Il comunismo nel buio (6)
di Ennio Abate
Tra anni’60 e ’70, la storia ha spinto alcune generazioni, che pareva potessero intendersi e cooperare, su posizioni politicamente diverse e spesso in forte opposizione. È andata così e ne subiamo tuttora le conseguenze. Le separazioni spesso non si ricompongono più e al massimo si sopportano come brutte cicatrici. Al dunque, i dissensi, irrisolti e probabilmente irrisolvibili nel tempo che ancora ci resta da vivere, restano. Dialogare da dove siamo finiti (o forse eravamo già in quegli anni più luminosi) è arduo.Per il peso della sconfitta e senza più la speranza di un comune progetto. Possiamo, però, circoscrivere i nostri dissensi; e continuare a ragionarci sopra. Questo tento di fare replicando con questi appunti a Eros Barone, Beppe Corlito e Ezio Partesana . Comincio dall’intervento di Eros (qui).
@ Eros Barone
1. C’è un primo ostacolo al nostro dialogo: tu omaggi Fortini («con tutto il rispetto che si deve ai “maggiori”») ma subito dopo lo accantoni e salti a piè pari il suo scritto del 1989 (qui), dal quale io pensavo potesse partire questa riflessione sul comunismo. E con quale argomento?
Cito: «mi sembra importante prendere le distanze per il forte sapore di idealismo, di sconfitta e di potenziale opportunismo che quella definizione non sempre chiara e persuasiva, elaborata a ridosso degli eventi epocali del 1991, contiene e diffonde».
Non spieghi in cosa consista, nella definizione fortiniana di comunismo, il forte sapore d’idealismo, dove essa non sia chiara, perché non convinca e se la sconfitta sia stata reale o solo “sapore”.
Semplicemente metti da parte quello scritto e vi sostituisci le tue tesi, un bilancio della tua «militanza comunista».
Non è quello che io auspicavo, ma provo lo stesso a dirti le impressioni che ne ho ricavato, partendo dalla più immediata: a mio parere le tue Tesi non tengono conto della sconfitta né dell’attuale isolamento, nel quale tu – come me, come altri – stai affrontando il crollo di una passata militanza e la fatica di decifrare e agire in questo scenario inedito e tragico del presente.
2. Al centro delle tue Tesi sul comunismo sta la difesa del pensiero dialettico marxista.
Portare il discorso sul piano filosofico è sicuramente legittimo per un marxista, ma comporta difficoltà per i lettori (me compreso), che non hanno una solida competenza in questo campo. Per cui, evitando ogni pretesa di giudizio accurato, mi fermerò soprattutto alle impressioni che il tuo discorso mi suscita.
Quella prevalente è che tu difenda qualcosa, non dico di sacro – (un alone sacrale non manca, però, nel tono della tua prosa) -, ma di certo e immutabile. E non posso non pensare alla ripetizione delle formule ben rodate di una Scolastica: una Scolastica marxista.
3. Ad essa mi sento di riconoscere anche una funzione parzialmente positiva. Infatti, ha conservato l’attenzione su un sapere storicamente significativo, perché è stato comunque influenzato dalle lotte sociali e politiche otto-novecentesche e ne ha dato a modo suo – (per me discutibile) – una interpretazione marxista-leninista unitaria.
Questo sapere, dunque, io non lo considero del tutto morto o superato, anche se sono state sconfitte e deturpate le istituzioni (sindacati, partiti, fondazioni) che lo avevano alimentato. E, però, ne vedo i limiti e i rischi: impedisce, infatti, di riconoscere che, accostandolo, abbiamo a che fare comunque con rovine; e che non è facile capire quali siano, tra esse, le buone rovine (Fortini), che potrebbero – ma solo se si delineasse un nuovo disegno o progetto o teoria – essere utilizzate in modi appropriati. Per cui, a presentarlo invece, come tu fai, in una sua quasi perfetta e intatta originalità, a cui basterebbe togliere solo un po’ di polvere («l’opportunismo, il revisionismo, il riformismo, il centrismo e l’eclettismo»), rischi di comportarti come quel personaggio di cui Brecht disse: E quando dall’armadio / i cadaveri puzzarono / allora Jakob comprò un’azalea.
