema della revisione e della eventuale rielaborazione. (Purtroppo ho avuto nel frattempo una [parola indecifrabile] leggera influenza; alla mia età però la capacità di lavorare ritorna assai lentamente)».

Quando poi, due mesi dopo, gli facemmo visita a Budapest, il filosofo non aveva ancora rivisto il testo: era in corso il lavoro di decifrazione e la battitura a macchina. La «leggera influenza» di cui aveva parlato nella lettera (probabilmente un sintomo del male che doveva portarselo via il 4 giugno seguente) gli lasciò il tempo di stendere qualche appunto autobiografico, pubblicato sotto il titolo di Gelebtes Denken, ma non quello di rivedere il testo dei Prolegomeni. La morte venne a interrompere la realizzazione di un grande progetto i cui lavori preparatori risalivano al maggio 1960 – vale a dire esattamente al momento in cui egli aveva messo il punto finale al voluminoso manoscritto dell’Estetica[1]  – e nel quale l’Ontologia dell’essere sociale appariva come il preludio necessario di un’Etica. Fino agli ultimi momenti della propria vita il filosofo nutrì la speranza di realizzare questo progetto, di dare cioè un séguito logico alla sua Ontologia, séguito che doveva essere costituito dall’Etica, come testimonia una lettera del 30 dicembre 1970 indirizzata a Ernst Bloch.

Dopo alcuni alti e bassi, l’amicizia che li aveva legati in gioventù era ripresa in occasione di una iniziativa avviata da Lukács in favore di Angela Davis, alla quale Ernst Bloch si era associato molto volentieri. Più o meno quindi cinque mesi prima della morte, Lukács scriveva al suo amico di gioventù che l’argomento dell’opera che progettava di scrivere era «die Entwicklung der menschlichen Gattungsmässigkeit», lo sviluppo della genericità umana. L’Ontologia, ivi compresi i Prolegomeni, culmina effettivamente in una teoria del genere umano (distinguendo fra Gattungsmässigkeit an-sich e Gattungsmässigkeit für-sich, fra genericità in-sé e genericità per-sé) ed era l’Etica che avrebbe dovuto svolgere questa problematica. «Per quanto riguarda me» scriveva al suo corrispondente «spero nei prossimi mesi di riuscire a finire un ‘Prolegomeni all’Ontologia dell’essere sociale’», e si tratta di un passo importante, perché conferma che Lukács si proponeva di rivedere ancora il testo dei Prolegomeni. «E se successivamente scriverò una prosecuzione teorica (sviluppo della genericità umana) oppure quello che tanto desiderano i miei giovani amici (una autobiografia intellettuale) non è ancora sicuro. Sarebbe bello essere capaci di lavorare per un periodo sufficiente a finire tutt’e tre le cose»[2].

Circa le ragioni che indussero il vecchio filosofo a scrivere i suoi Prolegomeni dopo aver terminato il testo dell’Ontologia (nelle lettere a Frank Benseler, curatore delle sue opere, egli dava notizia di aver completato questo testo, in «una prima redazione», nel corso del 1968) non si possono che formulare congetture. Lukács pensò all’illustre esempio di Kant, che due anni dopo la Critica della ragion pura fece apparire i Prolegomeni a ogni futura metafisica? Non è escluso. Resta il fatto che egli ha sentito il bisogno d’esporre in forma più condensata (l’Ontologia aveva una mole di circa 1500 pagine) le idee guida del suo lavoro e i suoi obiettivi. Il sottotitolo dei Prolegomeni, «Questioni di principio di una ontologia oggi divenuta possibile», lascia trasparire chiaramente questa intenzione. Secondo qualche testimonianza (in specie quella di István Eörsi, suo traduttore in ungherese), Lukács aveva qualche dubbio intorno al modo in cui era organizzata la materia dell’Ontologia, suddivisa in una parte storica (dove tuttavia il capitolo su Nicolai Hartmann precede quelli su Hegel e su Marx, scostandosi così dall’ordine cronologico) e in una parte teorica, il che poteva aver dato luogo a qualche ripetizione. Concepiti come un discorso strettamente teorico, che aveva per compito di fissare i punti base dell’Ontologia, i Prolegomeni non conoscono questa dicotomia.

Dopo la morte di Lukács un gruppo di filosofi ungheresi (tra cui alcuni ex allievi come Ágnes Heller), al quale egli aveva consegnato il manoscritto dell’Ontologia a mano a mano che procedeva, pubblicò un lungo testo, composto da una sintesi delle proprie osservazioni critiche intorno all’Ontologia e da una introduzione in cui si dava conto delle discussioni che il gruppo aveva avuto con Lukács a tale proposito. Pubblicate in traduzione italiana alla fine degli anni Settanta nella rivista «aut aut» e successivamente in inglese e in tedesco, queste Annotazioni sull’ontologia per il compagno Lukács, datate 1968-1969 e 1975, ebbero l’effetto di creare un pregiudizio piuttosto sfavorevole nei confronti dell’opus postumum lukacsiano, soprattutto in un momento in cui il lettore non aveva la possibilità di farsene una idea autonomamente. Il testo integrale dell’Ontologia era ancora inaccessibile: la traduzione italiana della seconda parte – la più importante – è apparsa solo nel 1981 e la versione originale, quella tedesca, che includeva anche i Prolegomeni, ancora più tardi, nel 1984 e nel 1986. In tali circostanze la precipitazione di far conoscere tali Annotazioni non può essere spiegata che con la volontà degli autori di segnalare a ogni costo la propria separazione definitiva, su punti essenziali, dal pensiero del loro maestro.