4. A me pare, cioè, che solo restando nella gabbia logicamente ferrea di tale Scolastica marxista si possa sostenere che il processo della rivoluzione comunista, scientificamente previsto da Marx, sia tuttora in atto e solo ritardato. E che a vedere fratture o discontinuità siano soltanto gli obnubilati dalle false opinioni degli «opportunisti di destra» e «di sinistra», che hanno adulterato la teoria di Marx (quasi) perfetta all’origine o si sono lasciati ingannare da altre false teorie.
Che si possa, invece, ipotizzare – sempre restando sul piano della razionalità e della scienza come indagine viva su cose vive e in mutamento – che la storia, niente affatto teleologica e lineare, abbia chiuso alcune strade (e non si sa per quanto tempo) o ne abbia aperto altre diverse da quelle previste da Marx e dal marxismo-leninismo; e che esse siano al momento quasi indecifrabili; o che il mondo nel frattempo – diciamo gli ultimi 100-200 anni – sia tanto mutato che il pensiero dialettico non lo colga più o non lo colga interamente, è da questa tua ottica del tutto impensabile.
Per te la dialettica resta la logica indefettibile di tale mutamento, resta «“l’algebra della rivoluzione”» (A. Herzen).
Può darsi. Ma me li dovrest pur far i vedere e spiegarei i segni di questa algebra, a meno che io non debba accettare per fede qualcosa che sfugge alla mia comprensione.
Posso convenire , dunque, che «ogni discorso sulla dialettica è un discorso politico, anche se in apparenza verte ‘soltanto’ su strutture concettuali». Penso, però, che, per convalidare la sua efficacia, ci sarebbe bisogno di ragionare su esempi storici o attuali; e non solo su esempi di un passato “codificato” o che si ferma al periodo di Mao, tacendo, invece, sugli eventi seguiti al 1989 e all’implosione dell’Urss ma da tempo in oscura gestazione o segnalati frammentariamente forse da “traditori”, “nemici del popolo” e “feccia della storia”.
5. Un’altra impressione: mi pare che in qualche punto la tua difesa della dialettica scada nell’estetismo.
Lo colgo, ad esempio, in questa affermazione: «Un esempio della fecondità del metodo e della concezione della dialettica è rappresentato dal Discorso alle Guardie Rosse tenuto da Mao Tse-tung nel 1966 e scandito da un ‘incipit’ formidabile: “Ogni cosa si trasforma”. Quel discorso, in cui non vi è parola che non sia al suo posto e che non sia connessa ad un preciso sistema di concetti, costituisce una pagina magistrale della dialettica marxista».
Sarà anche un incipit formidabile, potrei anche ammirare una scrittura coerente e cristallina, ma negli sviluppi della storia cinese dopo Mao non vedo – ripeto – esempi di eventi storici che confermino l’assoluta fecondità della dialettica.
6. Quanto alla tua difesa del concetto di mediazione, ti confesso che ho pensato che ti serva soprattutto per presentare positivamente ad un pubblico, che sai diffidente se non ostile, il pensiero e l’operato di Stalin; e per fissare nel dopo Stalin la rottura – l’unica da te ammessa nella continuità marxista-leninista della storia del comunismo – che andrebbe ricomposta.
È qui c’è la ragione principale che ti ha fatto saltare – come ho detto all’inizio – lo scritto di Fortini, la cui critica allo stalinismo (e al PSI stalinista e togliattiano) fu netta, mentre la sua attenzione o fiducia verso la Cina di Mao, assorbita tramite l’influenza di Edoarda Masi, mai valorizzò quel legame con il sistema sovietico.
7. «Viviamo ancora nell’età delle rivoluzioni». Sì, ma rivoluzioni di che tipo? Dall’alto o dal basso?
Non ti vengono dubbi, visto che il periodo – chiamamolo pure di restaurazione – si stia prolungando troppo? E se fosse altra cosa che una semplice restaurazione?
Dai punti fermi delle tue Tesi (dialettica, mediazione maoista) discende una lettura della storia del PCI ripercorsa dalle origini e tesa a dimostrare il tradimento e l’abbandono delle origini “sane”.
Qui la Scolastica la fa ancora più da padrona, perché ti lanci in uno scavo (per me affannoso) di una delle diatribe interne alla “tradizione comunista”: quella che più ti ha – credo – influenzato; e dalla quale sembri doverti ancora separare: quella togliattiana, che ti induce a dare un rilievo soverchiante e inattuale, al suo ruolo di grande dirigente terzinternazionalista.
E sempre per esaltare o “salvare” Stalin, il tuo vero riferimento teorico e emotivo: «mentre Stalin aveva disegnato una strategia geniale di utilizzazione delle contraddizioni fra i diversi capitalismi sia sul versante interno (approfondendo il conflitto tra la democrazia progressiva e lo Stato borghese) sia sul versante esterno (impedendo la saldatura tra paesi fascisti e paesi democratico-borghesi, che sarebbe stata esiziale per l’intero schieramento comunista internazionale), Togliatti ridusse quella strategia ad una politica di inserimento subalterno della classe operaia nelle strutture dello Stato borghese spacciandola, grazie anche all’uso del pensiero gramsciano in chiave revisionista, per una “trasformazione democratica e socialista” della società.»
8. Il punto più acuto del nostro dissenso lo vedo, dunque, proprio nella Tesi n. 8: «Per i comunisti il giudizio sulle società socialiste del XX secolo non è un feticcio, ma uno spartiacque ideologico e politico a partire dal quale è possibile riprendere un discorso di ampio respiro sull’intera esperienza del movimento operaio e comunista internazionale. Ripartire da lì ha quindi il carattere di una sfida, in quanto significa sia confutare il punto di vista che, grazie al revisionismo storico (= rovesciamento dei giudizi consolidati sulla storia del movimento comunista), si è andato affermando attraverso la vacua nozione liberal-borghese di “totalitarismo”, sia combattere l’anticomunismo ‘di sinistra’ che, attraverso la lente deformante dell’‘antistalinismo’, ha rovesciato la lettura materialistica degli avvenimenti che hanno caratterizzato il Novecento a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre».
9. Questo è anche il punto di dissenso con Fortini e la “nuova sinistra” (ed è affiorato nella polemica con Corlito e Luperini a proposito de Il Sessantotto e noi). E ti fa produrre una discutibilissima e non so quanto praticabile (e da chi) proposta: «Ripartire dal socialismo realizzato, che non va soltanto studiato e criticato, m anche difeso e valorizzato».
Ora ti chiedo – per capire qualcosa che nella foga polemica a volte viene oscurato invece che chiarito – come si possa ripartire da un socialismo che non si è affatto realizzato e, se quello che è stato definito in modo alquanto approssimativi come “socialismo reale”, di socialismo – a stare ad alcuni cenni di Marx ma anche in base a un vasto dibattito passato sotto l’etichetta di “crisi del marxismo” – aveva ben poco?
Dico questo esclusivamente in base a convinzioni che mi sono costruite sulla lettura non sistematica ma attenta e coinvolta di vari autori: Franco Fortini, Luigi Cortesi, Rita di Leo, Gianfranco La Grassa, Moshe Levin, Rossana Rossanda, Charles Bettlheim, Antonio Negri, Pier Paolo Poggio.
Per cui, pur disposto a combattere la pigrizia di tanti chiacchieroni anticomunisti o la liquidazione per decreto dei vincitori della storia sovietica o le equiparazioni difffamatorie comunismo-fascismo, se non viene almeno precisato che cosa in quelle esperienze ancora oggi vada difeso o valorizzato, questa tua proposta mi pare inaccettibile. E la ritengo impraticabile dalle stesse formazioni più o meno marxiste-leniniste che oggi sembrano ancora sostenerla. Che considero residuali o epigoniche e bloccate in un “purismo” sterile. Tanto più ne diffido perché la loro critica al PCI, istituzione per loro ortodossa e corrotta, non ha mai prodotto nessuna alternativa. (A differenza di quello che accadde con la Chiesa cattolica non c’è stato manco la nascita di una chiesa protestante…).