Si tratta di un episodio importante dal nostro punto di vista, giacché, considerando che i Prolegomeni sono stati scritti dopo che Lukács aveva conosciuto le critiche formulate da questo gruppo di filosofi, suoi amici e discepoli, ci si potrebbe domandare se la decisione di scrivere post festum una lunga introduzione all’opera non sia stata presa appunto per rispondere alle loro obiezioni. Ora, una lettura dei Prolegomeni alla luce delle Annotazioni mostra con ogni evidenza che Lukács non ha cambiato d’uno jota le sue posizioni di fondo, quali sono state espresse lungo l’intero testo iniziale. Nonostante le affermazioni dei quattro lettori, i quali ci assicurano che il filosofo aveva ammesso per una grande parte la pertinenza delle loro critiche, non è possibile non riscontrare che Lukács non sembra neppure aver registrato tali obiezioni: egli continua a esplicitare imperturbabilmente le proprie posizioni filosofiche che, secondo i suoi allievi, furono oggetto di una viva contestazione da parte loro. Si comprende allora come mai gli autori delle Annotazioni abbiano tenuto fino a oggi un silenzio assoluto a proposito dei Prolegomeni: il contenuto di questo libro oppone di per sé una fin de non-recevoir al loro discorso critico. Il solo risultato tangibile di tali discussioni sarà stato probabilmente la sensazione di Lukács di non essere riuscito con il testo della grande Ontologia a esprimere con sufficiente pregnanza le proprie intenzioni fondamentali. È dunque permesso supporre che egli decise di scrivere i Prolegomeni per esporre in termini più limpidi e sintetici il suo programma di ricostruzione dell’ontologia.

Concepiti dunque come introduzione al testo principale dell’Ontologia, i Prolegomeni tuttavia ne rappresentano di fatto una vasta conclusione. L’edizione ungherese dell’Ontologia d’altronde ha scelto di collocarli alla fine dell’opera, come un terzo volume, mentre l’editore tedesco ha preferito attenersi alla lettera del progetto di Lukács.

Al fine di favorire la comprensione dei Prolegomeni, ci sembra utile tracciare qui qualche osservazione a proposito dell’Ontologia di Lukács nel suo insieme.

La pubblicazione integrale, nella sua versione originale, dell’ultima grande opera filosofica di György Lukács, Zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins, ha avuto luogo in un periodo che sembra poco favorevole a una sua recezione adeguata. Apparsi nel 1984 e nel 1986, i due grandi volumi pubblicati dalla casa editrice Luchterhand hanno visto la luce l’uno 13 e l’altro 15 anni dopo la scomparsa del pensatore: si tratta dunque veramente dell’opus postumum di Lukács. Paradosso vuole, che nel momento in cui «il crollo del marxismo» è presentato dalla massima parte dei media, soprattutto in Francia e in Italia, come fatto evidente, compaia l’Ontologia di Lukács, la più ambiziosa e la più importante ricostruzione filosofica del pensiero di Marx che si sia potuta registrare negli ultimi decenni.

Punto di compimento d’una traiettoria estremamente lunga – la prima opera del suo autore, Entwicklungsgeschichte des modernen Dramas, era terminata nel 1908 e l’ultimo tocco all’Ontologia venne dato nel 1970, anno di stesura dei Prolegomeni  l’Ontologia apporta alcune novità rilevanti nel paesaggio dell’opera lukacsiana. Il filosofo vi presenta per la prima volta in un contesto sistematico la critica al neopositivismo, per esempio a taluni scritti di Carnap o al Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein. Il neopositivismo gli appare come il mallevadore filosofico del regno della manipolazione. Si può addirittura affermare che la svolta verso l’ontologia è in lui un’energica reazione contro una certa egemonia del neopositivismo sulla scena filosofica: davanti ai tentativi di omogeneizzazione via via più esplicita della vita sociale, sottomessa agli imperativi del calcolo e della quantificazione, l’Ontologia dell’essere sociale intende far valere l’eterogeneità e la differenziazione estreme del tessuto della società, opponendo un rifiuto netto alla confisca degli individui e alla manipolazione. Heidegger e Lukács s’incontrano quando respingono la cibernetizzazione dell’esistenza e quando mettono in guardia contro l’impresa della manipolazione genetica della vita umana, ma le soluzioni proposte da ciascuno dei due filosofi sono – com’era da attendersi – l’una il contrario dell’altra. L’ontologia heideggeriana è di fatto il bersaglio degli attacchi di Lukács. Oltre a mantenere l’essenziale delle critiche formulate nell’opera precedente La distruzione della ragione, nell’Ontologia Lukács denuncia le carenze dell’analitica del Dasein sul terreno etico. Esaminando per esempio la famosa dualità heideggeriana di esistenza inautentica ed esistenza autentica, tema centrale anche della sua stessa riflessione, egli nota la mancanza di contenuto etico positivo in categorie come das Gewissen (la coscienza) o die Entschlossenheit (la risolutezza) e l’astrazione in cui sfocia la trascendenza del Dasein. Alla profondità enigmatica dell’Essere heideggeriano, vero pendant del silenzio preteso da Wittgenstein davanti ai grandi problemi dell’esistenza (l’espressione hegeliana leere Tiefe, «vuota profondità», figura nel motto premesso da Lukács al capitolo sul neopositivismo e l’esistenzialismo), egli contrappone una immagine riccamente articolata dell’essere, fondata sul principio hartmanniano della stratificazione progressiva dei livelli ontologici. Ma il vero principium movens dell’Ontologia dell’essere sociale va cercato altrove.