10. Mi chiedo come vedi il presente. Certo, ammetti che il quadro della lotta di classe è cambiato. Ma con quali conseguenze? Ti limiti a dire che è cambiato in peggio e che bisogna correggerlo per le masse, come dimostra la crescente astensione dal voto. E, pur dipingendo un mutamento tutto a vantaggio del Capitale o ammettendo che esso si sia giovato «della “terza rivoluzione” tecnologica, microelettronica ed informatica, e di una sistema globale di produzione e di scambio», per cui « il capitalismo monopolistico è stato, ed è tuttora, in grado di produrre un’enorme offerta di merci, con cui esso plasma ed orienta i bisogni della popolazione», continui a sottovalutare la tesi che il sistema sovietico sia stato sconfitto innanzitutto sul piano economico non essendo riuscito a soddisfare i “consumatori sovietici”.
E allora? Perché il sistema socialista non è stato in grado di contrastare sul piano economico, pur dai suoi dirigenti considerato fondamentale, il suo avversario capitalista?
Mi pare di cogliere qui una sottovalutazione di “errori” o “limiti” del “socialismo reale, perché tu riponi ancora le tue speranze sulla potenziale capacità egemonica degli intellettuali, senza analizzare quanto oggi sia mutata la loro condizione reale e quanto si siano deteriorate le funzioni di critica e di guida che la tradizione comunista gramsciana e del PCI in passato gli ha attribuito.
Non parliamo poi delll’aspetto “irrazionale” o “caotico” del mondo. Solo apparenza? Chi se ne occupa? La realtà mutata chi la legge fino in fondo?
Mi potrai replicare che la sostanza del capitalismo è sempre quella. E, quindi, Marx o e il marxismo-leninismo colgono ancora bene anche questa mutata (in superficie) realtà.
Ma ti pare che quello che succede a Gaza o in Ucraina o negli USA di Trump confermino la lotta di classe “per il comunismo”?
Se poi, per accertarlo questo movimento reale per il comunismo o in direzione del comunismo, mi dici che bisogna fare preliminarmente «un ripasso sulla teoria marxista della crisi», per giungere poi a definire un’idea della «attualità e maturità di una prospettiva comunista oggi», ti dico sinceramente che io non me la sento; e non ho più la possibilità di studiare in questo modo scolastico e separato da quel che mi vedo accadere attorno e che mi assilla. E continuerò, perciò, a lavorare sui miei dubbi e a tenere a bada il mio scetticismo, cercando come posso nel buio (del comunismo).
Comments
Molti militanti ignari del significato del determinismo storico lo vedono come il toro che inorridisce alla vista del drappo rosso. Non è così.
Michele Castaldo
ritengo che tu - consapevolmente o meno - abbia centrato il nodo della contraddizione, ovverossia l'esistenza o meno del libero arbitrio.
Se però tu provi a leggere e dare pieno significato a quello che qui scrivi, potrai riscontrare tutte le difficoltà a dimostrare la tua tesi, che vorrebbe contrastare la mia che nega il libero arbitrio.
Che vuol dire... "in condizioni date"? Date da cosa è a causa di cosa?
Lenin - certamente il più grande personaggio della storia moderna - quando scoppia la Rivoluzione in Russia era esule in Svizzera, non solo, ma ad una assemblea di giovani socialisti - parliamo di gennaio 1917 - disse che in Europa la rivoluzione ormai era di là da venire, e ancor peggio in Russia.
Dopo solo 20 giorni (20 giorni, non 20 anni) scoppia la rivoluzione di febbraio (l'8 marzo, giornata internazionale della donna lavoratrice).
I bolscevichi furono presi per il bavero, dalle donne che protestavano contro la guerra e costretti ad a dare alle fabbriche e sollecitare gli scioperi. Lenin arriverà ad aprile e si schierera' contro la partecipazione dei bolscevichi al governo provvisorio.
Dunque in Lenin si concentra la forza di una rivoluzione maturata innanzitutto per la guerra e le condizioni economiche di fame vera cui le masse operaie erano sottoposti.
In quell'occasione si combinano "due" fattori, si fa per dire:
a) la forza del moto (cioè la rivoluzione) e
b) il personaggio che la raccoglie.
Dunque fu la Rivoluzione a esprimere Lenin e quando Lenin provò ad applicare il principio comunista sulla terra non venne votato dai contadini e poi fu costretto a sparargli addosso perché se ne sfottevano del comunismo e volevano arricchirsi.
Se certi teorici da quattro soldi piuttosto che parlare di ideologia avessero studiato un poco di storia non parlerebbero a vuoto.
Oggi "in condizioni date" c'è la corsa verso il nazionalismo e se c'è chi rincorre il popolo - pensando di aver trovato la leva per sollevare il mondo - non ha capito che il cosiddetto popolo agisce solo sulla base della disperazione e MAI sulla base della CONVINZIONE, come certi teorici da strapazzo pensano.
Si tratta di una lezione che ho imparato non dai libri ma dalla mia esperienza di disoccupato prima, poi operaio metalmeccanico, poi ancora edile, più ancora come lsu per finire a fare il vice bidello al liceo Peano di Roma. Una trentina di denunce, tre volte in carcere per nobilissimi motivi, e lo studio della storia, fondamentale.
Anche a 80 anni conservo lo stesso entusiasmo per il Comunismo come quando ne avevo 20, ma senza fare voli pindarici e cercare scorciatoie. È la storia che detta i tempi non l'individuo,
è la storia che produce la rivoluzione e i rivoluzionari.
Ho reso l'idea?
Michele Castaldo
Lenin fu espresso dalla Rivoluzione, non fece la rivoluzione, anzi di fronte alla impossibilità di proseguire secondo la sua volontà ideologica ebbe il coraggio di dire: "eravamo su un binario unico e obbligato della storia".
Ti faccio un solo esempio: Lenin (cioè la rivoluzione) diede la terra ai contadini - per bocche, cioè secondo il numero dei componenti della famiglia - ma pensava di sviluppare delle Comunita Agricole, mentre I contadini volevano arricchirsi e a un certo punto i bolscevichi dovettero usare le maniere forti perché essi prestavano il fianco alle armate bianche degli occidentali.
Ora un Barone continua a parlare di ideologia senza MAI riferirsi ai fatti che muovono la storia. Se tu escludi di capire le cause che determinano i fatti, ti poni su un terreno uguale e contrario a Barone.
Tutto qui.
voglio fin da subito sconfortarti ed evitare di proseguire di leggermi:
sono un convinto assertore della concezione del determinismo storico.
È chiaro che per chi persegue una concezione ideologica il determinismo storico fa venire - come dire? - l'orticaria.
Se poi aggiungo che le leggi del modo di produzione capitalistico sono IMPERSONALI, c'è da chiamare solo l'autombulanza perché si cade per terra privi di sensi.
Ora tutti quelli che finora si sono (in duecento anni) cimentati a criticare il capitalismo da un punto di vista valoriale, senza trarre un ragno dal buco. Anzi hanno prodotto illusioni su illusioni fino a scomparire del tutto.
Ci sarà una ragione si o no?
Il povero Marx, con Engels parti lancia in resta col Manifesto, poi dovette cominciare a fare I conti con un movimento storico molto più complicato di come lui da giovanotto l'aveva pensato e immaginato.
Gli epigoni, tutti, nessuno escluso - di valore molto al di sotto del maestro - hanno collezionato cantonate su cantonate. I migliori, mentre i peggiori si sono acquatati.
L'errore teorico - o se si preferisce filosofico - è consistito nel non aver compreso che il capitalismo NON È UN MODELLO, inventato a tavolino in Occidente, no, ma si è trattato di una EVOLUZIONE STORICA del rapporto degli uomini con i mezzi di produzione e lo SCAMBIO.
Pertanto chi critica il capitalismo dal punto di vista valoriale non fa che pestare l'acqua nel mortaio presupponendo un modello diverso da un punto di vista valoriale.
Dunque costoro, grandi professori universitari, si parlano addosso e si offrono al mercato del capitale che è strafelice di utilizzarli perché inoffensivi.
SI vuole un esempio? Basta leggere le critiche "umanistiche" a come sta conducendo il genocidio l'Occidente per mano dello Stato sionista di Israele nei confronti dei palestinesi e dei popoli del Medio Oriente.
E questi umanitari volgono la loro "condanna" tutta e solo nei confronti del cane da guardia - facilissimo bersaglio - Netanyahu.
Ora per determinismo storico intendo che in Medio Oriente si combatte una guerra tra l'Occidente e i paesi arabo-islamici perché la crisi economica è arrivata a un punto implosivo.