Lukács era perfettamente consapevole dell’estremo impoverimento subito dal pensiero marxista durante l’epoca staliniana. Ai suoi occhi, lo stalinismo consisteva non soltanto in un periodo di «profonda inumanità» e di crimini, ma anche in un insieme di vedute teoriche che avevano pervertito il pensiero di Marx nella sua stessa sostanza. L’Ontologia dellessere sociale rappresenta così uno sforzo gigantesco inteso a riesaminare passo dopo passo le categorie fondamentali del pensiero marxiano, al fine di ridare al marxismo la sua densità e sostanzialità, rivelando al medesimo tempo le radici della sua degradazione dovuta allo stalinismo. Opera di sintesi, concepita nel corso degli anni Sessanta, l’Ontologia voleva anche fare il punto sui dibattiti che avevano agitato il pensiero marxista negli ultimi decenni. Non va dimenticato che Lukács era stato uno degli attori principali delle discussioni avviate da Sartre e Merleau-Ponty alla metà degli anni Cinquanta sulla natura del marxismo. Sartre l’aveva vivamente attaccato in Questioni di metodo e Merleau-Ponty si era occupato lungamente di lui nelle Avventure della dialettica. D’altra parte la glorificazione della giovanile Storia e coscienza di classe e la messa in discussione invece della sua opera matura erano diventate moneta corrente in certe zone intellettuali. L’Ontologia gli dava un’occasione per intrattenersi a lungo su questi punti di dissenso e per fornire chiarimenti circa i problemi fondamentali del marxismo e la fondatezza della propria evoluzione.

Prendiamo ad esempio il concetto di necessità nella storia, che a noi sembra uno dei punti d’avvio del suo pensiero ontologico. Nelle conversazioni con István Eörsi ed Erzsébet Vezér intorno alla sua autobiografia intitolate Gelebtes Denken, conversazioni che ebbero luogo nel maggio 1971, un mese prima della morte, Lukács afferma a un certo punto che le origini dell’interpretazione logicizzante e necessitarista della storia – diffusa nel periodo staliniano, ma anche in precedenza, all’epoca della Seconda Internazionale – risalgono a Friedrich Engels. Egli non esita a mettere in discussione Engels, come aveva già fatto a più riprese in diversi luoghi dell’Ontologia, al fine di distinguere il pensiero autenticamente ontologico di Marx dalla interpretazione che ne dava Engels, ai suoi occhi ancora troppo impregnata di logicismo hegeliano. L’interesse di questo passo sta evidentemente nel fatto che sul piano strettamente filosofico Engels è ritenuto responsabile in certo modo della deformazione staliniana del marxismo: «Io credo, prima di tutto è molto importante – e senza questa deformazione lo stalinismo non sarebbe stato possibile – il fatto che Engels e, dietro di lui, taluni socialdemocratici abbiano interpretato lo sviluppo della società in termini di necessità in contrasto con quelle connessioni sociali di cui parla Marx. Marx praticamente dice sempre che x uomini della società in questione reagiscono in maniera x a un dato sistema di lavoro e che da queste reazioni x si sintetizza il processo che si verifica in quella società. Ipso facto, questo non può più essere necessario nel senso in cui due per due fa quattro»[3].

Lukács identifica in Engels una certa distorsione del rapporto fra l’universale e il particolare o, più precisamente, fra la necessità e la casualità. La sottovalutazione del peso delle casualità e il credito eccessivo accordato alla forza coercitiva della necessità, che governerebbe la storia come una forza impersonale o come un deus absconditus, a lui paiono reminiscenze di filosofia hegeliana.

La critica rivolta da Nicolai Hartmann alla filosofia hegeliana – la quale, secondo lui, privilegiava indebitamente il ruolo dell’universale logico e minimizzava il peso degli individui e delle loro azioni singole – trova una eco in Lukács: i rimproveri che egli fa a Engels si accordano su questo punto con le obiezioni di Hartmann a Hegel.

Nicolai Hartmann nell’introduzione al suo libro intitolato Möglichkeit und Wirklichkeit aveva scritto, a proposito della filosofia della storia hegeliana, che «essa fa valere come storicamente reale» (geschichtlich-wirklich) solamente ciò che è realizzazione dell’«Idea» (eines substantiell wirkenden geistigen Prinzip, «di un principio spirituale che agisce in maniera sostanziale»), mentre la grande massa degli uomini, degli avvenimenti, dei destini privati rimane «irreale» (unwirklich) e retrocede a massa di detriti della storia (zum Schutt der Geschichte zurückfällt): «La violenza metafisica del concetto teleologico della realtà forse non si è mai presentata con tanta terribile chiarezza come in questa tarda estremizzazione»[4] .

Nicolai Hartmann aveva insistito nei suoi lavori sul fatto che la necessità è una categoria modale subordinata alla realtà e alle determinazioni inscritte nel cuore dei fenomeni. Lukács riprende le analisi di Hartmann, mettendo l’accento sul carattere relativo e condizionato della necessità: se in un contesto determinato è riunito un certo numero di condizioni, allora l’effetto che ne deriva ha un carattere necessario e irreversibile. Lukács parla, di conseguenza, di una Wenn-Dann-Notwendigkeit (necessità se-allora). Tutt’altro che onnipotente e trascendente, la necessità appare sempre funzionale alle determinazioni del reale ed esprime le connessioni che ne derivano: cambiando le premesse (che possono presentarsi in maniera imprevista e «casuale» rispetto al contesto dato), noi cambiamo anche il corso dei fenomeni. La razionalità dei fatti non può essere stabilita che post festum e ogni tentativo di farli entrare in stampi prestabiliti (a partire da una griglia a priori della razionalità) non può che finire in uno scacco.

Nel capitolo dell’Ontologia dedicato a Marx, Lukács critica Engels per aver risolto male il dilemma «storicamente o logicamente», formulato a proposito della concezione marxiana della storia. Occupandosi del Per la critica dell’economia politica di Marx, Engels aveva affermato che la comprensione della storia esige come solo metodo adeguato «die logische Behandlungsweise», «il modo logico di trattare» la materia, il quale «non è però altro che il modo storico, unicamente spogliato della forma storica e degli elementi occasionali perturbatori». «Storia spogliata della forma storica», esclama ironicamente Lukács e commenta: «Soprattutto qui sta il ritorno di Engels a Hegel»[5].

Questo esempio ci permette di comprendere la tendenza profonda dell’Ontologia di Lukács. Il suo fine è di superare due deformazioni simmetriche del pensiero di Marx, ciascuna delle quali ha contribuito a intaccarne o magari distruggerne la credibilità. Il determinismo univoco, che assolutizza la potenza del fattore economico togliendo efficacia agli altri complessi della vita sociale, viene condannato con vigore non inferiore a quello usato nel condannare l’interpretazione teleologica, che da parte sua feticizza la necessità in quanto considera ogni formazione sociale o ogni azione storica come una tappa nel cammino verso la realizzazione di uno scopo immanente o trascendente. È l’epiteto di «perturbatore» applicato all’elemento casuale che fa reagire Lukács davanti al testo di Engels, giacché gli ricorda una certa tendenza hegeliana a privilegiare la categoria della necessità (Hegel nel paragrafo 119 (Aggiunta 1) della sua Enciclopedia aveva scritto: «il vero pensiero è un pensiero della necessità»).

Sollecitato nel 1967 a collaborare a un volume in omaggio di Wolfgang Abendroth, Lukács decise di pubblicare per la prima volta un frammento della sua Ontologia (frammento che, prima della sua apparizione nel volume antologico, venne pubblicato anche dalla rivista «Forum» di Vienna). Ed è significativo che in tale circostanza egli scegliesse le pagine del capitolo su Marx dove si discute del razionalismo a oltranza nell’interpretazione della storia. Occultando la diversità e l’eterogeneità delle categorie di possibilità e di casualità, questo razionalismo arrivava a sacrificare a una visione rettilinea e monolitica l’ineguaglianza di sviluppo dei differenti complessi. Qui la mira era diretta contro lo stalinismo, e infatti Lukács sottolineava con forza, appoggiandosi a Lenin, il carattere per definizione non classico dello sviluppo del socialismo in Unione Sovietica (mentre la canonizzazione del modello sovietico era per l’appunto uno dei pilastri dello stalinismo). Quando poi nelle sue conversazioni autobiografiche con Eörsi e Vezér definirà lo stalinismo un «iperrazionalismo» (e nel 1956 aveva parlato di «idealismo volontaristico»), egli non farà che denunciarne la medesima inclinazione a far violenza alla storia: la razionalità estremamente differenziata e complessa del processo storico veniva sostituita con schemi riduttivi a carattere deterministico oppure teleologico.

La svolta verso l’ontologia s’era dunque prodotta in Lukács sul fondamento di una duplice reazione. Davanti al neopositivismo – che tendeva a ridurre la realtà alla sua apprensione cognitiva, a ciò che in essa è misurabile e riducibile a termini logici, mentre si liberava dei problemi ontologici attribuendoli alla sfera della «metafisica» – egli intendeva ristabilire l’autonomia ontologica del reale, la sua totalità intensiva e la sua irriducibilità alla pura manipolazione. La complementarità fra egemonia del positivismo e resurrezione delle ideologie religiose veniva da lui illustrata affermando provocatoriamente che il pensiero di Carnap ha oggi la stessa funzione che ebbe nel Medioevo il pensiero di Tommaso d’Aquino[6] . D’altra parte, la tendenza del marxismo dogmatico a privilegiare la categoria della necessità, rendendo ipertrofico il suo ruolo nella storia, induceva Lukács a riflettere a fondo sui rapporti fra le categorie modali (possibilità, necessità, casualità) e a riesaminare criticamente i fondamenti stessi del pensiero di Marx. Non va dimenticato che l’Ontologia dell’essere sociale è nata sullo sfondo di una vasta ricerca consacrata ai problemi dell’etica. Dopo molti anni di ricerche (e il volume Kleine Notizen zur Ethik, annunciato dall’Archivio Lukács, dovrebbe darne testimonianza) egli si rendeva conto che non era possibile stabilire la specificità dell’attività etica fuori da una riflessione d’insieme, di carattere contrappuntistico, sulle componenti principali della vita della società (economia, politica, diritto, religione, arte, filosofia): l’Ontologia dell’essere sociale rappresenta il concretarsi di questo vasto programma totalizzante, destinato a preparare l’Etica (che sfortunatamente non sarà mai realizzata).

Una delle sorprese di quest’opera, se la paragoniamo ai lavori precedenti dell’autore, è la parte importante attribuita a Nicolai Hartmanm. Certamente, la stima di Lukács per la filosofia della natura di Hartmann e per il suo opuscolo Pensiero teleologico (1951) appariva già nell’Estetica, dove egli intavolava un dialogo fecondo con l’Estetica del filosofo tedesco. Sembra tuttavia che egli non abbia preso in considerazione i tre grandi libri ontologici di Hartmann, Zur Grundlegung der Ontologie (Per la fondazione dell’ontologia), Möglichkeit und Wirklichkeit (Possibilità e realtà), Der Aufbau der realen Welt (L’edificio del mondo reale), prima di intraprendere i lavori preparatori per la propria ontologia. Colpisce riscontrare come neppure il progetto di collocare esplicitamente l’ontologia alla base della riflessione filosofica appaia mai, in quanto tale, negli scritti che precedono l’Ontologia dell’essere sociale. Possiamo allora dire che gli scritti ontologici di Hartmann hanno fatto da catalizzatore nella riflessione di Lukács; verosimilmente gli hanno inculcato l’idea di cercare nell’ontologia e nelle sue categorie le basi del proprio pensiero. Né egli si lasciò minimamente turbare dagli attacchi cattivi di Ernst Bloch contro Nicolai Hartmann. D’altronde l’atteggiamento fortemente critico di Lukács verso il pensiero dell’ultimo Bloch[7] , in particolare la sua filosofia della natura, non poteva che rinsaldarne la solidarietà con Hartmann.

Autore già nel 1924 di un vero articolo-programma, Wie ist kritische Ontologie überhaupt möglich? (Com’è possibile una ontologia critica?), allora pubblicato in un volume in onore di Paul Natorp[8] , Hartmann appariva a Lukács un pensatore con il quale aveva certe affinità, soprattutto in quanto critico penetrante del teleologismo. Uno degli obiettivi principali dell’Ontologia dell’essere sociale era per l’appunto, come abbiamo visto, di dissipare il pregiudizio assai diffuso che identificava il pensiero di Marx con una semplice variante materialistica della filosofia hegeliana della storia, variante che sarebbe nata convertendo l’automovimento dell’Idea logica in automovimento, a carattere egualmente finalistico, dei rapporti di produzione.