Qual'è il paradosso?
Quando il modo di produzione capitalistico cresceva gli idealistici si sperticavano a immaginare un socialismo o un comunismo come MODELLO diverso dal capitalismo, oggi che il movimento storico del modo di produzione capitalistico si avvia all'implosione sono scomparsi gli ideologisti, balbettando stantie litanie prive di senso.
Sarebbe morto il determinismo storico? Se non siamo in grado di capire cosa abbiamo sotto gli occhi, niente di grave, ci mancherebbe. Ma non sarà un nuovo Marx a illuminaci ma I FATTI, I FATTI E SOLO I FATTI.
Dunque riflettere su cosa - non chi - sta avvenendo nel mondo oggi.
Grazie
Michele Castaldo
castaldom45
ho spesso criticato - anche in modo rude - Eros Baroni per il suo modo sconclusionato di fare un bilancio sull'esperienza storica del movimento ideale del comunismo.
Nel mio piccolo ho pubblicato due libri MARX E IL TORTO DELLE COSE nel 2017 in occasione del centesimo anniversario della Rivoluzione russa e l'anno dopo pubblicai LA CRISI DI UNA TEORIA RIVOLUZIONARIA, riprendendo ( o cercando di farlo) il filo di un ragionamento che il titolo del primo libro conteneva, ovvero MARX - il pensiero ideale - è IL TORTO DELLE COSE, ovvero la realtà in via di trasformazione.
Questo metodo, come base scientifica di indagine, è certamente estraneo a Eros Barone, avvinghiati com'è a una visione mistica, dunque metafisica del l'ideale comunista.
Se il "mio" metodo è applicato con buoni risultati d'indagine alla Rivoluzione russa, lo è a maggior ragione al Maoismo (di cui sono stato lungamente infatuato) nella lettura della Cina d'oggi che alcuni ancora ostentano sicurezze in continuità col marxismo, o marxismo-leninismo. Siamo all'analfabetismo storico, teorico e filosofico.
La storia - perché è essa che produce idealita' o idealismo come espressione necessitate dalla miseria umana che produce oppressione e sfruttamento - la storia, dicevo ci ha messo sotto gli occhi i limiti di un idealismo tutto ideologico che un Eros Barone non è in grado di capire.
Ma - ecco il punto - il vizio è all'origine, ovvero nel punto di partenza di una visione meccanica della storia, ovvero in quel Manifesto di Marx e Engels che credettero di aver trovato la famosa "leva per sollevare il mondo".
Successivamente tutti gli epigoni hanno anche tentato di ragionare sul perché dei "fallimenti, ma hanno sempre salvaguardato quel cardine, ovvero che la storia è fatta dalla Lotta di classe.
Marx successivamente arriverà ad altre conclusioni fino a dire "ci siamo sbagliati sulla tenuta temporale e spaziale del capitalismo", ma gli epigoni non hanno voluto sentire ragioni.
Più ancora successivamente il povero Lenin (grande personaggio prodotto da una grande rivoluzione) ebbe a dire: "eravamo su un un binario unico e obbligato della storia" ma gli epigoni del marxismo-leninismo non hanno mai fatto lo sforzo di capire cosa volessero dire tanto Marx, Engels quanto Lenin, e continuano a ripetere assurde litanie anche perché non conoscono il cosa muove realmente la STORIA.
Conclusione: tutti coloro che ragionano sul comunismo ideologico non sono in grado di capire che il capitalismo - ovvero il modo di produzione capitalistico - non è un modello cui contrapporre un altro modello, ma si tratta di un movimento storico IMPULSATO dal rapporto degli uomini con i mezzi di produzione. Un movimento, dunque, che produce e tiene insieme più classi in un tutt'uno finché il suo insieme si tiene. Ma - ecco il punto - proprio perché è un movimento ha tre tempi da compiersi: nascita, sviluppo e morte.
Oggi - proprio quando questo generale movimento si sta avviando verso l'implosione - gli ideologisti arrancano e non sanno cosa dire.
Perdonami per la lungaggine ma non si possono scrivere cose complicate per sterili battute, e grazie per avermi letto, se ce l'hai fatto ad arrivare fino in fondo.
Michele Castaldo