La definizione hartmanniana delle categorie – che ne faceva dei «principi dell’essere» (Seinsprinzipien) e non delle «essenze logiche» (logische Wesenheiten), definizione che colpiva il teleologismo alle radici – poté apparire a Lukács perfettamente convergente con la caratterizzazione che ne aveva proposto Marx: «Daseinsformen, Existenzbestimmungen» (forme dell’esserci, determinazioni dell’esistenza). Egli venne così a trovarsi d’accordo con la critica di Hartmann verso la riduzione kantiana delle categorie a semplici «determinazioni dell’intelletto» (Verstandesbestimmungen), il cui corollario era il primato della gnoseologia nella problematica filosofica, e soprattutto con la sua energica sconfessione dei neokantiani i quali avevano decretato, con un vero e proprio atto di forza filosofico, la soppressione della cosa in .

La coincidenza delle due posizioni è quasi perfetta quanto all’analisi del rapporto fra teleologia e causalità. Questa coppia categoriale è per Lukács la chiave di volta di una giusta comprensione della vita sociale. Nel libro Il giovane Hegel egli aveva sottolineato la novità del punto di vista di Hegel nei confronti di quelli di Hobbes e di Spinoza: con la scoperta del ruolo del lavoro nella genesi della vita sociale Hegel aveva affermato l’irriducibilità dell’attività finalistica al semplice concatenarsi spontaneo delle cause efficienti. Lukács viene dunque a ritrovarsi in un paesaggio familiare quando legge le analisi di Nicolai Hartmann intese a sottolineare con energia l’eterogeneità fra il nesso finale e il nesso causale così come la necessaria dipendenza del primo dal secondo[9] . La posizione teleologica (die teleologische Setzung) non può verificarsi che utilizzando le catene causali, perché la causalità necessariamente preesiste all’attività finalistica (Hartmann dice del nesso finale che è una «Überformung der Kausalität», una sovra-formazione delle catene causali): le catene causali sono nell’immanenza della realtà infinite, mentre la coscienza «positoria», la coscienza che pone un fine, si muove sempre entro orizzonti delimitati. Nella tensione dialettica fra teleologia e causalità, fra le rappresentazioni della coscienza che fissa i suoi scopi e la realtà indelimitabile delle catene causali, Lukács vede il principium movens dell’atto del lavoro.

Fissando nella «posizione teleologica» la cellula generatrice (l’Urphänomen, il «fenomeno originario») della vita sociale e nella proliferazione delle «posizioni teleologiche» il suo contenuto dinamico, Lukács rende impossibile la confusione fra la vita della natura e la vita della società: la prima è dominata dalla causalità spontanea, non teleologica per definizione, mentre la seconda è costituita a opera degli atti finalistici degli individui. Ma la connessione indissolubile tra finalismo e causalità gli permette di dimostrare sia il carattere di irriducibilità del mondo dei valori, che è un prodotto della coscienza «positoria» (i fini non sono mai semplici epifenomeni della causalità naturale), sia il necessario radicarsi dei valori nella rete delle catene causali, oggettive e soggettive. La sua ontologia dell’essere sociale ha quindi come fondamento una teoria dialettica della genesi dei valori. La posizione dei fini, la cui origine si trova nei bisogni incessantemente rinnovati ed estremamente diversificati degli individui, può venir dissociata dalla presa d’atto delle determinazioni del reale (incluse le possibilità e le latenze) solamente «pena la rovina» (una espressione di Marx – bei Strafe des Untergangs  che torna di continuo, come un leitmotiv, sotto la penna di Lukács). Ne risulta che le posizioni teleologiche sono doppiamente condizionate: autocondizionate dalla coscienza che pone, la quale agisce sotto il regime dei bisogni e dei progetti individuali, ed eterocondizionate dalle determinazioni oggettive del reale. Com’è ovvio, i due aspetti sono inestricabilmente collegati. Lukács d’altronde distingue perlomeno due tipi di posizioni teleologiche: quelle che hanno come oggetto la natura in sé, quelle cioè che assicurano il ricambio organico fra la società e la natura (il cui esempio privilegiato è la soddisfazione dei bisogni economici), e quelle che hanno come oggetto la coscienza degli altri, quelle cioè che tentano di influenzarne e di modellarne il comportamento (è la zona dei rapporti intersoggettivi per eccellenza, la quale trova il proprio culmine nell’etica).

Lo sforzo di rendere giustizia alla specificità di tutti i tipi di posizione teleologica, prendendo atto sia della loro necessaria interazione che della legge interna di ciascuno di essi, conduce a risultati importanti. La società viene definita un «complesso di complessi». Sottolineando con forza l’eterogeneità di ciascun complesso rispetto all’altro, ivi compresi quelli più intimamente collegati (per esempio il diritto e l’economia), e affermando la logica irriducibile di ciascuno, Lukács esclude definitivamente la concezione rettilinea e monolitica del progresso storico.

Il filosofo può così prendere le distanze sia dal determinismo di tipo fatalista – che sotto forma di economicismo ha dominato a lungo nella rappresentazione corrente del marxismo – che dalle filosofie della storia a carattere teleologico.

È lo sviluppo ineguale dei differenti complessi sociali, delineato da Marx in un testo famoso, che essenzialmente lo interessa: egli continua a rammentare, per esempio, che la logica del diritto e la logica dell’economia sono tutt’altro che perfettamente congruenti, giacché i rapporti giuridici sono il risultato d’una opzione relativamente autonoma, la quale non è mai un semplice epifenomeno dei rapporti economici; oppure osserva che progresso economico e progresso morale non coincidono affatto, in quanto la logica dello sviluppo economico e l’autoaffermazione della personalità umana talvolta sono asimmetriche, perché ciascuna di esse possiede una sua traiettoria e una propria legalità irriducibile (il che non esclude le connessioni a livello profondo, giacché un progetto etico che faccia astrazione dallo stato dei rapporti di proprietà è difficilmente concepibile).

La discriminazione fra i differenti tipi di posizione teleologica è fondata, in ultima istanza, sulla distinzione fra le azioni esercitate sotto gli imperativi della coazione (economica, innanzi tutto) e quelle che beneficiano di un più ampio margine di scelta e di decisione libera. Arriviamo così a un punto cruciale della dimostrazione lukacsiana: il modo in cui l’autore dell’Ontologia dell’essere sociale concepisce il rapporto fra teleologia e causalità nell’immanenza della vita sociale. La tesi di base è che i processi sociali vengono messi in moto esclusivamente a opera degli atti teleologici degli individui, ma che la totalizzazione di questi atti in una risultante finale ha un carattere eminentemente causale, privo di ogni impronta finalistica. Questa tesi è sembrata talmente paradossale, o così difficile da accettare, che i primi lettori del manoscritto dell’Ontologia dell’essere sociale (Ferenc Fehér, Ágnes Heller, György Márkus, Mihály Vajda) ne trassero la conclusione che nel testo di Lukács coesistevano due ontologie divergenti e incompatibili fra loro: una ontologia dominata dal concetto di necessità, ancora tributaria del modo di vedere del marxismo tradizionale, e una ontologia il cui centro di gravità era l’autoemancipazione dell’uomo, quindi a carattere finalistico (la formulazione è nostra, ma tenta di cogliere l’essenziale delle loro obiezioni)[10] .

Per comprendere il ragionamento lukacsiano, occorre riportare alla mente la sua tesi filosofica principale, che egli d’altronde condivide con Nicolai Hartmann: le posizioni teleologiche degli individui non pervengono mai a esercitare un impero assoluto, e questo perché esse esistono solo quando mettono in movimento qualche catena causale; il risultato delle azioni di ciascun individuo non è mai totalmente coestensivo alle sue intenzioni, giacché il risultato dell’azione di ciascun soggetto interferisce sul risultato delle azioni degli altri; la risultante finale, quindi, sfugge per definizione alle intenzioni dei vari soggetti particolari. Il processo sociale nella sua totalità appare il risultato della interazione fra molteplici catene causali, messe in moto dai vari attori sociali: la risultante oltrepassa dunque necessariamente le intenzioni individuali, essa ha, secondo Lukács, carattere causale e non teleologico.

Sotto il segno di questa tesi generale, egli può distinguere fra le azioni messe in moto negli individui dagli imperativi della riproduzione economica, azioni caratterizzate da una sorta di urgenza vitale ed eseguite «pena la rovina», e le azioni sviluppate nelle zone più lontane dall’attività economica immediata, dove il «coefficiente d’incertezza» (Unsicherheitskoeffizient) circa il loro esito è più grande. Ma lo sviluppo delle attitudini e delle qualità richieste dagli imperativi della crescita economica (lo sviluppo delle forze produttive) non significa necessariamente sviluppo armonioso della personalità. Potremmo dire che Lukács ricerca nello spazio interiore della personalità gli effetti della legge dello sviluppo ineguale dei vari complessi sociali. È in questo senso che egli a un certo momento può fare, nei Prolegomeni, un paragone un po’ azzardato fra il livello morale di una stenodattilografa media di oggi e quello di Antigone o di Andromaca: la prima possiede, a lui sembra, senza dubbio più possibilità, quantitativamente parlando, ma sotto il profilo morale la differenza di livello fra le eroine antiche e questa figura standard della «società di massa» resta immensa[11] .

La parte più interessante dell’Ontologia dell’essere sociale è dedicata a quel che potremmo definire una fenomenologia della soggettività. Le distinzioni fra oggettivazione (Vergegenständlichung) e alienazione (Entäusserung), fra reificazione «innocente» e reificazione estraniante, fra moltiplicazione delle qualità o attitudini e loro sintesi nell’armonia della personalità morale, fra il genere umano in-sé e il genere umano per-sé, appartengono a questo capitolo. L’estraniazione è definita come contraddizione fra sviluppo delle qualità e sviluppo della personalità. Proseguendo le analisi hegeliane del capitolo sulla «coscienza infelice» della Fenomenologia dello spirito, ovvero la distinzione hegeliana fra spirito oggettivo e spirito assoluto, Lukács può mostrare quanto sia complesso e laborioso il cammino che porta a un superamento autentico dell’estraniazione. Ai suoi occhi, mentre le oggettivazioni della specie umana sono per la maggior parte (le istituzioni politiche, giuridiche, religiosa, ecc.) nate al fine di assicurare il funzionamento del genere umano in-sé, per contro le grandi azioni morali, la grande arte e la vera filosofia incarnano nella storia le aspirazioni del genere umano per-sé. Le pagine migliori dell’Ontologia dell’essere sociale sono probabilmente quelle in cui Lukács analizza la tensione fra queste aspirazioni irreprimibili e una humanitas autentica dell’homo humanus e il possente accumularsi di meccanismi economici, di istituzioni e di norme che assicurano la riproduzione dello status quo sociale.

C’è palesemente una continuità profonda fra Il giovane Hegel e l’Ontologia dell’essere sociale: le analisi dedicate nella prima opera alle «figure della coscienza» stabilite nella Fenomenologia dello spirito nonché al famoso processo dell’«alienazione» del soggetto e al recupero da tale alienazione (die Entäusserung und ihre Rücknahme) vengono sostituite nella seconda dalle analisi dedicate ai differenti livelli della soggettività (soggettività «naturale» della vita quotidiana, reificazione «innocente» e reificazione estraniante, estraniazione propriamente detta, specie umana in-sé e specie umana per-sé) e al lungo e complicato tragitto che conduce alla vera esistenza non-estraniata del genere umano.

A titolo d’esempio si potrebbe citare il modo in cui Lukács riprende l’analisi hegeliana della «coscienza infelice», illustrata dalla crisi che segna la tarda antichità. La dissoluzione della polis getta gli individui in una esistenza puramente «privata», senza appigli per il senso immanente della loro vita. In quest’epoca la coscienza degli individui appare scissa o dilaniata. Lo stoicismo e l’epicureismo si sforzano di trovare per essa delle risposte. L’analisi che Hegel nella Fenomenologia dello spirito dedica a questa coscienza scissa (il paragrafo sulla «coscienza infelice») mette in luce una separazione fra il piano dell’«inessenziale» e il piano dell’«essenziale» della coscienza, fra l’autocoscienza «trasmutabile» e l’autocoscienza «intrasmutabile». Lukács identifica la coscienza inessenziale ovvero trasmutabile con quella degli individui preda di una esistenza quotidiana priva di senso dell’interiorità, marchiata dalla pura «particolarità»; costoro proiettano il loro bisogno di essenzialità nella irrealtà di un essere astratto, localizzato nella trascendenza. La coscienza infelice si muove fra il bisogno dell’individuo di liberarsi del nulla della sua «inessenzialità instabile», che è la sua condizione reale, e la ricerca di salvezza in una «essenzialità» irreale. Per Lukács si tratta di un modo di rendere perenne il bisogno religioso, perché così si canonizza la tensione fra una esistenza puramente «creaturale» ovvero «particolare» e la volontà di accedere all’«essenziale» e all’«intrasmutabile», fuggendo dalla gabbia rappresentata dall’esistenza terrestre. La vera soluzione, agli occhi dell’autore dell’Ontologia dell’essere sociale, sta nell’abbandonare questo dualismo rigido[12] . Occorre scoprire nell’immanenza della vita quotidiana le mediazioni concrete che permettono di frantumare le reificazioni estranianti e di realizzare nell’effettività storica una esistenza non-estraniata.

Prolegomeni non sono affatto una semplice ripetizione delle idee sviluppate nel grande corpus dell’Ontologia dell’essere sociale, essi invece sono portatori di accenti nuovi e, talora, di contributi inediti. Pur appoggiandosi sugli acquisti ottenuti con l’immenso sforzo occorso per redigere la sua opera principale, Lukács qui si propone di mettere in luce i fondamenti stessi della sua concezione e di chiarire i problemi a partire da questa prospettiva fondamentale.

Fra i contributi nuovi va segnalata la vigorosa valorizzazione dell’idea di irreversibilità in quanto carattere che definisce la storicità, laddove quest’ultima viene considerata come la categoria fondamentale sia dell’essere della natura che dell’essere sociale. Intenzionato a contrapporre una concezione aperta dell’essere alla concezione chiusa, risoluto a demolire le vecchie interpretazioni necessitariste del cosmo e della società per aprire la via e una vera filosofia della libertà, Lukács usa i risultati di varie scienze per dimostrare che la concezione del mondo come totalità chiusa è definitivamente abolita. L’ontologia che egli preconizza è quella che concepisce l’essere come una interazione di complessi eterogenei, in perpetuo movimento e divenire, caratterizzata da una mescolanza di continuità e discontinuità, che incessantemente produce il nuovo e la cui caratteristica fondamentale è l’irreversibilità.

Lukács fa risalire a Marx l’origine di questa concezione (più precisamente alla tesi del giovane Marx: «Noi conosciamo una sola scienza, la scienza della storia») e nei Prolegomeni dedica una attenzione tutta particolare alla Dissertazione di Marx – nella quale si ha un confronto fra il materialismo di Democrito e quello di Epicuro – per convalidare la propria opinione secondo cui nel fondatore del marxismo è assai precoce la presenza di una ontologia di portata universale.

È, di nuovo, per la prima volta nei Prolegomeni che egli propone una riflessione sistematica sulle categorie modali (necessità, casualità, possibilità) rapportate alla realtà primordiale dell’essere. È vero che aveva già toccato questi problemi nel primo volume dell’Ontologia dell’essere sociale, al momento di discutere criticamente l’ontologia di Hartmann e poi nell’analisi delle determinazioni riflessive (Reflexionsbestimmungen) nella Logica di Hegel, ma è nei Prolegomeni che egli fa il punto sulla questione.

L’approccio al problema delle categorie proposto da Hartmann nelle sue grandi opere, da Der Aufbau der realen Welt a Möglichkeit und Wirklichkeit a Philosophie der Natur, segna visibilmente il discorso lukacsiano, quantunque il suo nome venga citato raramente. La lettura ontologica di Marx deve molto alle suggestioni venute dai lavori di Hartmann. Questo ponte gettato fra due pensieri apparentemente così eterogenei fra loro è uno degli aspetti più caratteristici della filosofia dell’ultimo Lukács[13] . La novità del suo punto di vista risiede nell’accento molto più forte posto sulla storicità e la genesi delle categorie stesse. Traendo pieno profitto dalla vera e propria detrascendentalizzazione delle categorie operata da Hartmann (il quale aveva molto insistito sulla connessione fra le categorie e il «concreto», das Konkretum, cioè a dire sulla loro dipendenza primordiale dall’essere che le sottende), Lukács si sforza di mostrare che il carattere per definizione processuale dell’essere implica anche una genesi e un divenire delle categorie. Universalia in rebus, e niente affatto pure «determinazioni dell’intelletto» applicate sull’essere, come voleva la tradizione kantiana, le categorie hanno una sfera di validità circoscritta dal substrato di cui sono determinazione e possiedono quindi uno statuto storico. Tutt’altro che rappresentare qualcosa privo di genesi o delle determinazioni a priori (Kant), esse sono un prodotto della storia dell’essere (l’universale concreto di Hegel è una geniale anticipazione di questo punto di vista genetico-ontologico circa la natura delle categorie). La teleologia, per esempio, è una categoria eminentemente storica: è nata a un certo momento della storia, quando la coscienza umana ha proiettato il proprio lume sul mondo delle cose introducendo nelle catene causali oggettive il marchio del nesso finale (la nascita del processo teleologico coincide dunque con l’emersione del lavoro), giacché la natura in-sé, inorganica e organica, non conosce il finalismo, ma soltanto la causalità.

La svolta di Lukács verso l’ontologia effettuata con il proposito di privilegiare la ratio essendi rispetto alla ratio cognoscendi ha potuto essere interpretata come un ritorno a una ontologia precritica e predialettica[14] . Ma le cose stanno esattamente al contrario. Se Lukács privilegia l’ontologia e respinge il primato della logica o della gnoseologia nella riflessione filosofica, è perché si rifiuta di chiudere la ricchezza, la densità e l’eterogeneità del reale nello schema delle categorie puramente riflessive, logiche o cognitive. La precisione con cui Nicolai Hartmann aveva tracciato le linee di demarcazione fra l’ontologia, da una parte, e la logica e la gnoseologia, dall’altra parte, pretendendo un fondamento rigorosamente critico delle categorie (sta tutto qui il senso dell’«ontologia critica») ha avuto un effetto benefico anche sul pensiero di Lukács. È in nome di una tale ontologia critica (e per nulla «precritica» e tantomeno «predialettica»!) che nell’Ontologia dell’essere sociale e in specie nei Prolegomeni Lukács va sulle tracce delle tante forme di reificazione del pensiero e del reale, dalla teoria platonica delle idee fino al criticismo kantiano o al logicismo nelle sue diverse varianti, dalla ontologia logicizzante e criptoteleologica di Hegel (che Lukács distingue accuratamente dalla «vera ontologia» hegeliana, concretata nella logica dell’essenza) fino agli scritti dei neopositivisti moderni, che sacrificano l’autonomia ontologica del reale alla sua manipolazione pragmatica. Egli può così dimostrare, per esempio, l’inconsistenza di una famosa «legge della dialettica»: la negazione della negazione. Sottomettendola alla prova di un rigoroso controllo ontologico, egli riesce a indicare gli effetti negativi prodotti dalla sua transustanziazione nel marxismo operata da Friedrich Engels.

Prolegomeni ci appaiono una introduzione indispensabile per comprendere correttamente il pensiero ontologico dell’ultimo Lukács. Sfortunatamente il testo è segnato, soprattutto nell’ultima parte, da ripetizioni faticose, con effetti di ridondanza, che rendono la lettura a volte arida. L’età molto avanzata e forse la malattia facevano l’autore meno capace di padroneggiare il proprio discorso, così vi sono dei luoghi in cui le medesime idee vengono riesposte in contesti che non conoscono la progressione rigorosa a cui i suoi scritti ci hanno abituato.

L’Ontologiadell’esseresociale nel suo insieme resta ancora un’opera insufficientemente esplorata e analizzata nella molteplicità delle sue ramificazioni: un immenso blocco erratico in un paesaggio filosofico dominato da movimenti d’idee più conformisti e poco sensibili ai grandi interrogativi ontologici.


Note
[1] Abbiamo citato altrove la lettera indirizzata a Ernst Fischer il 10 maggio 1960 dove Lukács annuncia il suo passaggio dall’Estetica all’Etica e parla dei problemi sollevati da questa dislocazione dell’asse dei suoi interessi, cfr. Nicolas Tertulian, Lukács. La rinascita dell’ontologia, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 11. Nel nostro studio Lukács’ Ontology, pubblicato nella raccolta a cura di Tom Rockmore, Lukács today, D. Reidei, Dordrecht 1988, viene riprodotto a p. 243 un frammento di questa lettera.
[2] Ernst Bloch und Georg Lukács, Dokumente zum 100. Geburtstag, a cura di Miklos Mesterhazi e György Mézei, Lukács Archivum, Budapest 1984, p. 150.
[3] Georg Lukács, Gelebtes Denken. Eine Autobiographie im Dialog, Suhrkarnp, Francoforte a/M. 1981, pp. 173-174. Trad. it. György Lukács, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo, a cura di Alberto Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 138.
[4] Nicolai Hartmannhhdrg, Möglichkeit und Wirklichkeit, Walter de Gruyter, Berlino 19663, p. 22.
[5] György Lukács, Per l’ontologia dell’essere sociale, a cura di Alberto Scarponi, I, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 354.
[6] G. Lukács, op. cit., II, 2, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 701 e 806.
[7] A proposito di tali divergenze, vedi Nicolas Tertulian, «Bloch-Lukács: La storia di un’amicizia conflittuale», in Filosofia e prassi, a cura di Rosario Musillami, Diffusioni, Milano 1989, p. 74 e sgg.
[8] Vedilo ora in Nicolai Hartmann, Kleinere Schriften, III, Walter de Gruyter, Berlino 1938, pp. 268-313.
[9] Nicolai Hartmann, Teologisches Denken, Walter de Gruyter, Berlino 1951.
[10] Ferenc Fehér, Ágnes Heller, György Márkus, Mihaly Vajda, Premessa alle «Annotazioni sull’ontologia per il compagno Lukács» e Annotazioni…, «aut aut», fascicolo speciale, gennaio-aprile 1977, p. 3 sgg.
[11] Cfr. infra, p. 189.
[12] G. Lukács, Per l’ontologia…, cit., II, pp. 654-659.
[13] Cfr. i nostri studi sull’Ontologia dell’essere sociale citati in precederla. Vedi anche Vittoria Franco, «Storia della filosofia e teoria ontologica: Lukács», nel volume La Storia della filosofia come problema, Scuola Normale Superiore, Pisa 1988, pp. 303-328.
[14] Cfr. Stefano Petrucciani, «La dialettica mancata», nel volume Filosofia e prassi, cit., pp. 102-103: «…la sua ultima filosofia finisce per restare sorda e muta di fronte alla fondamentale esigenza di giustificare in modo universalmente valido la propria verità…».
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